da Sammy93 » 15 mar 2009, 15:56
Oppure c'è l'intervista da tv sorrisi e canzoni:
Fra la via Emilia e il rock. Da quelle parti c'è una chitarra acustica che ha la cassa armonica a Correggio e a Roncocesi nel reggiano e le corde che salgono su a Zocca nell'appennino modenese. Paesi dove sono nati, nell'ordine, Ligabue, Zucchero, Vasco. «L'Emilia è una terra fatta di gente passionale che ha un forte bisogno di comunicare. Qui c'è sempre stata la possibilità di poterti esibire vuoi nella piazza del tuo paese, vuoi nei tanti locali. Insomma avevi l'opportunità di avere un pubblico e di metterti alla prova». Chi parla è il più giovane dei tre, il Liga di Correggio, ma ormai con 20 anni di carriera sulla chitarra «la prima» ricorda Ligabue «me la regalò mio padre dopo avermi sempre detto che i musicisti sono dei morti di fame, avevo 15 anni». «Mio padre» continua «era un tipo tosto, era un'anima irrequieta, ha cambiato decine di lavori, si stancava presto. Ha gestito anche una balera, conosceva l'ambiente e i musicisti, sapeva che era dura, non ho mai capito perché mi fece quel regalo, ma sapeva che mi piaceva la musica, ne ascoltavo tanta».
Venti anni di carriera che Ligabue ha raccolto in due album, due «best of», il meglio di una produzione musicale ricca di 18 album e altre canzoni. Da amante del calcio il Liga li ha chiamati «Primo Tempo» e «Secondo tempo». Il primo l'ha «giocato» nel novembre dello scorso anno, col secondo è sceso in campo alla fine di maggio dopo aver scaldato il pubblico con il singolo «Il centro del mondo», primo dei tre inediti contenuti nel cd, arricchito da un dvd con 21 videoclip. Una seconda rilettura della storia del suo rock che va dal 1997 al 2005 (dagli album «Su e giù dal palco» a «Nome e cognome») con tre nuovi capitoli: il già citato «Il centro del mondo», «Il mio pensiero» e «Ho ancora la forza», scritto nel 2000 con Francesco Guccini e inciso quell'anno dal cantautore modenese. Rilettura, perché i brani del passato sono stati riportati a nuova vita musicale in uno studio di masterizzazione di New York e da una band in parte rinnovata (al basso e alla batteria gli americani Kave Rastegar e Michael Urbano) con cui Ligabue ha suonato dal 7 al 28 aprile scorso in Europa: Amsterdam, Madrid, Barcellona, Parigi, Zurigo, Amburgo, Monaco, Berlino e Londra. E con la quale tornerà sul palco il 4 luglio prossimo a Milano a San Siro, prima data del suo tour italiano.
E il palco per Ligabue «è la cosa più bella di questo “mestiere”, non c'è gara: è quello il mio centro del mondo. Io ho bisogno di suonare, ho bisogno di fare più concerti che posso perché mi fa stare bene. E ho anche la scusa che se non suono le persone che stanno con me non lavorano e quindi ho sempre l'alibi per fare sempre più quello che faccio».
Due, di quelle persone, però non suonano più con lei, è stata una scelta difficile?
«Dolorosa. Ho sofferto nel comunicare a due persone così in gamba come Rigo (Righetti, il bassista ndr) e Robby (Pellati, il batterista ndr) che in questo tour non ci sarebbero stati. Le persone che lavorano con me devono avere anche precise caratteristiche umane, dobbiamo stare bene insieme e loro sono con me da ben 14 anni. Mi dispiace è una scelta alla quale sono stato chiamato: Corrado (Rustici) il mio produttore ha voluto una nuova sezione ritmica. Rigo e Robby hanno capito, sono stati molto comprensivi».
A proposito di dolore, qual è l'ultima volta che ha pianto?
«Io posso piangere per una canzone. E mi è successo proprio pochi giorni fa vedendo un dvd di David Bowie, di cui, fra l'altro, non sono mai stato un fan. Il video si riferiva a un suo concerto a Dublino che credo risalga a due anni fa e Bowie stata interpretando una strana versione di un suo famosissimo brano, “Heroes”. Se vogliamo anche un po' fastidiosa per chi come me ama quella canzone che è una grande canzone d'amore. Bowie è algido, si concede raramente ma in quel momento viene travolto dall'emozione che gli rimbalza dal pubblico che lo sta ascoltando. Un'emozione che quasi lo sfigura, non sembra più lui, talmente forte che ha coinvolto anche me. Mi sono trovato a piangere, io tendo a commuovermi facilmente quando vedo l'emozione negli altri. Pensi che mi succede anche con dei brutti film sportivi americani nel vedere nel pubblico l'emozione provocata dall'eroe che, inevitabilmente, vince. Sono un po' fatto così».
A proposito d'amore, lei solo da poco tempo nelle sue canzoni ne parla in maniera diretta cos'è cambiato?
«Diciamo che la parola amore prima era più nascosta. Principalmente per un motivo di pudore, ora ho meno problemi, ora ne parlo con una certa frequenza però la mia idea di intendere l'amore non è necessariamente il sentimento che si prova per una donna, ma è in realtà uno stato d'animo a volte prodotto da ciò che provi per una persona che poi si espande ad altri. È la capacità in qualche modo di vedere con meno ostilità chi ti sta intorno, il mondo che è intorno a te. Ti arriva questo sentimento di pacificazione con il resto del mondo che io definisco amore».
In questo momento si sente in pace con il mondo?
«Ho fiducia nel mondo. Oddio non sono Biancaneve, vedo cosa succede, vivo le mie preoccupazioni, so che vivo in un Paese che ha continue difficoltà, ma questo fortunatamente non va a scalfire questa fiducia. Sto attraversando una bella fase, spero che duri».
Cosa c'è al centro del mondo di Ligabue?
«Questa canzone dice che gli effetti dell'amore sono potentissimi, quando tu riesci a lasciarti andare all'amore sei più rilassato e hai un rapporto con il mondo più aperto, meno conflittuale per cui alla fine quando è così ti senti più facilmente al centro del mondo. In questo momento per me è così ma non per l'egocentrismo che ovviamente ho, altrimenti non andrei sul palco. Mi sento spesso al centro del mondo, almeno il mio».
Qual è la sua canzone d'amore per eccellenza?
«Più che le canzoni d'amore compiuto mi piacciono le canzoni di promessa d'amore e quella che in qualche modo mi scatena un'energia bellissima è “Born to Run” di Bruce Springsteen...perché è la storia di uno che si presenta davanti a una con la consapevolezza che non sono più così giovani. Lei non si ritiene così bella, ma lui le dice che è speciale per se stesso e da quella promessa d'amore cominciano a costruire un'ipotesi di futuro: “...un giorno babe/non so quando/ arriveremo/dove davvero vogliamo andare”. La promessa ti fa ancora pensare a cosa può accadere dopo. A volte è molto difficile raccontare quello che c'è, perché quello che c'è è molto meglio delle parole che lo possono descrivere».
Una tua canzone d'amore?
«Beh “Il centro del mondo” è una canzone d'amore a tutti gli effetti».
Hai cominciato tardi questo mestiere.
«Sì, ho cominciato tardi, se fossi stato un po' più furbo avrei cominciato prima.. ma no è che andata così».
È stato Pierangelo Bertoli, il compianto cantautore di Sassuolo a scoprirti.
«Bertoli è stato decisivo. Mi ha molto cortesemente, molto gentilmente ospitato a casa sua per sentire cosa facevo. Io mi vergognavo come un cane ma Andrea Maioli, che era già il mio manager quando nessuno dei due sapesse cosa volesse dire, trova sull'elenco telefonico di Sassuolo il numero di telefono di Bertoli, lo chiama e gli dice «senti io sono il manager di uno veramente bravo» e lui dice «venite qua e vediamo se è veramente bravo». É andata così, siamo andati a casa sua, mi ha ascoltato, è nata un'amicizia, lui ha anche inciso due mie canzoni “Sogni di rock ‘n ‘roll” nell'88 e “Figlio di un cane” l'anno dopo. Quella roba lì mi ha convinto a lasciare da parte i pudori, le timidezze e partire».
C'è un altro cantautore della zona nella tua storia musicale, Francesco Guccini, nell'ultimo cd c'è una canzone, «Ho ancora la forza» che avete scritto insieme nel 2000, che lui ha cantato e che ora tu, a modo tuo, riproponi.
«Quella è una canzone nata dopo la collaborazione con Francesco nel film “Radiofreccia” dove lui aveva la parte del barista. Da una reciproca simpatia, dopo il film, ci è venuta voglia di scrivere qualcosa insieme e che sapevamo che sarebbe finita nel suo album. È una canzone che parla di Guccini, nel testo originale dice «abito sempre qui da me in questa stessa strada che non sai mai se c'è», che poi è via Paolo Fabbri 43 che non solo è l'indirizzo di casa sua, ma anche il titolo di un album perché lui è così trasparente. Lui questo pezzo l'ha cantato dopo 35 anni di carriera, a me è venuta voglia di farlo a metà carriera rispetto alla sua, un po' prima anche se quasi 20 anni non sono pochi. Avevo semplicemente voglia di far sapere che anch'io ho ancora la forza di dire la mia, l'ho personalizzata ho cambiato un po' il testo, ma soprattutto l'impatto musicale. Sembra proprio un'altra canzone. Quando fai uscire il tuo best off, si dice sia il momento in cui fai un po' i conti con la tua discografia: c'è stato un “primo» e un “secondo tempo” e a questo punto finisce la partita...ecco perché abbiamo messo questa canzone alla fine, perché è finita questa partita, ma ho ancora la forza di cominciarne un'altra».
Il terzo dei tre brani inediti dell'album è «Il mio pensiero», qual è il suo più ricorrente?
«Ha a che fare con la musica e con le cose che devo fare che in realtà non arrivano mai ad essere un mestiere, ma sono un modo bellissimo per vivere la giornata. Ovviamente ho altri pensieri ricorrenti, alcuni non si possono raccontare ...poi sono genitore, è facile capire a chi e a cosa penso ogni giorno».
Che padre è Ligabue?
«Visto il “mestiere” che faccio, praticamente a tempo pieno, credo di essere un padre tutto sommato neanche male, abbastanza presente. Sono il padre di un bambino (Lorenzo 10 anni) figlio di una coppia separata e di una bambina (Linda, 4 ad agosto) che invece vive con me. La mia ex moglie (Donatella) per mia grande fortuna è una donna eccezionale, il nostro rapporto è ottimo, il modo che abbiamo di vivere il nostro tempo con il bambino non è dettato da alcuna regola, non ci sono disposizioni stabilite da avvocati. Fra noi basta una telefonata, “oggi ho tempo, passo a prendere Lorenzo”. Tutto molto semplice».
Dicono che oggi sei più pop e meno rock, personalmente non ci crediamo.
«Qualcuno lo ha detto, ma forse perché due dei tre inediti del cd hanno un diverso arrangiamento. Ci sono strumenti, come gli archi ad esempio, che hanno più a che fare col pop. Ma l'importante è che la canzone sia bella e abbia il vestito adatto a lei. Comunque io mi ritengo rock per l'urgenza delle cose che ho da dire, è rock chi non ha pudore delle proprie emozioni e te le sbatte in faccia. Basta un pezzo voce e chitarra ed è già rock. Io, fortunatamente per certi aspetti e sfortunatamente per altri, non ho il pudore delle mie emozioni e le ho sempre urlate le sempre sbattute in faccia alla gente. Mi è servita la musica ma evidentemente non era così difficile per me, ma serviva la musica per farlo quindi è chiaro che nella mia testa comunque se io mi devo definire mi definisco così, rock. Per me è molto più rock un John Lee Hooker, che in realtà faceva del blues ma con la sua chitarra riusciva a far arrivare la potenza delle sue emozioni, che non un metallaro che fa tremila note al minuto. Mi ritengo ancora rock per l'urgenza delle cose che devo dire».
Però hai scritto una canzone dal titolo «Ho perso le parole»...
«Perché in certi casi capisci che le parole hanno una funzione molto relativa. Succede che devi arrenderti al fatto che le parole in certi momenti non contano. Come nel caso di un mio carissimo amico che stava spegnendosi e che stava affrontando una malattia senza speranza. Ecco, in quei casi le tue parole non contano più, l'unica cosa che sono riuscito a fare e scrivere una canzone, “Il giorno di dolore che uno ha”. Prendiamo il film “RadioFreccia”: il protagonista, un ragazzo di 20 anni, muore di overdose che si fa dopo una fortissima delusione d'amore. Cosa vuoi dire...ci sono momenti nei quali le parole le perdi e basta e prendi atto che non le puoi usare. A me le parole le chiedono spesso e io ne dico tante, forse anche troppe».
Di cosa ti piace scrivere?
«Io sono sempre stato interessato a scrivere a raccontare della vita come io la vedo e l'ho vista. E la vedi diversa giorno per giorno, la vedi anche a secondo come cambi come cambiano le cose intorno a te a seconda del fatto che un giorno sei più suscettibile a farti colpire da un episodio piuttosto che da un altro. Io ho sempre parlato di esistenza, se c'è un aggettivo che possono permettermi di spendere per le mie canzoni è che sono “esistenziali” perché vogliono parlare di vita e soprattutto del bisogno di vivere. Io ho sempre avuto la necessità di parlare del mio bisogno di vivere, attenzione e non di sopravvivere. Se guardiamo ai personaggi che racconto sono tutti cazzuti da questo punto di vista. Loro vogliono vivere non vogliono accettare di sopravvivere».
Due inediti nel «Primo Tempo», tre nel «Secondo»... lavorando un po' di più si poteva fare un album nuovo.
«Ci sarà (sorride), ma quando adesso francamente non lo so, non lo posso proprio dire... ne parleremo nel 2009...roba scritta ce n'è».
Pezzi «lofi che ora non lo sono più», come dice una sua canzone, «Ti sento»?
«Può essere perché ci sono pezzi che in un certo momento ti possono sembrare lofi, nel mio dialetto “scarsi”, e invece il tempo ti fa cambiare valutazione. Io scrivo spesso proprio per non pensare a scrivere cioè per non avere l'ansia di scrivere e voglio avere il diritto di scrivere anche delle porcherie. È una cosa fra me e me, dopodichè se in mezzo a tutto il materiale che scrivo viene fuori anche il materiale buono per farci un album tanto meglio, ma è un problema che mi pongo sempre quando in qualche modo comincio ad avvertire il bisogno di incidere».
In una sua canzone. «Ho messo via» del 1993 canta, appunto, di aver messo via un po' di cose... illusioni, fotografie, rumori, consigli... Da allora cos'altro ha messo da parte?
«Ho continuato a mettere via. Si mettono via le esperienze, le disillusioni, si mettono via anche un po' di entusiasmi. Fortunatamente si mettono via anche i dolori. Ho passato un periodo tosto, eventi negativi. Nell'arco di tre anni ho avuto diversi lutti, separazioni. Sì ho avuto un periodo piuttosto difficile. In realtà sappiamo benissimo che non mettiamo mai via niente perché tutto quello che abbiamo vissuto alla fine resta lì e fa capolino quando vuole lui o quando capita»
Cosa è successo al Liga in questi 20 anni?
«Ho avuto modo di vedere l'affetto della gente e come alimentandosi sia cresciuto. Io vivo un costante sentimento di gratitudine, faccio fatica a indirizzare questo sentimento verso qualcosa di specifico, verso il cielo. Sono grato: è un sentimento che dirigo così in generale verso il mondo per avere l'opportunità di fare un mestiere che non è un mestiere e che continua a farmi provare delle emozioni forti e soprattutto avere l'affetto di così tanta gente. Per me è una fortuna impagabile. Ma attenzione: questo è un mestiere di precari, il successo non è fatto per durare...va, viene. In certi momenti è importante in altri meno e non è detto che prima o poi venga a dirti addio. E allora io cerco di pensarci il meno possibile e nel frattempo godo di tutte le cose belle che mi capitano».
Nel servizio fotografico di Sorrisi la vediamo con alcuni oggetti: una chitarra, un automobile «Maggiolone», un biliardino, una cinepresa, un jukebox. Cominciamo dalla chitarra.
«È uno strumento benedetto. Ancora oggi le canzoni le compongo alla chitarra, acustica per di più. Raramente mi metto a comporre al pianoforte. Basta un pezzo voce e chitarra ed è subito rock. La chitarra te la puoi portare dietro ovunque e, almeno per me, mi sembra abbia sempre delle cose nuove dentro: un giro armonico, uno spunto melodico che ti fa partire un'idea».
Il biliardino...
«Il biliardino ha due significati: il bar e il calcio. Il bar, naturalmente per me il Bar Mario, è un altro “Centro del mondo”, luogo di partenza e ritorno. Il calcio è un'altra mia grande passione, tifo per l'Inter e a proposito mi è dispiaciuto molto che abbiano mandato via Roberto Mancini. A me era proprio simpatico, mi è simpatica la sua trasparenza. Gli auguro le migliori fortune così come, da interista, le auguro a Josè Mourinho che però valuterò meglio sul campo».
Il jukebox...
«Quando ero bambino mi portavano al mare in Liguria e io mi infrattavo dietro ai bagni dove c'erano coppie che limonavano, lì vicino al jukebox sulle note di Gianni Morandi, Massimo Ranieri, ma anche dei Beatles e dei Rolling Stones. Un miscuglio strano quanto fantastico, non capivo bene cosa facessero quelle coppiette, che gusto ci provassero a stare così appiccicati, ma io godevo della musica che ovviamente sceglievano loro perché io monetine non ne avevo. Il jukebox mi è rimasto dentro».
Il Maggiolone...
«Il Maggiolone è stata la mia seconda macchina. La prima era inguardabile e io mi vergognavo a girarci e non riuscivo a farci salire nessuna ragazza. Col Maggiolone andò un po' meglio però non aveva i ribaltabili. Consumava tantissimo, ma la sentivo veramente mia, è finita anche nella canzone “Marlon Brando è sempre lui”: “lui aveva un vecchio Maggiolone sfatto/ma piaceva tanto a lei”. Il mio non era cabrio ed era di colore azzurro aviazione».
La cinepresa...
«L'altra mia grande passione, il cinema. E ho avuto addirittura il privilegio di poterlo fare con “Radiofreccia” e “Da zero a dieci”, un'esperienza tostissima che mi piacerebbe rifare. E me lo stanno chiedendo, ma un film lo si fa quando si ha una storia da raccontare. Specialmente se uno non è un regista, perché un regista la storia se la deve cercare nel mio caso è la storia che deve cercare e trovare me. Se succederà farò un terzo film sempre che quelli che me lo chiedono nel frattempo non si siano rotti...».
Un'ultima domanda, qual è il suo obiettivo?
«Le rispondo con le parole di una mia canzone, “Leggero” di quasi dieci anni fa: “leggero nel vestito migliore/nella testa un po' di sole/ ed in bocca una canzone”. Questo continuo a cantarmi per dirmi “ciccio, è lì che devi arrivare”».