L'addio alla patria di un condannato innocente - Versione Cicerone
L'addio alla patria di un condannato innocente
Versione latino Cicerone
Valeant, valeant cives mei: sint incolumes, sint florentes, sint beati: stet haec urbs praeclara mihique patria carissima, quoquo modo erit...
«Stiano bene, stiano bene i miei concittadini; siano sani e salvi, fiorenti, felici; questa mia città, a me patria carissima, sia famosa, qualunque sia il giudizio che esprimerà sul mio conto;
possano i miei concittadini godere di una repubblica serena, anche senza di me, poiché non mi spetta di gioire con loro, ma per merito mio. Me ne andrò in esilio. Se proprio non potrò cogliere i frutti di una sana amministrazione, almeno mi sarò liberato dell'incubo di una tirannide e, non appena avrò trovato una città ben governata e libera, vi stabilirò la mia dimora». E poi aggiunge: «Quanta fatica per niente, quante illusorie speranze, quanti pensieri inutili!
Quando io, mentre lo stato era oppresso, mi dedicai, in qualità di tribuno della plebe, alla causa del senato, che avevo trovato privo ormai di ogni potere, ai cavalieri romani, le cui forze andavano spegnendosi, alla gente perbene, che si era spogliata di tutti i suoi diritti di fronte alle armi dei Clodiani, avrei mai potuto immaginare che mi sarebbe venuto a mancare il sostegno dei cittadini onesti? E quando io», questo me lo ripete molto spesso, «ti ho restituito alla patria, avrei potuto credere che in patria non ci sarebbe stato un posto per me? Dove sono andati a finire ora il senato che ho sempre appoggiato, cavalieri romani a te devoti, dove sono gli abitanti dei municipi a me favorevoli e le voci che si alzavano da tutta Italia, dove, infine, le tue parole di difesa, Marco Tullio, che a moltissimi furono d'aiuto?
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