L’EUTANASIA
Quello dell’eutanasia è sicuramente uno degli argomenti dei quali si è maggiormente discusso nell’ultimo periodo.
Prima di poter parlare di eutanasia bisogna prima distinguere tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva: l'eutanasia attiva è quella dove un soggetto richiede espressamente di morire (per esempio un malato terminale con alto grado di sofferenza), mentre l'eutanasia passiva è quella dove il soggetto è incosciente e altri decidono per lui semplicemente sospendendo ogni forma di assistenza, alimentazione compresa. Secondo alcuni il termine passiva è usato a sproposito, ma è ormai comune ed è inutile cavillare sui termini, quando è chiaro cosa significhino. L'eutanasia attiva sotto forma di suicidio assistito è francamente inaccettabile, al meno in una visione positiva della vita. Senza scomodare la religione, anche il laico che dà valore alla vita non può non comprendere che la facilitazione di un suicidio non ha un confine ben netto e nessuno ha il diritto di fissarlo. In altri termini, perché dovrebbe essere legale assistere al suicidio chi soffre fisicamente e non chi soffre moralmente perché per esempio è sul lastrico o ha perso la famiglia in un tragico incidente?
Diverso è il caso di chi decide di sospendere le cure a lui indirizzate e ha il coraggio e la dignità di affrontare una fine ormai segnata.
Rientra ovviamente in questo caso (forse il più interessante, visti i continui episodi portati alla nostra attenzione dai media) l'eutanasia passiva, in cui si decide di sospendere l'assistenza a un malato giudicato in coma irreversibile.
Resta il problema (peraltro presente anche nell'aborto, in genere si parla di "diritti dell'embrione") di valutare il futuro della vita del soggetto, ora in coma, ma, chissà, fra mesi o anni, di nuovo cosciente. A questo punto la discussione diventerebbe infinita, ma questo modo di affrontare il problema è sostanzialmente sbagliato perché puramente dialettico e teorico.
In realtà occorre considerare che ogni malato ha diritto a morire con dignità. L'accanimento terapeutico è spesso il miglior modo di negare questa dignità (pensiamo a malati di tumori inguaribili in cui la chemioterapia addirittura peggiora la qualità della vita degli ultimi mesi di vita).
Il prolungamento dell'assistenza è un dramma per chi è vicino al malato; anche chi sostiene le cure a oltranza, spesso lo fa per l'incapacità di staccarsi dal congiunto, soffrendo e in ultima analisi distruggendosi la vita. Spesso la catena di dolore si allarga a toccare anche persone che sono marginalmente legate al malato perché l'amore (inteso come enorme dispendio di risorse umane) che il familiare dà al malato irreversibile ovviamente non può darlo ad altri.
Il costo dell'assistenza di un malato in coma irreversibile è elevatissimo. Con il costo di tale assistenza si sarebbe in grado di salvare molte più vite umane, dotando gli ospedali e le unità di pronto intervento di materiale più sofisticato e all'avanguardia. Per un malato che si sveglia dopo anni dal coma si perdono centinaia di vite umane. È egoistico pretendere che la società si occupi del nostro congiunto sapendo che quelle cure tolgono la vita a decine di altre persone (pensiamo a un infartuato non salvato perché l'unità di soccorso non era adeguata con la strumentazione più recente).
Il risveglio dal coma non è decisivo. Questo a mio
è il punto più importante. Anche i rarissimi casi di persone che si sono risvegliate, hanno una qualità della vita che ognuno di noi giudicherebbe per sé veramente pessima, spesso inesistente. Tutto questo fa propendere perché in una moderna società civile l'accettazione dell'eutanasia passiva sia del tutto auspicabile