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L’AMORE E LA DONNA
Dall’amor cortese allo stilnovismo
Il tema amoroso e la figura femminile occupano un posto centrale nella letteratura volgare del tardo medioevo, poiché sono uno dei cardini della visione cortese-cavalleresca, su cui si fonda un filone fondamentale della cultura di quell’età.
Parliamo di tardo medioevo (e cioè del periodo che va dall’anno mille alla scoperta del Nuovo Mondo) perché prima dell’anno mille la vita sociale, economica e culturale dell’Europa sembra pietrificata in una visione apocalittica ed ascetica della realtà: apocalittica perché la convinzione diffusa dal clero circa l’imminente fine del mondo e della storia induceva le masse ad indirizzare la vita quotidiana in una attesa e preparazione di tale evento, che racchiudeva in sé il terrore della fine e l’avvento della Città di Dio; ascetica perché, nella necessità di preparare le anime alla salvezza eterna, il Medio Evo cristiano aveva condannato l’amore come fonte di turbamento dei sensi, di peccato e di dannazione, contrapponendo ad esso l’amore mistico per Dio.
Di conseguenza anche la donna, oggetto, simbolo e mezzo dell’amore, veniva presentata come creatura diabolica e tentatrice, impura incarnazione del male.
Dopo l’anno mille, l’orologio della storia sembra rimettersi in moto, così come si rimettono in moto l’economia (commerci, agricoltura, arti), l’urbanizzazione (la crescita demografica e lo sviluppo delle città), la cultura (che fino all’anno mille è terreno esclusivo de chierici e in particolare dei monasteri).
Dal XII secolo, quindi, in conseguenza del processo di laicizzazione della cultura, la quale diviene espressione non più del mondo ecclesiastico ma dell’aristocrazia feudale, la concezione della donna si trasforma.
Essa non è più il simbolo del peccato, essere immondo e privo di anima (come descritto persino da qualche Padre della Chiesa): lungi dall’indurre l’uomo alla degradazione, la donna lo innalza e lo raffina attraverso l’amore; lungi dall’essere strumento di perdizione, la donna è creatura sublime, degna di devozione e di omaggio.
È questa la concezione dell’amor cortese, che nel rapporto tra l’amante e l’amata proietta i termini del legame tra vassallo e signore.
La donna nel mondo cavalleresco – cortese
Le prime manifestazioni di letteratura cortese si hanno nella Francia degli inizi del XII secolo. Questa nacque come reazione contro la rigidità dell’etica morale della Chiesa e come sfogo di una spinta alla rivoluzione del modo di pensare e dei costumi.
La letteratura cortese forniva, per il Medioevo, una nuova visione dell’amore, grazie ai trovatori, ai trovieri ed ai romanzieri; un amore fondato soprattutto sulla sublimazione della donna.
I primi furono i poeti di lingua d’oc, che predicavano la bellezza dell’amore, visto non come follia o disonore per l’uomo, ma come saggezza e come un sentimento in grado di esaltare tutte le qualità affettive e spirituali di una persona.
La dama nell’amore cortese è l’estasi di ciascun uomo. L’amante è accecato dalla bellezza della donna, la sua devozione a lei è estrema, egli le è completamente sottoposto e le deve perciò un lungo e totale servizio amoroso, senza mai aspettarsi una ricompensa. La figura femminile è quindi esaltata come la più bella e la più nobile, e per lei l’uomo innamorato perde la sua personalità, trovandosi come un bambino.
Per i romanzieri della Francia settentrionale l’amore era cosa meno casta e la donna provocava piacere, oltre che spirituale, anche carnale. Questo amore occupava maggiore spazio nei romanzi rispetto alle opere dei poeti lirici. Per questo fatto le figure femminili assunsero un rilievo più accentuato, mentre prima l’opera si svolgeva quasi esclusivamente attorno al tema dell’amore come estasi. La dama idolatrata dai trovatori era spesso un essere indefinito, idealizzato, sublimato, mentre l’eroina dei romanzieri era sempre un essere di carne.
La bellezza fisica della donna seduceva il cavaliere quasi quanto la sua perfezione morale, poiché l’amore nasce dall’attrazione fisica in primo luogo. Anzi, dalla seconda metà del XII secolo, l’idea che si abbia un’identità tra bontà e bellezza prese sempre maggiore diffusione, per il principio che una bella apparenza non può che riflettere ottime qualità interiori, la bellezza era data da un’immagine molto convenzionale, che corrispondeva agli stereotipi della moda. Fondamentalmente la pelle doveva essere chiara, il viso ovale, i capelli biondi, la bocca piccola, gli occhi azzurri e le sopracciglia disegnate.
Anche se poco descritte dai poeti, le altre parti del corpo femminile sono le gambe lunghe, il seno piccolo e , generalmente, la donna doveva essere esile e slanciata. Della produzione lirica provenzale ci rimangono 2542 componimenti. Essi non ci sono pervenuti anonimi, come è per tanta letteratura volgare del Medio Evo; tra i poeti più noti segnaliamo: Bertran de Born, ricordato in particolare per i suoi versi guerreschi; Bernart de Ventadorn, considerato da molti il maggior esponente della poesia sentimentale amorosa, nella sua forma più scorrevole e musicale (Amore e poesia); Arnaut Daniel, poeta d’amore in forme sottili e preziose, particolarmente ricercate ed elaborate (Arietta).
La donna nella poesia siciliana e nel dolce stilnovo
La diffusione dei temi amorosi cortesi in Italia è testimoniata inizialmente dai poeti della scuola siciliana nella prima metà del Duecento(1235-1250). I poeti siciliani sono tutti funzionari dello stato, notai come Iacopo da Lentini, giudici come Guido delle Colonne; per questi funzionari di corte la poesia è solo evasione dalla realtà o segno di appartenenza ad un’elite, e l’amore, unico tema dei loro versi, è un puro gioco, aristocratico e raffinato. I temi ricorrenti della poesia siciliana sono quelli tipici dell’amor cortese, ma una poesia di Iacopo da Lentini, Io m’aggio posto in core a Dio servire, presenta già un nuovo motivo, destinato poi ad ampi sviluppi: l’omaggio alla donna si arricchisce di immagini attinte al campo religioso, la gloria divina appare aleggiare intorno alla figura femminile e la gioia d’amore si trasforma in beatitudine paradisiaca. Ma di conseguenza si delinea inevitabilmente anche un conflitto tra l’amore per la donna e l’amore per Dio.
Questi temi ricompaiono qualche decennio più tardi nel bolognese Guido Guinizzelli, che è stato considerato l’iniziatore della corrente del dolce stil novo: nella canzone “al cor gentil rempaira sempre amore” il rapporto tra uomo e donna non è più comparato a quello tra vassallo e signore, ma a quello tra angeli e Dio; il campo delle immagini non è più feudale ma teologico. L’amore si ammanta di valori religiosi:non è solo segno di superiorità spirituale, ma diviene una sorta di culto mistico della donna , che è trasformata in essere sovrannaturale,miracoloso, equiparabile alla divinità stessa. La restante produzione poetica guinizzelliana imposta i due temi centrali dello stilnovismo: la sofferenza provocata dall’amore (Lo vostro bel saluto e ‘l gentil sguardo) e la lode dell’eccellenza della donna (Io voglio del ver la mia donna laudare). Questi sono temi che si possono ritrovare nel maggior rappresentante dello stilnovismo, il poeta “maledetto” Guido Cavalcanti. Nei sonetti Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira e Voi che per li occhi mi passaste ‘l core compaiono gli effetti devastanti della passione amorosa
Il rapporto con la donna di Dante e di Petrarca
Seguendo il filo di questa tematica s’incontra Dante:nelle Rime giovanili e nella Vita nuova il poeta si rifà ai modelli di Guinizzelli e Cavalcanti. Nato a Firenze nel 1265, da una famiglia della piccola nobiltà cittadina di parte guelfa, narra di aver incontrato Beatrice per la prima volta all’età di nove anni. All’età di diciotto anni, incontra di nuovo la gentilissima e ripone nel suo saluto tutti”li termini” della sua “beatitudine”. Ma quando questo gli viene privato, Dante prova una profonda sofferenza; è nella prima parte della Vita nuova che il poeta si rifà al modello cavalcantiano dell’amore distruttivo. Nella seconda parte, quando Dante si rende conto che il fine del suo amore non deve essere posto in qualcosa di materiale, ma nelle parole che lodano la sua donna , si affianca ai canoni guinizzelliani con la canzone Donne voi ch’avete intelletto d’amore. Nella terza e ultima parte dell’opera l’amore per Beatrice si è innalzato a un livello ben superiore a quello cortese dei trovatori. L’amore non è più una passione terrena, sia pur sublimata e raffinata, non si limita a ingentilire l’animo: è una forza divina. Ma vengono superati anche i termini dello stilnovismo precedente:Guinizzelli e Cavalcanti cantavano bensì la donna come dono e miracolo di Dio, ma l’amore era solo un processo discendente,da Dio al poeta (Dio→donna→poeta);il processo ascendente si arrestava alla donna. Era inevitabile quindi un conflitto tra l’amore per la donna e l’amore per Dio. In Dante il conflitto è superato: il processo ascendente torna sino a Dio proprio per il tramite della donna. L’amore per la donna innalza l’anima sino alla contemplazione del cielo: è questo il terzo stadio dell’amore nella Vita nuova, identificabile nell’ultimo sonetto dell’opera, Oltre la sfera che più larga gira, in cui contempla Beatrice nella gloria dell’Empireo. La Vita nuova si configura dunque come un Itinerarium mentis in Deum, un viaggio dell’anima a Dio, contraddistinto in tre fasi:”extra nos”,”intra nos”,”super nos”.
Un altro famoso poeta successivo a Dante utilizza le tematiche dell’amor cortese: Petrarca, la cui donna cantata assume il nome di Laura. All’amore per Laura sono dedicati quasi tutti i componimenti del Canzoniere e la voce dell’io che si rivolge al lettore è tutta segnata dall’esperienza di amore. Tuttavia nei caratteri e nelle immagini del mondo femminile è eliminata ogni traccia di realismo e di concretezza fisica : atti, gesti, situazioni, si collocano su un piano di astrazione simbolica, diventano segni di un’esperienza interiore. Lo stesso nome della donna apre la strada a tutta una serie di associazioni simboliche che alludono alla poesia e alle ambizioni culturali del Petrarca: Laura infatti si identifica e si confonde con il lauro, la pianta di Apollo e della poesia, la pianta trionfale con cui lo stesso Petrarca venne incoronato poeta nel 1341.
Comparando Laura alla donna dantesca notiamo come l’amore è visto per quello che è, non sentimento sublime che raffina l’animo, né forza trascendente che innalza a Dio, ma violento desiderio sensuale, una vera ossessione che impedisce una vita autentica. Inoltre Laura non è più l’idolo remoto degli stilnovisti, sottratto al tempo, né creatura sovrannaturale come Beatrice: al contrario è una creatura del tutto umana, e il suo bel corpo non sfugge all’azione distruttrice del tempo; se al poeta appariva non “cosa mortale” ma “angelica forma”, era solo effetto di un’illusione, creata dalla passione amorosa. L’immagine di Laura in cielo, dopo la sua morte, non è una visione mistica, ma una consolante fantasia, in cui il poeta cerca soddisfazione al desiderio ormai inappagabile. Dietro le apparenze di una ripresa, la rappresentazione dell’amore in Petrarca è in realtà la sconfessione della tematica cortese e di quella stilnovistico-dantesca.
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