help...tesina!!!

Messaggioda ely » 20 ago 2008, 12:22

ciao a tutti!!!
ho bisogno del vostro aiuto....
per i compiti delle vacanze dovrei fare una tesina riguardo la figura dell'intellettuale nel suo cammino nel verso contro la società del tempo...


gli autori ke bisogna considerare sono:
manzoni
verga
svevo
pirandello
moravia

c'è qualk1 ke mi puoi aiutare???per lo meno ke mi dica com'è il pensiero di qualke autore nominato sopra...

Ringrazio anticipatamente

ely

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Risposte:

Messaggioda Shady » 20 ago 2008, 13:01

Manzoni

Manzoni è il rappresentante più significativo del movimento romantico italiano. In lui si realizza la sintesi delle idee illuministiche con quelle cristiane. Vi è quindi il rifiuto del materialismo ateo di Foscolo e Leopardi, ma non quello delle idee illuministiche di giustizia, libertà, uguaglianza, fraternità, le quali però vengono per così dire "battezzate" da una religiosità cattolico- giansenista, non dogmatica, ma critica, aperta alle idee democratiche e laiche del suo tempo, austera e rigorosa sul piano morale.
L'idea religiosa dominante è quella di provvidenza, grazie alla quale anche il male -secondo il Manzoni- può essere ricompreso in una visione più globale della storia. Il dolore che gli uomini soffrono a causa delle ingiustizie/oppressioni non può mai essere disperato se si ripone fiducia nella provvidenza divina. Chi vuole compiere il male è guardato dal Manzoni non con disprezzo ma con ironia, appunto perché il credente sa in anticipo che il corso della storia non può essere modificato dalle singole azioni negative degli uomini. Ovviamente per il Manzoni gli uomini non devono attendere passivamente la realizzazione del bene, ma devono avere consapevolezza, nel mentre cercano di vivere con coerenza il loro ideale evangelico di giustizia, che la realizzazione del bene dipenderà dai tempi storici della provvidenza più che dalla loro volontà. Senza questa consapevolezza gli uomini tenderebbero ad attribuire a loro stessi la causa di ogni bene, il che li porterebbe facilmente a ricadere nel male.
Sul piano poetico, Manzoni rifiuta categoricamente ogni mitologia, ogni fantasia che non abbia riscontri reali, ogni imitazione pedissequa dei classici greco-romani. Accetta la fusione della storia con la poesia (di qui ad es. il concetto di "romanzo storico"), perché se la storia racconta la verità oggettiva degli avvenimenti, la poesia può raccontare la verità soggettiva dei singoli protagonisti. La letteratura deve avere - questa è la sua formula più riuscita - l'utile per scopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo. L'invenzione deve essere limitata all'integrazione del dato storico. Il vero storico - per il Manzoni - è sempre quello che desta maggior interesse. L'arte quindi avrà un valore educativo se sarà finalizzata alla comprensione della verità storica (soprattutto la verità del popolo, degli strati sociali più umili, che fanno la storia). Scopo del drammaturgo/poeta/romanziere è quello di saper trarre dal vero reale il vero ideale, senza alterare i fatti storici, ma riservandosi uno spazio (il coro) in cui poter parlare personalmente, rendendosi interprete dei sentimenti morali dell'umanità.
Nel teatro Manzoni propone l'abolizione delle unità aristoteliche di tempo e luogo, salvando solo quella di azione. Le due unità erano rigorosamente rispettate nel teatro italiano perché si credeva, in tal modo, di poter salvaguardare il principio di verosimiglianza dell'azione degli attori. Trasportare da un luogo all'altro gli avvenimenti o prolungare l'azione aldilà di un giorno, si pensava che togliesse allo spettatore la convinzione (l'illusione) di essere direttamente coinvolto per 2 o 3 ore nell'azione degli attori. Il Manzoni invece dà per scontato che lo spettatore sappia di assistere a una finzione (il teatro stesso di per sé è illusione), per cui lo spettatore - secondo lui - non ha difficoltà ad accettare il susseguirsi d'avvenimenti concatenati che accadono in tempi e luoghi diversi. Naturalmente il drammaturgo, per poter tenere ben legati avvenimenti così separati, deve scegliere quelli più significativi, perché solo così lo spettatore potrà sentirsi coinvolto emotivamente nell'azione. Manzoni parla della sua riforma drammatica nella Lettera allo Chauvet.
Tuttavia, poco dopo aver scritto i Promessi sposi, il Manzoni nega l'utilità del romanzo storico, sostenendo che la verità che la storia ci fa conoscere è sufficiente; per cui o si fa storia o si fa invenzione.
Il Manzoni era partito bene con quelle sue idee giacobine e ateo-illuministiche, ma la conversione al cattolicesimo ne ha ostacolato fortemente lo sviluppo.
Probabilmente egli aveva capito, a Parigi, che cultura e politica devono marciare insieme per essere entrambe vere, autentiche, ma siccome il suo personale temperamento gli impediva di condividere, sino in fondo, in maniera partecipata, le idee e le esigenze della politica democratica e rivoluzionaria, egli preferì puntare la sua attenzione sulla cultura, trasferendo su questa le qualità realistiche di quella politica più vicina alle aspirazioni popolari.
Conseguentemente la sua letteratura diventò, allo stesso tempo, realistica e poetica, storicistica e romanzata. Connubio, questo, che al Manzoni piaceva e dispiaceva, proprio perché egli si rendeva conto che con esso non si potevano soddisfare appieno le esigenze del vero. Esigenze che possono e debbono essere soddisfatte coll'impegno politico attivo, a favore della democrazia, oltre che coll'impegno culturale e sociale. Il Manzoni - come noto - si limitò a circoscrivere ideologicamente tale impegno alla valorizzazione del "vero storico", volgendo sì lo sguardo al presente, ma come intellettuale culturalmente, non politicamente impegnato.
La sua esperienza, ancora una volta, ha dimostrato i limiti della religione, che sono appunto quelli di negare valore, da un lato, alla politica rivoluzionaria, giustificando, dall'altro, l'oppressione esistente. Di qui il suo accentuato moralismo, la sua idea paternalistica di "provvidenza", la sottile quanto fastidiosa ironia nei confronti del "male" e di chi cerca di opporvisi con mezzi propri, senza rimettersi nelle mani di dio. Al Manzoni tuttavia bisogna riconoscere un pregio, quello di non aver mai abbracciato le idee clericali del suo tempo.

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Verga

Verga romantico-patriottico

Le opere dei primi anni preannunciano solo in parte i futuri indirizzi del pensiero e dell'arte del Verga. Esse costituiscono la momentanea espressione della sua giovinezza siciliana e dei tempi eroici della seconda guerra d'indipendenza e dell'impresa dei Mille. Sono tre romanzi storici ispirati alle vicende reali del tempo e animati da un'intensa passione patriottica. "Amore e patria" è il primo romanzo che il Verga scrisse a 16 anni e poi rimasto inedito. "I carbonari della montagna", in quattro volumi, narrano un episodio della rivolta calabrese contro i francesi sulle lagune e la storia della vita politica veneziana sotto gli austriaci, con l'intreccio di una storia d'amore tra una fanciulla italiana e un giovane ufficiale ungherese.
Nessuno di questi tre romanzi si può però definire un'opera d'arte. La produzione del Verga in questo periodo non è ancora giunta alla piena maturità artistica.

Verga romantico – passionale

Il romanzo "Sulle lagune" tende all'ispirazione passionale col predominio dell'intreccio amoroso e della vita galante, e come la rievocazione storica del passato lasci il posto all'interesse per la cronaca contemporanea. In questo secondo periodo predominano i romanzi dominati tutti dalla passione forte e spesso drammatici. Questi, da una parte sono vicini alla letteratura romantica francese, dall'altra per la loro sensualità che preannunciano tanta parte della futura produzione dannunziana.
Una peccatrice (1866). Narra l'amore di uno studente di modeste condizioni per una donna di lusso: dapprima il giovane ama e delira per la conquista tanto desiderata, poi si stanca e si allontana. Allora la donna da superba e indifferente, senza più una ragione di vita, si avvelena fra la musica e i baci e muore alle note di un valzer. Storia di una capinera (1871). Una fanciulla, Maria, scrive ad una amica narrandole dapprima l'ardore del suo animo e poi il dolore di un'esistenza che lentamente sfiorisce per poi spegnersi in un convento. Eva (1873). La storia di un'affascinante maliarda che s' innamora di un pittore siciliano. Tigre reale (1875). Giorgio Laferlita, un uomo debole di carattere, dimentica la moglie e i figli preso dalla passione di una giovane signora russa, Nata, una donna strana, volubile, una vera tigre in amore. Eros (1875). L'ultimo dei romanzi romantici e passionali del Verga, dove si narrano le vicende amorose di un giovane signore, il marchese Alberto, che passa una vita superficiale e viziosa nei salotti di Firenze o in una villa sul Lago di Como; vita inutile che trova la sua conclusione in un colpodipistola. Quest'ultimo romanzo chiude il ciclo dell'ispirazione romantico-passionale , durato circa 15 anni, in cui descrive il motivo che porta gli uomini per una passione, una colpa, un errore a un destino che li travolge sopraffacendoli e lasciandoli impotenti e soli. Già in questi romanzi affiora la forma di un grande narratore che appare affascinante e profondamente rinnovato.

Verga verista

Possiamo datare la conversione di Verga al verismo al 1874, punto di arrivo di un lento ma approfondito travaglio spirituale. La questione meridionale primo esempi di problematica sociologica in Italia, oggetto di varie inchieste politiche (Villari, Fianchetti, Sonnino, Fortunato) indussero lo scrittore a verificare proprio sulla terra l'ineluttabilità delle leggi economiche e di classe contro le quali riteneva inutile ribellarsi. In "Fantasticheria" Verga tesse l'elogio "della morale dell'ostrica": guai a staccarsene "per brama di meglio". Il naturalismo francese stimolando la coscienza critica di un processo stilistico già in atto (carteggio con Capuana e il giornalista Cameroni), portò lo scrittore alla formulazione del principio dell'impersonalità l'unico che gli sembrava adeguarsi alla realtà storica e sociale che andava scoprendo così da far apparire l'opera d'arte "essersi fatta da se".

Adesione al realismo

Il Verga accettò lo spirito europeo rivolto al concreto, al preciso dove tutti i poeti narratori volgevano nella seconda metà dell'ottocento. L'adesione al realismo lo portò ad introdurre profondi cambiamenti stilistici. La novità più rilevante fu quella di porre di fronte al lettore solo la realtà quotidiana nella sua essenza più nuda e dolorosa. A partire dal '78 egli utilizzò nuovi strumenti conoscitivi che si espressero in contenuti nuovi e diversi da quelli romantico-sentimentali dei primi romanzi. Infatti, assimilò i canoni del darwinismo-positivistico (il senso della vita come lotta per l'esistenza, la selezione naturale, l'ambiente detrministico) e del realismo-naturalismo (abbandono di ogni autobiografismo e sentimentalismo, rappresentazione scientifica del reale, metodo dell'impersonalità). Ciò gli consentì di cogliere più in profondità strati popolari, di meglio capire le contraddizioni della società borghese, i costi alienanti del forzato progresso. Tuttavia questo non gli impedì di caratterizzare la personalità dei protagonisti dei romanzi in maniera chiara e precisa, infatti essi dimostrano una passionalità istintiva che nasce dalla realtà in cui si trovano ad agire. L'arte del Verga arrivò alla piena maturazione solo quando aderì al realismo che aveva esercitato su di lui un incredibile fascino. I grandi romanzieri come Dumas, Guerrazzi, Flaubert e Balzac, Maupassant e di Zola lo precedettero offrendogli grandiosi esemplari di letteratura universale riconosciuti per la loro validità artistica.

Accentuazione degli elementi nazionali

Pur aderendo al realismo, si allontanò dall'aspetto "scientifico" del naturalismo francese e in particolar modo da Zola che, essendo un medico e uno scienziato, trasferiva nei suoi romanzi principi enunciati dal famoso scienziato Claude Bernard. In generale il verismo italiano e il Verga si allontanarono dalle ricette scientifiche dello Zola e s'interessarono in particolar modo alle realtà quotidiane dei piccoli modi provinciali, trasfigurandone nostalgicamente i tempi e i luoghi.
Gli scrittori veristi cercarono in tal modo di voler scoprire e inquadrare i difetti e le virtù delle loro piccole provincie. Anche Verga riscoprì la sua terra, la Sicilia, cercando di riprenderne possesso, dopo il lungo esilio che l'aveva tenuto lontano, descrivendo la natura dei costumi, delle paure, dei formalismi , della civiltà tutta fatta di convenzioni. Inquadrò anche le memorie pure della sua infanzia e riprese l'amore per la sua terra. Qui vi ritornava con un animo pentito per essere stato eccessivamente critico nei confronti della sua terra, che comunque rimaneva per lui come un remoto miraggio oggetto di una disperata nostalgia.

Sentimenti del dolore e del destino

Si può affermare che la poesia italiana è nata dal pianto che alimenta tanta parte della narrativa dell'ottocento: dai "Promessi sposi" a "Piccolo mondo antico", dal "Marchese di Roccaverdina" a "Canne al vento".
Verga verista era ben lontano dalla diagnosi lucida e fredda dei naturalisti francesi; egli accentuò nei suoi racconti il dolore, la fatica, le diverse categorie sociali come se fosse lui stesso a patirle. Trovandosi dinnanzi all'inesorabilità del destino, cercò di attribuire ai suoi personaggi più significativi un sentimento di fatale remissione a quanto il destino ha fissato per ciascuno, che discerne dalla fede in Dio e dalla Provvidenza. Il denaro e il fattore economico sono il tema portante di molti suoi libri. Questo, però, non significa di solito, svilire coloro che soffrono per ragioni economiche, ma semmai accrescere l'intensità del dolore e mostrare come il destino si abbatta con costanza sugli umili, sui poveri e sui deboli.

Novità di stile e di linguaggio

Nello stile, nella sintassi, nel linguaggio, Verga verista è ben diverso dal Verga romantico. La sua conversione è stata improvvisa come diceva egli stesso. Affermava che era una storia semplice che mentre stava preparando dei romanzi gli capita in mano una specie di giornale di bordo, un manoscritto discretamente sgrammaticato e asintattico in cui un capitano narra di peripezie superate dal suo veliero. Lo colpì, lo rilesse e si accorse che era ciò che cercava senza accorgersene. A volte, diceva, basta un segno, un piccolo punto e per lui fu un fascio di luce. Da qui Verga raccoglierà passioni e le ridarà agli uomini senza alterarle o ingigantirle mettendosi egli stesso in disparte, guardando e non esaltando. La vita e l'eloquenza dei fatti parleranno da soli e le parole sincere e vere ma precise e appropriate talvolta saranno dialettali, così da risultare più spontanee e reali. La sintassi prenderà la vivacità del parlato schietta, asintattica e sarà come se fosse in bocca agli umili. Queste parole assieme alla sintassi allo stile, che parleranno di poveri e di umili, serviranno a portare nella tradizione italiana, troppo appesantita e astratta di vocaboli aristocratici, un soffio umano di vita, di ricchezza, di cose fresche e concrete. La conversione formale dal romanticismo al verismo non è stata però così improvvisa. In lui c'era da tempo la ricerca di una forma più sincera. In Verga è innata una predilezione al realismo, forse ereditata dal Manzoni, dove però l'uomo, nonostante tutto, si trova in mano a forze cieche e ignare che lo vedono chiuso e imprigionato in una realtà terrena di ansie e di pena, di ambizioni e di sconfitte.


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Svevo


Italo Svevo si presenta come un letterato atipico, che rispecchia la sua condizione di borghese declassato. La sua fu una formazione internazionale, la Trieste aperta di fine 1800, crocevia di razze e di culture tra cui quella tedesca, protestante e raffinata, quella italiana, segnata dal problema della lingua e con fremiti irredentisti, quella slava, legata al mondo contadino, e quella ebraica che costituiva un caso particolare con il suo atteggiamento arguto e tragico, fantasioso e realista. Le sue influenze culturali vanno ricercate in Freud, in Schopenhauer e in Nietzsche da cui ricava l’idea che la malattia sia una condizione intellettualmente positiva, senza la quale non si potrebbe analizzare la propria psiche e non si potrebbero superare le certezze dei "sani".
Di Marx, Svevo accetta il materialismo storico, anche se non crede ad un miglioramento sociale, mentre del determinismo Darwiniano accetta la teoria secondo la quale il comportamento umano è dovuto a leggi immutabili. In campo letterario Svevo si lega ai grandi realisti dell’ottocento come Balzac e Flaubert, oltre che a Proust e a Joyce che lo apprezzò soprattutto per la sua capacità di analizzare la personalità umana. Nei suoi romanzi (ma anche nelle novelle più riuscite) Svevo raccontò l’impossibilità, che è tipica dell’uomo moderno, di inserirsi nella società e spiegò come questo mancato inserimento derivasse da motivazioni e disagi non solo individuali, ma universali determinati da fattori non solo psicologici ma anche sociali ed economici (la lezione di Marx è ben viva, in questo senso): egli raccontò, distruggendo la forma-romanzo elaborata dal naturalismo, la fine dei grandi imperi e la crisi della piccola borghesia, ma anche la solitudine di piccoli uomini; fu quindi una delle voci più alte di quel periodo che si suole indicare come "età della crisi". Svevo va inserito in questo contesto e così si può spiegare l’incomprensione subita e la fatica a imporre la propria opera: la cultura italiana era troppo legata a modelli carducciani o dannunziani per capire Svevo, con i suoi radicali ripensamenti sull’uomo e sulla società, con la sua attenzione a svelare le menzogne e gli autoinganni con cui l’uomo moderno ammanta scelte ideali; con la sua ironia, davvero insolita nella nostra tradizione.
Oltre all’evidente diversità tra il romanzo sveviano e il romanzo tradizionale italiano, un altro fattore che contribuì al suo insuccesso iniziale nel nostro paese fu il contrasto tra i suoi temi dominanti, che andavano dall’autoinganno, all’inettitudine e all’autoironia, e le ideologie fasciste tese ad innalzare i miti della razza e del superuomo evidentemente opposte.

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Pirandello

Il pensiero del Pirandello si fonda sul rapporto dialettico tra vita e Forma.
La vita, pur essendo continuamente mobile, per un destino burlone tende a calarsi in una Forma in cui resta prigioniera ed alla quale cerca di uscire , per assumere nuove forme senza mai trovare pace. Dal rapporto tra vita e Forma deriva il relativismo psicologico, che si svolge, per così dire, in due sensi: in senso orizzontale e riguarda il rapporto dell’individuo con gli altri e in senso verticale che riguarda il rapporto dell’individuo con se stesso.
Secondo Pirandello gli uomini non sono liberi; ma sono come tanti pupi nelle mani di un burattinaio invisibile e capriccioso: il caso. Quando noi nasciamo ci troviamo inseriti per puro caso in una società precostituita regolata da leggi, abitudini, fissate in precedenza indipendentemente dalla nostra volontà. Inseriti in un determinato contesto o società a noi stessi assegnamo una maschera obbligandoci a muoverci secondo schemi ben definiti che accettiamo o per pigrizia o per convenienza senza avere mai coraggio di rifiutarli, anche quando contrastano con la nostra natura. Sotto la maschera il nostro spirito freme per la sua continua mutabilità, ma ci freniamo sia per non urtare contro i pregiudizi della società sia per la nostra tranquillità perché nel mondo mutevole ed enigmatico in cui viviamo, quella nostra Forma o maschera fissa è l’unico punto fermo al quale ci aggrappiamo disperatamente per non essere travolti dalla tempesta. Ma a volte capita che l’anima istintiva che è in noi esploda violentemente, in contrasto con l’anima morale, facendo saltare i pudori e i freni inibitori. Allora la maschera si spezza e siamo come un violino fuor di chiave, cioè stonato come un attore che si mette a recitare sulla scena una parte che nel copione non gli è stata assegnata. Ma anche in questo caso non abbiamo motivo di rallegrarci perché una volta usciti dalla vecchia maschera il senso di libertà che proviamo è di breve durata in quanto il nuovo modo di vivere ci imprigiona in un’altra Forma, diversa dalla prima, ma altrettanto soffocante ed allora tanto vale entrare nell’antica Forma: un ritorno che però si rivela impossibile per il continuo mutare della realtà. Secondo Pirandello quando l’uomo scopre il contrasto tra la Forma e la vita può reagire in tre modi. C’è infatti la reazione passiva, la reazione ironico-umoristica, e la drammatica.
La passiva è quella dei deboli che si rassegnano alla maschera che li imprigiona, incapaci di ribellarsi o delusi dopo l’esperienza di una nuova maschera, è la reazione di Mattia Pascal nell’ultima parte del romanzo. Chi si rassegna sente la pena del vedersi vivere come se i suoi atti fossero staccati da sé ed appartenessero ad un’altra persona e vive perciò quel senso doloroso di una frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che è costretto a vivere.
C’è poi la reazione ironico-umoristica di chi non si rassegna alla maschera e visto che non se ne può liberare sta al gioco delle parti, ma con un atteggiamento ironico, polemico, aggressivo, umoristico in senso pirandelliano. (la patente)
Il terzo punto, la reazione drammatica di chi, sopraffatto dall’esasperazione, né si rassegna, né riesce a sorridere alla vita; allora si chiude in una solitudine disperata che lo porta o al suicidio o alla pazzia. (uno, nessuno, centomila; Enrico IV).
Il disagio dell’uomo non deriva solo dall’urto con la società, ma anche dalla continua ribellione del suo spirito che non gli permette di conoscere bene se stesso, né di cristallizzarsi tra il rapporto vita e Forma in una personalità definita.
Proprio per il suo continuo divenire l’uomo è nello stesso tempo uno, nessuno, centomila: è uno perché è quello che di volta in volta crede di essere, è nessuno perché dato il suo continuo cambiamento è incapace di fissarsi in una personalità, né si riconosce nella Forma che gli altri gli attribuiscono; è infine centomila perché ciascuno di quelli che lo avvicinano lo vede a suo modo ed egli assume tante forme o apparenze, quante sono quelle che gli attribuiscono.

POETICA DELL’ UMORISMO

L’umorismo è il sentimento del contrario che nasce dall’azione combinata di due forze diverse ma complementari. Le due forze sono il sentimento che crea le situazioni della vita e la ragione che interviene e le analizza scomponendole nei loro elementi costitutivi che ne rivelano i meccanismi. Per spiegare la compelmentarità delle due forze da cui si genera l’umorismo, Pirandello si serve di due immagini: prima dice che la ragione è come una superficie di acqua gelata in cui il sentimento si tuffa e si smorza, il friggere dell’acqua rappresenta il riso che l’umorista suscita; oppure, dice ancora Pirandello, la ragione è come un demonietto che ha lo scopo di squarciare i veli che avvolgono la realtà per penetrarla a fondo e smontare i congegni di cui ogni caso della vita è formato.
Ti consiglio di stamparti tutto così da avere tutto sotto mano e scegliere le cose migliori!

Shady

 

Messaggioda ely » 20 ago 2008, 13:03

grazie mille...
t sn debitrice

ely

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Messaggioda Shady » 20 ago 2008, 13:09

di niente :wink:

Shady

 

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