VERSIONE LATINO ENEIDE IV 584-629, 642-666

Messaggioda maria clelia » 30 mag 2011, 15:16

non so se si puo' fare ma mi servirebbe una traduzione di classico latino di Virgilio. dell'Eneide IV 584-629,642-666

maria clelia

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Messaggioda giada » 30 mag 2011, 16:08

NON HAI MESSO INIZIO E FINE QUINDI QUESTO è TUTTA LA TRADUZIONE DEL LIBRO IV DELL'ENEIDE


LIBRO QUARTO



Intanto la regina già da tempo piagata

da profonda passione, nutre nelle sue vene

la ferita e si strugge di una fiamma segreta.

Le ritorna alla mente lo splendido valore

dell'eroe e la sublime gloria della sua stirpe;

porta confitti in cuore le sue parole e il suo volto,

e non trova riposo, quel fuoco non le dà pace.

Il giorno seguente l'Aurora illuminava la terra

con la luce del sole, e aveva cacciato dal cielo

già tutta l'umida ombra, quando Didone

fuori di sé si rivolge alla fedele sorella:

"Anna, sorella mia, che sogni mi spaventano

e mi tengono in ansia! Non ho mai visto un uomo

come l'ospite nostro! Così nobile d'aspetto,

d'animo valoroso e forte nelle armi!

Credo proprio (ed è vero!) che sia di stirpe divina,

poiché la viltà rivela le anime degeneri.

Ahi, da quale destino è stato travagliato,

come ieri diceva! Che guerre ha sostenuto!

Se non avessi deciso irrevocabilmente

di non voler più sposarmi con nessuno

dopo che il primo amore se l'è preso la morte

e mi ha lasciata così, delusa, piena d'odio

per le faci nuziali ed il talamo, forse

avrei potuto cedere unicamente a lui.

Anna, te lo confesso, dopo la morte del povero

mio marito Sicheo, dopo il delitto fraterno

che ha macchiato di sangue la casa familiare,

questi è il solo che m'abbia colpito i sensi, il solo

che m'abbia folgorato l'anima, così da farla

vacillare: conosco i segni dell'antica fiamma!

Ma la terra profonda s'apra sotto i miei piedi

o il Padre onnipotente mi fulmini nell'ombra,

tra le pallide Ombre dell'Inferno e la notte,

prima che io possa offenderti, sacro Pudore, e violare

le tue leggi. Colui che per primo mi unì

al suo destino d'uomo s'è preso tutto il mio amore,

ora lo tenga per sé, lo serbi nel sepolcro."

Scoppiò in pianto e le lagrime le corsero giù per il petto.

Anna risponde: "Sorella più cara della luce,

trascorrerai la giovinezza sempre sola e dolente

senza la dolcezza dei figli né le gioie di Venere?

Credi che questo importi alla cenere e all'Ombra

di chi è morto e sepolto? Stammi a sentire. Capisco

che non t'abbia piegato il cuore doloroso

nessun pretendente di Libia e neppure di Tiro;

capisco che tu abbia spregiato Jarba e i re

di questo paese africano ricco di tanti trionfi;

ma perché vuoi respingere anche un amore vero?

Non ti ricordi in che terra ti trovi, in mezzo a che genti?

Di qua ti circondano i popoli di Getulia,

razza imbattibile in guerra, i Numidi senza freno

e l'inospite Sirte; di là una regione deserta,

arsa di sete, e i Barcei che dilagano in furia.

E cosa devo dire delle prossime guerre

con Tiro e delle minacce di nostro fratello?

Credo davvero che le lunghe navi di Troia

siano corse fin qui sotto i soffi del vento

con gli auspici divini e il favor di Giunone.

Che gran città vedrai sorgere, o sorella, che regni,

da un tale matrimonio! Con le armi dei Teucri

a fianco, in quante imprese si leverà la gloria

dei Punici! Tu implora la grazia degli Dei,

questo soltanto, e una volta compiuti i riti abbi cura

dell'ospite, trova pretesti perché si trattenga a lungo,

finché sul mare infuria l'inverno e il piovoso Orione,

finché le navi son guaste e intrattabile il cielo."

Con queste parole le accese l'anima d'amore bruciante,

diede speranza al cuore dubbioso e vinse il pudore.

Subito vanno ai templi e chiedono la grazia

davanti a tutti gli altari; immolano, come è d'uso,

pecore scelte a Cerere legislatrice, a Febo,

al padre Lieo e soprattutto a Giunone, patrona

dei nodi coniugali. La bella Didone

versa lei stessa la tazza, tenendola con la destra,

tra le corna lunate di una bianca giovenca;

e davanti alle immagini divine a passi solenni

cammina verso gli altari coperti di offerte.

Comincia la sua giornata con sacrifici e preghiere

e, in cerca d'un buon augurio, chinandosi sul fianco squarciato

delle bestie ne consulta le viscere

palpitanti, profetiche. O menti ignare dei vati!

A che servono preci e templi a una donna in delirio?

La fiamma le divora le tenere midolla

e sotto il petto vive una muta ferita.

L'infelice Didone arde ed erra furiosa

per tutta la città, come una cerva incauta

che - dopo averla inseguita con le frecce - un pastore

tra le selve di Creta di lontano ha ferito

con un'acuta saetta, lasciando senza saperlo

confitto nel suo fianco il ferro alato: lei

corre in fuga, affannata, per le foreste e le balze

dittèe, recando inflitta nel fianco la canna mortale.

Ora conduce con sé Enea in mezzo alle mura

facendogli ammirare le ricchezze sidonie

e la città già pronta: ora comincia a parlare

e le manca la voce, si ferma a mezzo il discorso.

Caduto il giorno chiede sempre lo stesso banchetto,

follemente domanda sempre di udire lo stesso

racconto, e pende sempre dalle labbra di lui.

Poi quando si son separati e persino la luna

s'oscura, attenua il suo lume, e le stelle tramontano

ed invitano al sonno, nelle sue vuote stanze

si strugge, sola, e si getta sul giaciglio che Enea

occupava durante la cena e ha lasciato: è lontana

da lui, eppure negli occhi ne ha sempre l'immagine,

la voce di lui lontano ha sempre nelle orecchie.

Ed a volte, incantata dalla sua somiglianza

col padre, tiene in grembo Ascanio e cerca di illudere

l'indicibile amore. Nella città le torri

incominciate rimangono a mezzo, la gioventù

non si esercita più nelle armi, non manda

avanti la costruzione del porto e delle difese

di guerra: ed interrotte rimangono le opere,

gran muri minacciosi, palchi che toccano il cielo.

Quando la vide in preda a una passione tale

che non poteva frenarla nemmeno il timore di scandali,

Giunone Saturnia, cara moglie di Giove, aggredì

Venere in questo modo: "Tu e tuo figlio davvero

avete avuto una bella vittoria e gloriosi trofei!

È proprio un bel vanto per voi che una povera donna

sia vinta dall'inganno di due Numi potenti.

Certo, capisco bene che tu avevi paura

delle mie mura e tenevi in sospetto le case

dell'alta Cartagine. Ma dimmi, quali saranno

i termini ed il fine della nostra contesa?

Concludiamo piuttosto una pace durevole

con un bel matrimonio. Tu hai tutto ciò che hai voluto:

Didone brucia d'amore fino in fondo alle ossa.

Regniamo allora in comune sopra uno stesso popolo;

Didone serva e s'inchini ad un marito frigio

e ti consegni in dote il popolo di Tiro."

Venere le rispose (poiché aveva capito

quale fosse lo scopo di Giunone, sottrarre

all'Italia l'impero per donarlo alla Libia):

"Chi sarà così folle da rifiutare un accordo

e preferire di scendere in guerra con te,

posto che ciò che chiedi possa avere fortuna?

Ma sono incerta dei Fati, non sono sicura che Giove

consenta che Tiri e Troiani abbiano una sola città,

approvi che i due popoli stringano patti tra loro

e si mescolino. Tu sei sua moglie, a te sola

è lecito tentarne l'animo con preghiere.

Va' avanti, ti seguirò." Allora Giunone regina:

"Sarà affar mio - disse. - Ascolta, ti spiegherò

in breve come si possa fare quel che ci preme.

Enea con l'infelice Didone si prepara

a andare a caccia nei boschi, domani, non appena

il sole si alzerà rivelando il mondo coi raggi.

Io, mentre i battitori s'affanneranno a distendere

reti sui passi montani, rovescerò dall'alto

un nembo nero di grandine, rintronerò il cielo di tuoni.

Si sperderanno i compagni coperti di opaca tenebra:

Didone e il capo troiano troveranno riparo

nella stessa caverna. Sarò presente, se tu

sei d'accordo; unirò Didone a lui con un nodo

stabile, la farò sua. E ci sarà Imeneo."

Venere annuì senza opporsi e rise alla bella trovata.

Intanto l'Aurora sorgendo abbandonava il mare.

Una gioventù scelta, nato il sole, s'affretta

fuori città: hanno reti e grandi maglie, lacci

e larghi giavellotti; i cavalieri massili

galoppano tra le mute dei cani di fine odorato.

I capi punici attendono la regina che indugia

nella sua stanza da letto: un cavallo fregiato

d'oro e porpora aspetta mordendo il freno spumoso.

Ma ecco che infine arriva, in mezzo a un folto corteo,

coperta da una clamide dall'orlo ricamato;

ha una faretra d'oro, ed una rete d'oro

sui capelli, una fibbia d'oro alla veste di porpora.

Al tempo stesso avanzano i Frigi e Iulo, felice;

bellissimo su tutti Enea s'offre di scorta

alla bianca Didone e unisce le due schiere.

Simile a Apollo, quando lascia la Licia invernale

ed il fluente Xanto, torna a vedere Delo

materna e dirige i cori; misti intorno agli altari

fremono i Driopi, i Cretesi, i dipinti Agatirsi;

lui va per i gioghi del Cinto e raccoglie i capelli

fluenti adornandoli di flessibile fronda

e incoronandoli d'oro; i dardi gli suonano in spalla.

Non meno pronto e animoso veniva Enea, tanta

bellezza gli splendeva sul nobilissimo volto.

Quando si giunse ai monti e ai covi inaccessibili,

ecco le capre selvagge saltando giù dalle rocce

attraversare di corsa le alture; laggiù i cervi

corrono per la campagna alzando nubi di polvere,

in schiere compatte, in fretta lasciano la montagna.

Ed il fanciullo Ascanio in mezzo alle valli

galoppa furiosamente col cuore pieno di gioia

oltrepassando in corsa gli animali sbrancati,

spera con tutta l'anima che tra l'imbelle armento

gli si pari davanti uno schiumante cinghiale

o che un fulvo leone discenda giù dai monti.

Intanto con un gran murmure il cielo si turba,

e arriva subito un nembo di pioggia mista a grandine:

spaventati i Fenici, i giovani troiani

e il dardanio nipote di Venere qua e là

si disperdono in cerca d'asilo per i campi;

impetuosi torrenti precipitano dai monti.

Didone e Enea riparano in una stessa grotta.

Per prima la Terra e Giunone pronuba danno il segnale:

rifulsero lampi nell'aria a festeggiare l'unione,

e sulle cime dei monti ulularono le Ninfe.

Fu quello il primo giorno di morte, la causa prima

di tanti mali; Didone non pensa alle chiacchiere,

non pensa al suo decoro e non teme lo scandalo,

ormai non coltiva più un amore segreto,

lo chiama matrimonio, vela così la sua colpa.

Subito corre per tutte le città della Libia

la rapida Fama, il malanno più veloce che esista.

Vive di mobilità, acquista forze andando;

piccolissima prima, timorosa, ben presto

si leva alta nell'aria, tocca terra coi piedi

e col capo le nuvole. Si dice che la madre

Terra abbia partorito questa sua ultima figlia,

sorella di Encelado e Ceo, per rabbia contro gli Dei.

È un mostro orribile, immenso, rapido d'ali e di piedi,

coperto di penne; sotto ogni penna c'è un occhio

che vigila, una lingua, una bocca sonora

e un orecchio rizzato. La notte vola a metà

tra cielo e terra, stridendo nell'ombra, non chiude

gli occhi nel dolce sonno; il giorno sta di vedetta

sul culmine dei tetti o in cima alle alti torri,

spaventa le grandi città, nunzia del vero e del falso.

La Fama gongolando riempiva la gente di chiacchiere

dicendo il vero e il falso: raccontava che Enea

nato di sangue troiano era venuto a Cartagine,

che la bella Didone s'era degnata di unirsi

con lui, e che passavano l'inverno nei piaceri

l'uno attaccato all'altra, immemori dei loro regni,

presi da turpe passione. La terribile Dea

diffonde simili storie qua e là per le bocche degli uomini.

Poi subito volge la sua corsa al re Jarba,

infiammandone l'anima e aizzandone l'ira.

Costui, figlio di Ammone e di una Ninfa rapita

ai Garamanti, aveva alzato a Giove nell'ampio

suo regno cento immensi templi e su cento altari

aveva consacrato un fuoco perenne, onore

eterno per gli Dei: il suolo sempre madido

del sangue delle vittime, le soglie erano sempre

adorne di corone fiorite d'ogni specie.

Fuori di sé ed acceso dall'amara notizia

si dice che levasse molte preghiere a Giove,

supplice, a mani giunte, davanti agli altari,

in mezzo alle venerate immagini dei Numi.

"O Giove onnipotente cui il popolo mauro

dopo aver banchettato sui letti ricamati

liba vino prezioso, vedi che cosa accade?

Non intervieni? O forse, padre, abbiamo paura

invano di te quando scagli i fulmini? Sono ciechi

i fuochi che tra le nubi atterriscono gli animi,

non sono che vacui rombi? Una donna che, profuga

nel nostro territorio, fondò una cittaduzza

comperando il terreno, cui demmo un'arida spiaggia

da colonizzare e i diritti sul luogo, ha respinto le nozze

con noi accogliendo Enea come suo solo signore!

E adesso quella specie di Paride, accompagnato

da mezzi uomini, la mitra meonia legata al mento,

la chioma profumata, gode la sua conquista.

Ah, che davvero offriamo ai tuoi templi dei doni

inutili e alimentiamo un'inutile gloria!"

Mentre diceva così, tenendo posata la mano

sull'altare, l'udì l'Onnipotente e volse

gli occhi alle mura regali e agli amanti dimentichi

di ogni fama migliore. Disse allora a Mercurio:

"Va', figlio, corri, chiama i venti, sollevati a volo

e parla al capo troiano, che perde tempo a Cartagine

e non pensa alle terre che il Fato gli ha destinato,

recagli tu per l'aria il mio alto comando.

Non ce lo promise così la bellissima madre,

non lo scampò per questo due volte alle armi dei Greci:

ma perché regga l'Italia gravida di imperi

e fremente di guerra, perché perpetui la razza di Teucro

dal nobile sangue, perché detti leggi al mondo.

Se non lo accende l'onore di cose tanto grandi,

se non vuol faticare né gli interessa la gloria,

perché proprio lui, suo padre, vuol defraudare Ascanio

delle rocche romane? Cosa crede di fare?

Che cosa spera indugiando tra gente nemica

senza pensare al futuro, alla grande progenie

che un giorno avrà in Italia, ai campi di Lavinio?

Navighi, questo è il mio ordine: siine tu messaggero."

Disse. E Mercurio subito si prepara a obbedire

al gran cenno del padre; prima s'allaccia ai piedi

i calzari d'oro, alati, che lo portano in alto

volando sopra i mari e sopra la terra, rapido

come il vento. Poi piglia la verga con cui evoca

le pallide Ombre dell'Orco, altre ne manda al Tartaro,

dà e leva il sonno, gli occhi suggella nella morte.

Munito della verga scaccia i venti, traversa

le nubi burrascose. E già volando vede

la vetta e i fianchi ripidi del duro Atlante, che regge

il cielo con la testa; Atlante dal capo

pieno di pini, cinto sempre di nuvole nere,

battuto da vento e da pioggia; una distesa di neve

gli copre le spalle, i fiumi precipitano

dal mento del gran vecchio, l'ispida barba è ghiacciata.

Qui si fermò dapprima il Cillenio, librandosi

ad ali aperte; quindi si lasciò andare di peso

velocissimo verso le onde, come un uccello che vola

basso, radendo il mare intorno agli scogli pescosi

ed intorno alle spiagge. Così fendeva l'aria

tra mare e cielo Mercurio cillenio, lasciando

Atlante, suo nonno materno, volando

verso la costa sabbiosa dell'arida Libia.

Appena atterrò vicino ad antiche capanne

vide Enea intento a dirigere la fondazione di torri

e la costruzione di case; aveva una spada stellata

di fulvo diaspro, un mantello corto di porpora tiria

gli splendeva giù dalle spalle, opera delle mani

della ricca Didone che aveva trapunto il tessuto

di fili d'oro sottili. Subito lo investì:

"È così adesso tu lavori alle fondamenta

dell'alta Cartagine, schiavo di tua moglie, fai bella

la città e ti dimentichi del tuo destino e del regno!

Lo stesso re degli Dei, che con la sua volontà

ruota il cielo e la terra, mi comanda di darti

per l'aria veloce questi ordini: cosa progetti? Con quali

speranze perdi il tuo tempo nel paese di Libia?

Se non ti sprona la gloria delle grandi promesse,

se non vuoi affrontare fatiche per la tua fama,

pensa ad Ascanio che cresce, alle speranze di Iulo,

al quale è dovuto il regno d'Italia e la terra

di Roma." Mercurio a metà del discorso

si tolse al cospetto dei mortali, svanendo

lontano dagli occhi nell'aria sottile.

Enea fuori di sé ammutolì a quella vista,

gli si drizzarono in testa per l'orrore i capelli,

gli si fermò la voce in gola. Smania di correre

via, abbandonando le terre che pure gli sembrano dolci,

percosso dall'alto monito e dal comando divino.

Ma come farà? Con quali parole adesso oserà

rivolgersi alla regina innamorata, furiosa?

Di dove incomincerà il suo discorso? Volge

rapidissimamente il pensiero qua e là,

ideando diverse soluzioni, pesandole

una per una. Infine, benché sia sempre in dubbio,

crede di aver trovato il partito migliore.

Chiama Mnèsteo, Sergesto ed il forte Seresto;

armino zitti zitti la flotta e sulla riva

riuniscano i compagni, preparino ogni cosa

senza lasciar capire quale sia la ragione

di tanta novità; intanto lui, poiché

Didone non sa nulla e crede che un amore

così grande non possa spezzarsi, cercherà

il modo e l'occasione più adatta per parlarle.

Tutti obbediscono lieti ed eseguono gli ordini.

Ma la regina (chi può ingannare chi ama?)

presentì tutto e s'accorse per prima di ciò che accadeva:

timorosa com'era di tutto, persino di quello

che più pareva sicuro. L'empia Fama in persona

disse che si allestiva la flotta per la partenza.

Folle d'amore, l'anima smarrita, dà in ismanie,

erra per la città fuori di sé, baccante

eccitata come una Menade quando infuria la festa,

quando al grido di Bacco la stimolano le orge

che vengono soltanto ogni tre anni, quando

il Citerone a notte la chiama con molto clamore.

Infine parla ad Enea per prima, così:

"Perfido, e tu speravi persino di nascondere

tanto male e partire dalla mia terra in silenzio?

Non ti trattiene il nostro amore, la mano

che un giorno ti fu concessa, Didone che sta

per morire di morte crudele? E invece tu

sotto le stelle invernali prepari la flotta

e ti affretti a solcare l'alto mare, tra i venti

terribili, o malvagio. E perché? Se corressi

non verso terre straniere, verso paesi che ignori,

ma fosse ancora in piedi l'antica Troia, andresti

a Troia con la flotta per l'ondoso mare?

Fuggiresti da me? Per questo mio pianto

e per la tua mano, per gli Imenei incominciati

e per la nostra unione, se ho meritato di te

in qualche modo, se cara ti fu qualcosa di me,

abbi pietà della casa che crolla, lo vedi, e abbandona

questo pensiero, ti prego, se si può ancora pregarti.

Le genti di Libia mi odiano a causa di te,

i tiranni numidi mi odiano a causa di te,

persino i Tiri mi odiano a causa di te;

a causa di te il pudore è morto, è morta la fama

per la quale soltanto arrivavo alle stelle.

A chi moribonda mi lasci? O Enea, ospite! Ospite!

Soltanto questo nome posso dare a colui

che un tempo chiamavo marito. Ma allora?

Forse attendo il fratello Pigmalione che bruci

le mie mura, o il re Jarba che mi porti in Getulia

schiava? Oh, se prima della tua fuga avessi

avuto almeno un figlio da te, un piccolo Enea

che per le sale giocasse e ti ricordasse

all'aspetto! Oh, che allora, non mi parrebbe del tutto

d'essere abbandonata e d'essere stata ingannata!"

Diceva così. Ma lui per gli ammonimenti di Giove

teneva immobili gli occhi e con sforzo premeva

dentro al cuore l'affanno. Alla fine risponde

con poche frasi: "Regina, non sarò io a negare

che hai tanti meriti quanti puoi contarne a parole,

e non mi scorderò di te finché mi ricorderò

di me stesso. Ma ascolta. Io non sperai di nasconderti

questa fuga, credilo pure, e del resto mai

ti tenni discorsi di nozze o pensai di sposarti.

Se i Fati permettessero che conducessi la vita

come vorrei, secondo i veri miei desideri,

sarei rimasto a Troia vicino alle dolci reliquie

dei miei, gli alti tetti di Priamo starebbero ancora

in piedi e con le mie mani avrei costruito ai vinti

una rinata Pergamo. Ma adesso Apollo grineo

mi comanda di andare in Italia: in Italia

mi ordinano di andare gli oracoli di Licia.

Questo è il mio amore, questa la mia patria. Se tu

che sei fenicia ami tanto le rocche di Cartagine,

questa tua bella città della Libia, perché

impedisci che i Teucri abbiano alfine riposo

nella terra d'Italia? È lecito anche a noi

cercare lidi stranieri. Tutte le volte

che la notte circonda le terre di umide ombre,

tutte le volte che sorgono gli astri infuocati, in sogno

l'ombra del padre Anchise, turbata, mi rimprovera

e mi spaventa, con lui mi rimprovera Ascanio,

povero bimbo, del torto che faccio al suo futuro,

poiché lo frodo del regno d'Esperia, dei campi fatali.

E proprio adesso Mercurio, messaggero dei Numi,

mandato da Giove (lo giuro per le nostre due vite)

m'ha portato per l'aria rapida questo comando:

- Naviga! - Ho visto il Dio in una luce chiarissima

entrare per le mura e con queste mie orecchie

ne ho sentito la voce: - Naviga! - Dunque cessa

di infuocare me e te con questi lamenti,

io non vado in Italia di mia volontà."

Mentre diceva così lei lo fissava bieca

già da un poco, volgendo gli occhi qua e là, misurandolo

tutto con taciti sguardi; alfine furente

prorompe: "Tua madre non è una Dea, la tua stirpe

non viene da Dardano, ma il Caucaso selvaggio

aspro di rupi ti fece, ircane tigri allattarono

te da bambino. Ah, perché m'illudo, che cosa mi aspetto

più di questo? Lui forse s'è commosso al mio pianto?

Non ha battuto ciglio: non ha emesso un sospiro:

non ha avuto pietà dell'amante! Che cosa

immaginare di peggio? Ormai nemmeno la grande

Giunone e il padre Saturnio guardano con giustizia

a quanto avviene. Non c'è più alcuna buonafede,

in nessun posto. Lo presi morto di fame, gettato

sul lido dalla tempesta, lo misi a parte del regno,

pazza! Strappai la sua flotta dispersa all'estrema rovina

insieme ai suoi compagni. Ah, che furia m'avvampa!

Proprio adesso l'augure Apollo e gli oracoli lici

gli portano per l'aria questi ordini tremendi!

Certo è stato mandato da Giove in persona il fulmineo

messaggero dei Numi! Oh, davvero gli Dei

non hanno da occuparsi d'altro, se un tale pensiero

turba la loro quiete! Ma non voglio ribattere

le tue parole, non voglio neppure trattenerti.

Parti, va' via col vento in Italia, cerca il tuo regno

attraverso le onde. Io spero soltanto,

se i pietosi Celesti hanno qualche potere,

che me ne pagherai il fio tra gli scogli, chiamando

spesso a nome Didone. Didone! Ma io lontana

ti perseguiterò con i fuochi infernali:

e quando la fredda morte spoglierà delle membra

l'anima, in ogni luogo dove tu andrai ci sarò,

pallido spettro, fantasma venuto a turbarti.

Sconterai la tua pena, empio, ed io lo saprò:

questa bella notizia mi giungerà tra le Ombre."

Così dicendo tronca a mezzo il discorso, affranta

fugge la luce del giorno, scappa via e si leva

dagli occhi d'Enea, lasciandolo dubitante, pauroso,

desideroso di dirle molte cose. Le ancelle

accorrono e la portano al suo marmoreo talamo;

svenuta, le membra rigide, la posano sulle coltri.

Ma sebbene desideri alleviarle il dolore

e consolarla, calmandone con parole l'affanno,

benché sia intenerito dall'amore, dolente

il pio Enea obbedisce all'ordine divino

e ritorna alla flotta. I Troiani s'affannano

a trarre le navi in mare dall'alto lido. Nuotano

le chiglie spalmate di pece, gli uomini dalle foreste

portano rami fronzuti e quercie non lavorate,

han fretta di fuggire...

Sciamano precipitandosi

da tutta la città, come le nere formiche

quando, pensando all'inverno, saccheggiano un mucchio

di farro e lo mettono in serbo nelle loro dispense:

la bruna schiera cammina per i campi e convoglia

la preda attraverso l'erba per un sentiero piccino,

parte a forza di spalle portano i chicchi più grossi,

parte dirigon la marcia, tengono a posto la fila,

riprendono chi indugia, e tutta la strada è in fermento.

Con che cuore o Didone guardavi tutto questo,

che gemiti mandavi vedendo dalla rocca

fremere tutto il lido in lungo e in largo e il mare

intero riecheggiare di rumore e di grida!

Amore, spietato amore, a che cosa non spingi

i cuori dei mortali? Ecco Didone costretta

ancora alle lagrime, ancora a cercar di piegare

Enea con le preghiere più vili e a sottomettere,

chiedendo pietà, la fierezza alla passione; prima

di darsi la morte non vuole lasciare nulla intentato.

"Anna, non vedi come s'afferrano sul lido,

accorsi da ogni parte; la vela chiama già i venti,

i naviganti incoronano allegri le poppe.

Se ho potuto vedere avverarsi tanto dolore,

o sorella, potrò sopportarlo di certo.

Pure, Anna, esaudisci la tua infelice Didone

in una sola grazia: poiché quell'infame onorava

solo te e confessava a te anche i segreti più arcani,

e tu sola sapevi le vie più adatte e i momenti migliori

per chiedergli qualcosa. Va' dunque tu da lui,

sorella, e supplice parla a quel nemico superbo.

Digli che io non giurai in Aulide coi Greci

di distruggere la razza troiana, né mandai

la flotta contro Pergamo, digli che non turbai

o dispersi le ceneri e l'Ombra di suo padre.

Perché non vuole ascoltarmi? Dove corre? Conceda

almeno quest'ultimo dono alla misera amante:

aspetti per fuggire un momento migliore

e venti favorevoli. Non chiedo neanche più

l'antica unione tradita, né che rinunci al bel Lazio

ed al futuro regno; chiedo soltanto del tempo,

del vano tempo, una tregua finché il furore si calmi

e la Fortuna m'insegni a sopportare il dolore.

Quest'ultima grazia domando (abbi pietà della povera

tua sorella!), poi parta: se mai me la concede

gliela restituirò a usura con la mia morte."

Così parlava; tali lamenti porta e riporta

l'infelice sorella. Ma Enea non si commuove

per nessun pianto né ascolta con pazienza nessuna

voce: s'oppone il Fato, un Dio gli chiude le orecchie.

Come talvolta i venti alpini di qua e di là

soffiando a gara cercano di scalzare da terra

una solida quercia dal fusto annoso: stridono

le alte fronde coprendo il terreno di foglie

a ogni scossa del tronco: ma l'albero è abbarbicato

al suo macigno e di quanto s'innalza con la cima

nell'aria celeste, di tanto s'affonda con le radici

sino al Tartaro; così l'eroe è percosso di qua

e di là da voci incessanti e nel gran petto contiene

il tremendo dolore, al quale non può dar retta,

la mente rimane immobile, le lagrime scorrono invano.

Allora l'infelice Didone, atterrita

dal suo destino, chiama la morte; le dà fastidio

la vista del cielo convesso. S'infiammò di più

nella sua decisione di abbandonare la luce

quando vide (orribile a dirsi) l'acqua lustrale

intorbidarsi mentre poneva le offerte

sugli altari fumanti d'incenso e i vini versati

cambiarsi in osceno, terribile sangue.

Non disse nulla a nessuno, nemmeno alla sorella.

Nel palazzo reale c'era un sacello di marmo

dedicato all'antico marito, che lei venerava

di culto particolare, cinto di candida lana

e di fronde festose: di là le parve venissero

parole e le parve sentire la voce del marito

che la chiamava mentre la nera notte occupava

tutte le terre; e le parve di sentire lagnarsi

dai comignoli, spesso, il gufo solitario

col suo lugubre canto, filando lunghissime note

di pianto; ed inoltre con monito terribile

la spaventarono molti presagi di sacri indovini.

Lo stesso Enea popolava le sue notti di orrori

comparendo feroce nei sogni di lei, folle

di disperata passione; e sempre le pare

d'esser lasciata sola, le pare sempre di correre

per una lunga lunga strada, senza nessuno,

cercando invano i Tiri per una contrada deserta.

Così Penteo impazzito vede la turba delle Eumenidi

e il sole gli sembra doppio, doppia gli sembra Tebe;

così sul palcoscenico s'agita Oreste, figlio

di Agamennone, quando fugge la madre armata

di fiaccole e neri serpenti, e le Vendicatrici

siedono minacciose sulle soglie del tempio.

Vinta dal dolore, invasa dalle Furie,

sicura di morire, esamina tra sé

il modo e il tempo di porre in atto la sua decisione;

rivolta alla triste sorella nasconde però con l'aspetto

il suo proposito, e quasi sembrerebbe brillare

d'una nuova speranza. "Ho trovato, sorella,

rallegrati con me - le dice - la vera strada

per riavere il mio amore o per dimenticarlo.

Al limite dell'Oceano, verso il tramonto del sole,

c'è il remoto paese degli Etiopi, dove

il grandissimo Atlante ruota con le sue spalle

l'asse del cielo fitto di stelle rilucenti:

m'han detto che di là è venuta una strega

di stirpe massila, custode del tempio delle Esperidi,

che dava il pasto al drago e sorvegliava i rami

dell'albero sacro spargendo liquido miele e papavero.

Si vanta di liberare i cuori con i suoi incanti

come vuole, versando in altri cuori gli affanni,

di fermar l'acqua nei fiumi, di volgere indietro le stelle,

di evocare i fantasmi notturni. Vedrai muggire

la terra sotto i tuoi piedi, scendere gli orni dai monti!

Te lo giuro, sorella cara, su tutti gli Dei

e su te, sul tuo dolce capo, che controvoglia

mi dedico alle arti magiche. Però segretamente,

ti prego, innalza un rogo, che si levi nell'aria

sopra un terrazzo interno: e su vi getterai

le armi di Enea, che l'empio ha abbandonato appese

al talamo, con tutte le sue reliquie, e il letto

d'amore che mi ha perduta. Così va fatto: la maga

vuole che si distrugga ogni ricordo di lui."

Ciò detto tace, le gote invase di pallore.

Ma Anna non può credere che la sorella con tali

nuove magie nasconda un pensiero di morte,

non riesce a concepire una tale follia,

non teme avvenga di peggio che in morte di Sicheo.

Così eseguisce gli ordini...

Appena sul terrazzo interno fu alzata nell'aria

la gran catasta di pini e di tronchi di leccio

la regina la cinge di serti e l'incorona

di fronde funerarie; pensando alla tragedia

a venire vi pone sopra la spada di lui

con tutti i suoi ricordi, e in cima il suo ritratto.

Sorgono intorno gli altari. La maga coi capelli

sciolti chiama a gran voce tre volte i nomi di cento

Dei, l'Erebo, il Caos, la trigemina Ecate,

la vergine Diana dai tre volti diversi.

Mesce dell'acqua che simuli il fonte d'Averno,

fa cercare erbe giovani mietute con una falce

di bronzo sotto la luna, gonfie di nero veleno;

si procura l'ippomane strappato dalla fronte

d'un puledro, sottratto all'avida cavalla.

La stessa Didone sparge il farro con mani pie:

e vicino agli altari, con la veste succinta

e un piede scalzo, invoca gli Dei e le stelle che sanno

il destino di tutti (lei che sta per morire!).

Infine prega il Nume, se mai ve n'è uno,

che ha cura degli amanti non corrisposti, perché

faccia vendetta, perché sia memore, giusto, pietoso.

Era notte: gli stanchi corpi prendevano sonno

tranquillamente per tutta la terra, riposavano

le selve e i mari selvaggi; era l'ora in cui tacciono

i campi, le stelle han percorso metà del loro cammino;

e tutti gli animali e i colorati uccelli,

quanti vivon nell'acqua limpida e nelle campagne

spinose di sterpi, coricati nel sonno

sotto la notte silente lenivano gli affanni

ed i cuori obliosi di tutti i loro mali.

Ma la Fenicia non dorme, addolorata, mai

si rilassa nel sonno o riceve negli occhi

e nel cuore la dolce quiete notturna: il suo affanno

cresce e imperversa di nuovo, risorgendo l'amore,

e oscilla indecisa tra grandi vampe di rabbia.

Così sempre di più s'arrovella, dicendo

tra sé: "E adesso che cosa farò? Dovrò tentare

coi vecchi pretendenti? Espormi alle loro beffe?

Supplice chiederò le nozze dei Numidi

che tante volte ho sdegnato? Oppure seguirò

la flotta dei Troiani, starò ai loro comandi?

Ho fatto proprio bene ad aiutarli, un tempo,

e loro me ne serbano molta riconoscenza!

Ma se anche volessi partire con loro, chi mai

vorrà accogliermi, odiosa, sulle navi superbe?

Ahimè, sciagurata, ancora non conosci gli inganni

e gli spergiuri della stirpe di Laomedonte?

E poi: me ne andrei sola coi naviganti gioiosi

o mi porterei dietro tutte le schiere dei Tiri,

che ho appena strappato alla città di Sidone,

spingendoli ancora sul mare, spiegando le vele nel vento?

Ah, muori come ti meriti, tronca il dolore col ferro!

Sorella mia, sorella vinta dalle mie lagrime,

sei stata proprio tu la prima, involontaria

causa dei tanti mali che mi pesano addosso:

tu m'hai fatto impazzire, m'hai consegnata al nemico.

Perché non ho vissuto feroce come una bestia

selvaggia, in solitudine, senza amore né colpa,

senza soffrire così? Perché non ho mantenuto

la fede un tempo promessa all'Ombra di Sicheo?"

Questi gravi lamenti le uscivano dal petto.

Enea stava sull'alta poppa, deciso a salpare,

preparata ogni cosa secondo l'uso: dormiva.

E nel sonno gli apparve l'immagine del Dio

che tornava, di nuovo gli parve che così

lo ammonisse (simile in tutto a Mercurio, per voce,

colorito, capelli biondi, bellezza

giovanile del corpo): "O figlio di una Dea,

in queste circostanze puoi abbandonarti al sonno?

Pazzo, non vedi quali pericoli ti circondano,

non senti come gli zefiri ti spirano propizi?

Lei trama in cuore inganni e un atroce delitto;

decisa a morire, ondeggia tra varie esplosioni di collera.

Fuggi di qui a precipizio finché hai il potere di farlo!

Presto vedrai la marina sconvolta dalle navi

e lucente di fiaccole, presto vedrai la spiaggia

balenare di fiamme, se la prossima Aurora

ti sorprenderà qui, fermo su queste terre.

Su, rompi gli indugi. La donna è mobile e varia

sempre." Ciò detto sparì confuso nella notte.

Subito Enea atterrito da quell'Ombra veloce

strappa il corpo dal sonno sollecitando i compagni:

"Svegliatevi, guerrieri, prendete posto ai remi,

sciogliete presto le vele! Di nuovo mi è stato mandato

dall'alto cielo un Dio, ci incita a accelerare

la fuga ed a tagliare le funi ritorte.

O santo fra tutti gli Dei, noi ti seguiamo, chiunque

tu sia, e obbediamo in festa al tuo nuovo comando.

Assistici benigno e aiutaci, rendici amiche

nel cielo profondo le stelle!" Sguainò la spada fulminea

ed impugnando il ferro tagliò deciso le funi.

Un medesimo ardore prese tutti i Troiani,

afferrarono i remi e via, lasciarono il lido;

il mare sotto le navi fugge, a forza di remi

sconvolgono l'acqua spumosa, fendendo l'onda azzurra.

E già la prima Aurora spargeva nuova luce

sulla terra, lasciando il letto color del croco

dell'antico Titone. Appena la regina

vide da un'alta torre biancheggiare la luce

e allontanarsi la flotta a vele spiegate, e il lido

deserto e il porto vuoto, senza più marinai,

si percosse il bel petto con le mani, furente,

tre volte, quattro, si strappò i biondi capelli:

"O Giove - disse - Enea se ne andrà, uno straniero

si sarà preso gioco impunemente di me

e del mio regno? Nessuno in tutta la città

impugnerà le armi per inquisirlo, nessuno

farà uscire le navi dagli arsenali? Andate,

miei fedeli, correte, portate veloci le fiamme,

munitevi di frecce, fate forza sui remi!

Ma cosa dico, dove sono? Quale pazzia

ti sconvolge la mente o infelice Didone?

Soltanto adesso ti offendono i mali che hai commesso?

Sarebbe stato assai meglio che ti fossi sentita

offesa così nell'ora in cui gli affidavi lo scettro.

Eccola la lealtà di uno che dicono rechi

con se i patrii Penati, di uno che avrebbe portato

sulle spalle, pietoso, il padre vinto dagli anni!

Sarebbe stato meglio che lo avessi ammazzato

e fatto a pezzi, gettando quei pezzi nel mare;

meglio sarebbe stato gli avessi ucciso i compagni,

gli avessi fatto mangiare il corpo di suo figlio.

Dura la lotta, d'esito incerto? Tanto meglio:

che cosa potevo temere dovendo morire? Avrei dato

fuoco all'accampamento, avrei riempito di fiamme

le navi, ucciso padre, figlio, tutta la stirpe,

e su quei morti io stessa sarei caduta morta!

O sole, tu che illumini coi raggi le opere tutte

del mondo, e tu Giunone che conosci e sei complice

di questi duri affanni, e tu Ecate chiamata

con lunghe grida, a notte, nei trivi cittadini,

e voi vendicatrici Furie, e voi Dei protettori

della morente Elissa, ascoltate e esaudite

le mie preghiere, volgendo sui Teucri la vostra potenza.

Se è scritto nel destino che quell'infame tocchi

terra ed approdi in porto, se Giove vuole così,

se la sua sorte è questa: oh, almeno sia incalzato

in guerra dalle armi di gente valorosa

e, in bando dal paese, strappato all'abbraccio di Iulo,

implori aiuto e veda la morte indegna dei suoi,

né, dopo aver firmato un trattato di pace

iniquo, si goda il regno e la desiderata

luce, ma muoia, in età ancora giovane,

rimanga insepolto su un'arida sabbia!

Questo prego, quest'ultima voce esalo col sangue.

E infine voi, miei Tiri, perseguitate la stirpe

di lui, tutta la sua discendenza futura

con odio inestinguibile: offrite questo dono

alla mia povera cenere. Nessun amore ci sia

mai tra i nostri due popoli, nessun patto. Ah, sorga,

sorga dalle mie ossa un vendicatore, chiunque

egli sia, e perseguiti i coloni troiani

col ferro e col fuoco, adesso, in avvenire, sempre

finché ci siano forze! Io maledico, e prego

che i lidi siano nemici ai lidi, i flutti ai flutti,

le armi alle armi: combattano loro e i loro nipoti."

Così disse, pensando a tante cose, cercando

come morire al più presto. E si rivolse a Barce

nutrice di Sicheo (poiché la propria nutrice

era rimasta, ormai nera cenere, laggiù a Sidone):

"Ti prego, cara nutrice, corri da Anna, che venga

la mia dolce sorella, e dille che in gran fretta

si lavi con acqua di fiume e porti con sé

le vittime pel sacrificio, le offerte stabilite.

Tu stessa cingi le tempie di benda votiva.

Voglio sacrificare a Giove Stigio, come

è d'uso, porre fine a tutti i miei dolori

ardendo insieme al rogo il ritratto di Enea."

Barce accelerò il passo con affanno senile.

Allora Didone, tremante, esasperata

per il suo scellerato disegno, volgendo

attorno gli occhi iniettati di sangue, le gote sparse

di livide macchie e pallida della prossima morte,

irrompe nelle stanze interne della casa

e sale furibonda l'alto rogo, sguaina

la spada dardania, regalo non chiesto per simile scopo.

Dopo aver guardato le vesti lasciate da Enea

e il noto letto, dopo aver indugiato un poco

in lagrime e pensieri, si gettò su quel letto

lunga distesa e disse poche, estreme, parole:

"O reliquie, che foste così dolci finché

lo permettevano i Fati e un Dio: ora accogliete

quest'anima, scioglietemi da tutti i miei tormenti.

Vissi, ho compiuto il cammino concessomi dalla Fortuna,

e adesso un'immagine grande di me andrà sottoterra.

Fondai una grande città, vidi sorgerne alte le mura,

vendicai mio marito, inflissi al fratello nemico

giuste pene: felice, ahi, troppo felice se solo

non fossero mai arrivate ai nostri lidi sabbiosi

navi dardanie!" Disse e premé la bocca sul letto.

"Moriamo senza vendetta - riprese - Ma moriamo.

Così, anche così giova scendere alle Ombre.

Il crudele Troiano vedrà dall'alto mare

il fuoco e trarrà funesti presagi dalla mia morte."

Tra queste parole le ancelle la vedono abbandonarsi

sul ferro e vedon la lama spumante di sangue,

vedono sporche di sangue le mani. Un grido si leva

per tutta la reggia, la Fama s'avventa

in furia per la città, le case fremono d'urla,

di lamenti e di gemiti di donne, l'aria suona

di grandi pianti, come se Cartagine o Tiro

invase dai nemici crollassero, e rabbiose

le fiamme s'attorcessero tra le case ed i templi.

La sorella sentì la notizia e atterrita,

con una corsa affannosa, graffiandosi la faccia

con le unghie, picchiandosi i pugni contro il petto,

attraversa la folla chiamando la morente

per nome: "Sorella, per questo mi volevi? Che inganno

doloroso! Per questo volevi il rogo, i fuochi

e gli altari? Che cosa dovrò pianger di più:

la tua morte o questo disperato esser sola

nella morte? Sorella, perché non m'hai voluta

tua compagna morendo? M'avessi tu chiamata

ad una stessa morte: un eguale dolore

ed una stessa ora ci avrebbe colte entrambe.

Ed io con queste mani eressi il rogo, invocai

gli Dei patrii, per essere da te lontana nell'ora

della morte! Sorella, hai ucciso te e me

e il popolo e i padri sidonii e tutta la tua città!

Ma adesso lasciatemi lavare la ferita,

lasciatemi raccogliere con le labbra l'estremo

suo alito, se ancora le aleggia intorno un soffio

di vita!" Precipitosa era salita sugli alti

gradini del rogo e abbracciata la sorella morente

la stringeva gemendo al seno e con la veste

tentava di asciugare il nero sangue. Didone

mentre cerca di alzare gli occhi che non riuscivano

a stare aperti sviene; la ferita profonda

nel petto stride. Tre volte riuscì a levarsi sul gomito,

tre volte ricadde sul letto: nell'alto cielo cercò

con gli occhi erranti la luce, vedendola gemette.

Allora Giunone, pietosa del suo lungo dolore

e della straziante agonia, mandò giù dall'Olimpo

Iride, che liberasse l'anima che lottava

invano per svincolarsi dai legami del corpo.

Poiché lei non moriva di giusta morte, decisa

dal Fato, ma anzitempo, in un accesso d'ira,

Proserpina non le aveva strappato ancora di testa

il biondo fatale capello e non aveva ancora

consacrato il suo capo all'Inferno e allo Stige.

La rugiadosa Iride con le sue penne di croco

brillanti contro sole di mille varii colori

volò attraverso il cielo e si fermò su di lei.

"Questo capello - disse - porto e consacro a Dite

per ordine divino, e ti sciolgo da queste

tue membra." Con la destra strappò il capello: insieme

si spense il calore del corpo, la vita svanì nel vento.

giada

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Messaggioda maria clelia » 30 mag 2011, 16:23

l'inizio è (v.642) "At trepida et coeptis immanibus effera Dido" fino a (v.666) "atria: concussam bacchatur Fama per urbem"

maria clelia

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Messaggioda giada » 30 mag 2011, 16:26

at trepida et coeptis immanibus effera Dido
sanguineam volvens aciem, maculisque trementis
interfusa genas et pallida morte futura,
interiora domus inrumpit limina et altos
conscendit furibunda rogos ensemque recludit
Dardanium, non hos quaesitum munus in usus.
hic, postquam Iliacas vestis notumque cubile
conspexit, paulum lacrimis et mente morata
incubuitque toro dixitque novissima verba: 4.650
´dulces exuviae, dum fata deusque sinebat,
accipite hanc animam meque his exsolvite curis.
vixi et quem dederat cursum Fortuna peregi,
et nunc magna mei sub terras ibit imago.
urbem praeclaram statui, mea moenia vidi,
ulta virum poenas inimico a fratre recepi,
felix, heu nimium felix, si litora tantum
numquam Dardaniae tetigissent nostra carinae.´
dixit, et os impressa toro ´moriemur inultae,
sed moriamur´ ait. ´sic, sic iuvat ire sub umbras.
hauriat hunc oculis ignem crudelis ab alto
Dardanus, et nostrae secum ferat omina mortis.´
dixerat, atque illam media inter talia ferro
conlapsam aspiciunt comites, ensemque cruore
spumantem sparsasque manus. it clamor ad alta
atria: concussam bacchatur Fama per urbem.


Ma trepidante e furente per i propositi atroci, Didone
volgendo lo sgardo di sangue, chiazzata le guance
frementi di chiazzee pallida della futura morte,
irrompe nelle stanze interne della casa e sale
impazzita gli alti roghi e sguaina la spada
Dardania, regalo chiesto non per questi usi.
Qui, dopo che guardò le vesti iliache ed il noto
letto, fermatasi un po´ per lacrime e pensiero
si buttò sul letto e disse le ultime parole:
"Dolci spoglie, fin che i fati ed il dio permetteva,
accogliete quest´anima e scioglietemi da questi affanni.
Vissi ed il corso che la sorte mi diede, l´ho compiuto,
ed ora la grande immagine di me andrà sotto le terre.
Fondai una città famosa, vidi le mie mura,
vendicato il marito, ricevetti soddisfazione dal fratello nemico,
felice, ahi, troppo felice, se soltanto le carene
dardanie non avessero mai toccato i nostri lidi.".
Disse ed impressa la bocca sul letto"Moriremo invendicate,
ma moriamo" disse. "Così, così è bello andar sotto le ombre.
Il crudele dardano beva con gli occhi questo fuoco
dall´alto, e porti con sé i presagi della nostra morte".
Aveva detto, e le compagne in mezzo a tali parole la vedono crollata sull´arma, e la spada spumeggiante di sangue
e cosparse le mani. Va il grido alle alte
stanze: Fama furoreggia per la città sconvolta.

giada

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Messaggioda maria clelia » 30 mag 2011, 16:30

grazie mille grazieate grazieate grazieate grazieate

maria clelia

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