da giada » 29 lug 2010, 12:28
Dum haec Amyntas agit, forte supervenerunt qui fratrem eius Polemonem, de quo ante est dictum, fugientem consecuti vinctum reducebant. Infesta contio vix inhiberi potuit quin protinus suo more saxa in eum iaceret. Atque ille sane interritus: "Nihil", inquit, "pro me deprecor; modo ne fratrum innocentiae fuga inputetur mea. Haec si defendi non potest, meum crimen sit: horum ob id ipsum melior est causa, quod ego, qui profugi, suspectus sum." At haec elocuto universa contio adsensa est. Lacrimae deinde omnibus manare coeperunt adeo in contrarium repente mutatis, ut solum pro eo esset, quod maxime laeserat. Iuvenis erat primo aetatis flore pubescens, quem inter equites tormentis Philotae conturbatos alienus terror abstulerat. Desertum eum a comitibus, et haesitantem inter revertendi fugiendique consilium, qui secuti erant, occupaverunt. Is tum flere coepit, et os suum converberare, maestus non suam vicem, sed propter ipsum periclitantium fratrum. Moveratque iam regem quoque non contionem modo, sed unus erat inplacabilis frater, qui terribili vultu intuens eum: "Tum", ait, "demens, lacrimare debueras, cum equo calcaria subderes, fratrum desertor et desertorum comes. Miser, quo et unde fugiebas? Effecisti ut reus capitis accusatoris uterer verbis." Ille peccasse se, sed gravius in fratres quam in semetipsum fatebatur. Tum vero neque lacrimis, neque adclamationibus, quibus studia sua multitudo profitetur, temperaverunt. Vna vox erat pari emissa consensu, ut insontibus et fortibus viris parceret. Amici quoque data misericordiae occasione consurgunt, flentesque regem deprecantur. Ille silentio facto: "Et ipse", inquit, "Amyntan mea sententia fratresque eius absolvo. Vos autem, iuvenes, malo beneficii mei oblivisci quam periculi vestri meminisse. Eadem fide redite in gratiam mecum, qua ipse vobiscum revertor. Nisi, quae delata essent, excussissem, valde dissimulatio mea suppurare potuisset. Sed satius est purgatos esse quam suspectos. Cogitate neminem absolvi posse, nisi qui dixerit causam. Tu, Amynta, ignosce fratri tuo; erit hoc simpliciter etiam mihi reconciliati animi tui pignus."
Mentre Aminta pronunziava questo discorso, per caso sopraggiunsero coloro che riportavano indietro in catene suo fratello Polemone, di cui sopra si è detto, dopo averlo raggiunto mentre era in fuga. A stento si poté trattenere l’assemblea, ostile, dal lapidarlo immediatamente, come suo costume. E quello, assolutamente impavido, disse: “Non chiedo nulla per me; solo che la mia fuga non sia fatta carico all’innocenza dei miei fratelli. Se questa non può essere scusata, il crimine sia addebitato a me: la loro condizione è migliore per questo stesso motivo, che io, che sono fuggito, sono caduto in sospetto.” E dopo aver pronunziato queste parole, l’intera assemblea espresse la propria approvazione. Quindi tutti cominciarono a lacrimare, dopo aver cambiato radicalmente atteggiamento a tal punto che l’unica cosa a suo favore era ciò che lo aveva così tanto danneggiato. Egli era un giovanetto nel fiore dell’età, che il terrore degli altri aveva indotto ad andare via, mentre si trovava tra i cavalieri, sconvolti per le torture di Filota. Quelli che lo inseguivano lo sorpresero abbandonato dai compagni, ed incerto tra la decisione di tornare indietro e quella di fuggire. Allora egli iniziò a piangere e a percuotersi il volto, afflitto non per la propria sorte, ma per quella dei fratelli, in pericolo a causa sua. E aveva mosso a compassione ormai anche il re e non solo l’assemblea, ma l’unico inflessibile era il fratello, che fissandolo con espressione truce disse: “Stolto, allora dovevi piangere, quando spronasti il cavallo, disertore dei fratelli e compagno di disertori. Misero, dove fuggivi e da dove? Hai fatto sì che io, imputato di delitto capitale, facessi uso delle parole di un accusatore.” Quello ammetteva di aver sbagliato, ma più gravemente nei confronti dei fratelli che verso se stesso. Allora, invero, non trattennero né le lacrime né le acclamazioni, con cui una moltitudine esprime i propri orientamenti. Una sola voce veniva emessa unanimemente, che il re risparmiasse degli innocenti e degli uomini valorosi. Anche gli amici si levarono assieme, presentatasi l’occasione di perdono, e piangendo scongiurarono il re. Egli, imposto il silenzio, disse: “Anche io assolvo, a mio parere, Aminta ed i suoi fratelli. Inoltre preferisco che voi, o giovani, dimentichiate la mia benevolenza piuttosto che ricordiate il vostro pericolo. Ritornate nelle mie grazie con la stessa fiducia con la quale io stesso ritorno con voi. Se non avessi sviscerato bene ciò che era stato denunziato, la mia finzione avrebbe potuto certamente incancrenire. Ma è meglio che voi siate stati assolti piuttosto che rimanere sospettati. Pensate che nessuno può essere assolto, se non chi abbia sostenuto un’accusa. Tu, Aminta, perdona tuo fratello; ciò sarà per me semplicemente anche il pegno della mia riconciliazione con te