Quid ergo opus est, dicet aliquis, ratione aut omnino consolatione ulla, qua solemus uti, cum levare dolorem maerentium volumus? hoc enim fere tum habemus in promptu, nihil oportere inopinatum videri; aut qui tolerabilius feret incommodum, qui cognoverit necesse esse homini tale aliquid accidere? Haec enim oratio de ipsa summa mali nihil detrahit, tantum modo adfert, nihil evenisse quod non opinandum fuisset. Neque tamen genus id orationis in consolando non valet, sed id haud sciam an plurimum. * Ergo ista necopinata non habent tantam vim, ut aegritudo ex is omnis oriatur; feriunt enim fortasse gravius, non id efficiunt, ut ea, quae accidant maiora videantur; quia recentia sunt, maiora videntur, non quia repentina
Qualcuno dirà perché dunque la ragione ha bisogno, di quella consolazione in generale, che usiamo usare, quando vogliamo sollevare il dolore di coloro che sono addolorati? Il sistema lo abbiamo, si può dire, a portata di mano: basta fare in modo che niente ci colga alla sprovvista. Ancora: come si fa a sopportare con più rassegnazione un malanno per il solo fatto di sapere che cose del genere sono inevitabili per l'uomo? Questo è un discorso che non diminuisce affatto l'entità del male in se stesso: ci fa solo notare che non è successo nulla che non occorresse prevedere. Va bene : però, non è vero che questo tipo di consolazione non serva: anzi, forse è proprio il più efficace. Insomma, il fatto che i mali siano inattesi non ha tanta importanza (lett. forza) da essere l'unica causa dell'afflizione: esso potrà forse rendere più duri i colpi, ma non produrrà mai il risultato di far apparire più gravi i mali: quello che in realtà li fa sembrare più gravi, è il fatto d'essere passati da poco, e non quello d'essere improvvisi.