da axen » 30 set 2008, 19:59
confronto del profilo di ulisse nell'odissea nell'inferno di dante e nella poesia del foscolo
Ulisse dantesco e Ulisse omerico
Dante, nel raccontare di Ulisse, valorizza la sua saggezza e la sua furbizia. L'immagine di questo eroe è associata a quella di un imbroglione, di una persona sì astuta, ma di cui non ci si può fidare perché falsa e ingannatrice
Fa emergere il suo lato coraggioso, desideroso di conoscenza e verità.
L’Ulisse dantesco è un viaggiatore che cerca soltanto il nuovo, anzi l’ignoto, senza alcun desiderio di fare ritorno. In Dante né il desiderio del figlio, né la pietà verso il padre, né l’affetto nei riguardi di Penelope, possono trattenere il viaggiatore Ulisse. Quindi nella visione dantesca, Ulisse è colui che si è spinto, da uomo, oltre ogni limite, fino ad arrivare alla morte. E’ ormai un uomo che ha smarrito ogni senso della dimora, per il quale l’erranza è divenuta l’unica, la sola forma di vita, senza più neppure il ricordo di una casa ove tornare, senza più neppure il piacere della sosta.
L’Ulisse omerico, invece, è il viaggiatore che attraversa un’infinità di pericoli e di tentazioni, volendo fondamentalmente fare ritorno alla nativa Itaca.
Nei vari pericoli il suo unico pensiero è verso la famiglia, gli amici e la cara patria.
Il personaggio di Ulisse negli scritti omerici, con la sua complessità, le sue contraddizioni, la sua capacità di affrontare con coraggio le situazioni più difficili e, allo stesso tempo, i momenti di debolezza in cui si abbandona al dolore per la lontananza da casa, insomma il suo essere uomo prima ancora che eroe, è un valido esempio per ogni uomo.
Egli non è solo l'eroe-guerriero coraggioso e pronto alla battaglia, imperturbabile di fronte alla possibilità di morire, è anche l'uomo astuto, istintivo, l'uomo mosso dal desiderio di conoscere, l'uomo che soffre per la lontananza dalla sua terra, dalla casa, dalla sposa e dal figli. L'immagine che si ha di lui grazie ad Omero, è quella di un uomo molto astuto, il cui intervento è richiesto proprio nei momenti critici, quelli in cui è indispensabile una soluzione immediata perché l'azione possa procedere e seguire il proprio corso.
Nell’odissea Ulisse si presenta come colui che accetta il proprio destino e sfrutta le sue doti naturali, la pazienza e l'ingegno, per potere finalmente rivedere la propria terra. Questo è l'aspetto meno eroico e più umano di Ulisse: egli è profondamente legato a Itaca, il luogo in cui ha lasciato gli affetti più cari, la sposa Penelope e il figlio Telemaco, dove ha la sua casa e dove può condurre la vita che desidera. Non c'è nulla, durante il lungo e travagliato viaggio, che lo faccia desistere dal suo obiettivo, nemmeno la possibilità di vivere accanto a una splendida ninfa come Calipso e di godere dell'eterna giovinezza.
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Omero -- Odissea
Il proemio
" Narrami, o Musa, dell’eroe multiforme che tanto
vagò, dopo che distrusse la rocca sacra di Troia:
di molti uomini vide le città e conobbe i pensieri,
per acquistare a sé la vita e il ritorno ai compagni.
Ma i compagni neanche così li salvò, pur volendo:
con la loro empietà si perdettero,
stolti, che mangiarono i buoi del Sole
Iperione: ad essi egli tolse il dì del ritorno.
Racconta qualcosa anche a noi, o dea figlia di Zeus. "
canto XXVI divina commedia
Lo maggior corno de la fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica;
indi la cima qua e là menando,
come fosse la lingua che parlasse,
gittò voce di fuori, e disse: «Quando
mi diparti’ da Circe, che sottrasse
me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enea la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né ’l debito amore
lo qual dovea Penelopé far lieta,
vincer potero dentro a me l’ardore
La punta più alta dell'antica fiamma
cominciò a scuotersi mormorando,
proprio come quella fiamma che il vento agita;
quindi, scuotendo la cima di qua e di là,
come se fosse la lingua che parlasse,
tirò fuori la voce e disse: "Quando
me ne andai via da Circe, che mi costrinse
più di un anno a Gaeta,
prima che Enea la chiamasse così,
nè la tenerezza per mio figlio, nè il rispetto
verso il mio vecchio padre, nè l'amore dovuto,
il quale doveva far felice Penelope,
riuscirono a vincere dentro di me il desiderio
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
Io e ’ compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov’Ercule segnò li suoi riguardi,
acciò che l’uom più oltre non si metta:
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l’altra già m’avea lasciata Setta.
"O frati", dissi "che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d’i nostri sensi ch’è del rimanente,
non vogliate negar l’esperienza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
che io ebbi di diventare esperto del mondo
e dei vizi e delle virtù degli uomini;
ma mi misi in viaggio per il profondo mare aperto
solo con una nave e con quella piccola compagnia
dalla quale non ero stato abbandonato.
Vidi l'una e l'altra sponda fino alla Spagna,
fino al Marocco e la Sardegna,
e le altre isole bagnate da quel mare.
Io e i miei compagni eravamo vecchi e lenti
quando giungemmo a quello stretto punto di passaggio dove Ercole pose i suoi confini,
affinché nessuno andasse oltre;
mi lasciai a destra Siviglia,
dall'altra parte mi aveva già lasciato Ceuta.
"O compagni" dissi "che per numerosi pericoli siete giunti all'occidente,
a questa tanto piccola veglia
dei nostri sensi che ci rimane
non negate la conoscenza,
del mondo disabitato che sta dietro al sole.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
sempre acquistando dal lato mancino.
Tutte le stelle già de l’altro polo
vedea la notte e ’l nostro tanto basso,
che non surgea fuor del marin suolo.
Cinque volte racceso e tante casso
lo lume era di sotto da la luna,
poi che ’ntrati eravam ne l’alto passo,
quando n’apparve una montagna, bruna
per la distanza, e parvemi alta tanto
quanto veduta non avea alcuna.
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
ché de la nova terra un turbo nacque,
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ’l mar fu sovra noi richiuso
Considerate la vostra origine:
non foste creati per vivere come bestie,
ma per comportarsi virtuosamente e ed inseguire la conoscenza".
Io resi i miei compagni così desiderosi,
con questa orazione spicciola, del viaggio,
che dopo li avrei trattenuti a fatica;
e rivolta la nostra poppa verso oriente,
facemmo dei remi le ali per il volo folle,
procedendo sempre più a sinistra.
Già tutte le stelle dell'altro polo
si vedevano di notte, e il nostro era tanto basso,
che non emergeva dalla superficie del mare.
La luce della faccia inferiore della luna si era accesa cinque volte e spenta altrettante
da quando avevamo oltrepassato il difficile stretto,
quando ci apparve una montagna, oscura
per la distanza, e mi sembrò tanto alta
come non avevo mai vista alcuna.
Noi ci rallegrammo, ma presto la nostra gioia fu tramutata in pianto, poiché dalla terra nuova sorse un turbine e colpì la parte davanti della nave.
Il turbine la fece girare insieme alle acque per tre volte;alla quarta fece alzar la poppa in su
e la prua in giù, come sembrò giusto ad altri,
fino a che il mare fu richiuso sopra di noi"
U.FOSCOLO -- A ZACINTO
Né più mai toccherò le sacre sponde
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
del greco mar da cui vergine nacque
Venere, e fea quelle isole feconde
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde
l'inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse
il fato illacrimata sepoltura.
A.TENNYSON -- ULISSE
Re neghittoso alla vampa del mio focolare tranquillo
star, con antica consorte, tra sterili rocce, non giova
e misurare e pesare le leggi ineguali a selvaggia
gente che ammucchia, che dorme, che mangia e che non mi conosce.
Starmi non posso dall’errar mio: vuò bere la vita
sino alla feccia.Per tutto il mio tempo ho molto gioito,
molto sofferto, e con quelli che in cuor mi amarono, e solo;
tanto sull’arida terra, che quando tra rapidi nembi
l’Iadi piovorne travagliano il mare velato di brume.
Nome acquistai, ché sempre errando con avido cuore
molte città vidi io, molti uomini, e seppi la mente
loro, e la mia non il meno; ond’ero nel cuore di tutti:
e di lontane battaglie coi pari io bevvi la gioia,
là nel pianoro sonoro di Troia battuta dal vento.
Ciò che incontrai nella mia strada,ora ne sono una parte.
Pur,ciò ch’io vidi è l’arcata che s’apre sul nuovo:
sempre ne fuggono i margini via, man mano che inoltro.
Stupida cosa il fermarsi,il conoscersi un fine, il restare
sotto la ruggine opachi nè splendere più nell’attrito.
Come se il vivere sia quest’alito!vita su vita
poco sarebbe,ed a me d’una, ora,un attimo resta.
Pure, è un attimo tolto all’eterno silenzio, ed ancora
porta con sè nuove opere, e indegna sarebbe,per qualche
due o tre anni,riporre me stesso con l’anima esperta
ch’arde e desìa di seguir conoscenza:la stella che cade
oltre il confine del cielo,di là dell’umano pensiero.
Ecco mio figlio, Telemaco mio, cui ed isola e scettro
lascio; che molto io amo; ceh sa quest’opera, accorto,
compiere; mansuefare una gente selvatica, adagio,
dolce, e così via via sottometterla all’inutile e al bene.
Irreprensibile egli è, ben nel mezzo ai doveri,
pio, che non mai mancherà nelle tenere usanze, e nel dare
il convenevole culto agli dei della nostra famiglia,
quando non sia qui io: il suo compito e’ compie; io, il mio.
Eccolo il porto, laggiù: nel vascello si gonfia la vela:
ampio nell’oscurità si rammarica il mare. Compagni
cuori ch’avete con me tollerato, penato, pensato,
voi che accoglieste, ogni ora, con gaio ed uguale saluto
tanto la folgore, quanto il sereno, che liberi cuori,
liberi fronti opponeste: oh! Noi siam vecchi, conpagni;
pur la vecchiezza anch’ella ha il pregio, ha il compito: tutto
chiude la Morte; ma può qualche opera compiersi prima
D’uomini degna che già combatterono a prova coi Numi!
Già da’ tuguri sui picchi le luci balenano: il lungo
giorno dilegua, al luna insensibile monta; l’abisso
geme e sussurra all’intorno le mille sue luci. Venite:
tardi non è per coloro che cercano un mondo novello.
Uomini, al largo, e sedendovi in ordine, i solchi sonori
via percotete: ho fermo nel cuore passare il tramonto
ed il lavacro degli astri di là: fin ch’abbia la morte.
Forse è destino che i gorghi del mare ci affondino; forse,
nostro destino è toccar quelle isole della Fortuna,
dove vedremo l’a noi già noto, magnanimo Achille.
Molto perdemmo, ma molto ci resta: non siamo la forza
più che nei giorni lontani moveva la terra ed il cielo:
noi, s’è quello che s’è: una tempera d’eroici cuori,
sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri
sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai.
G.PASCOLI -- ULTIMO VIAGGIO DI ULISSE
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille,
avanti sè miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
"Son io! Son io, che torno per sapere!
Chè molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch’io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?"
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide un grande mucchio d’ossa
d’uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
"Vedo. Sia pure. Questo duro ossame
cresca quel mucchio. Ma,
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch’io muoia, a ciò ch’io sia vissuto!"
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E s’ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi delle due Sirene.
"Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io, chi ero!"
E tra i due scogli si spezzò la nave.
G.D'ANNUNZIO -- L'INCONTRO DI ULISSE
Incontrammo colui
che i Latini chiamano Ulisse,
nelle acque di Leucade, sotto
le rogge bianche rupi
che incombono al gorgo vorace,
presso l’isola macra
come corpo di rudi
ossa incrollabili estrutto
e sol d’ argentea cintura
precinto.Lui vedemmo
su la nave incavata.E reggeva
ei nel pugno la scotta
spiando i volubili venti,
silenzioso;e il pileo
èstile dei marinai
coprivagli il capo canuto,
la tunica breve il ginocchio
ferreo,la palpebra alquanto
l’occhio aguzzo; e vigile in ogni
muscolo era l’ infaticata
possa del magnanimo cuore.
E non i tripodi massicci,
non i lebeti rotondi
sotto i banchi del legno
luceano,i bei doni
d’ Alcinoo re dei Feaci,
né la veste né il manto
distesi ove colcarsi
e dormir potesse l’Eroe;
ma solo ei tolto s’avea l’arco
dall’allegra vendetta, l’arco
di vaste corna e di nervo
duro che teso stridette
come la rondine nunzia
del di,quando ei scelse il quadrello
a fieder la strozza del proco.
Sol con quell’arco e con la nera
sua nave,lungi dalla casa
d’alto colmigno sonora
d’industri telai, proseguiva
il suo necessario travaglio
contra l’implacabile Mare.
- O Laertiade- gridammo,
e il cuor ci balzava nel petto
come ai Coribanti dell’Ida
per una virtù furibonda
e il fegato acerrimo ardeva
- O Re degli Uomini, eversore
di mura, piloto di tutte
e sirti, ove navighi? A quali
meravigliosi perigli
conduci il legno tuo nero?
Liberi uomini siamo
e come tu la tua scotta
noi la vita nostra nel pugno
tegnamo, pronti a lasciarla
in bando o a tenderla ancora.
Ma, se un re volessimo avere,
te solo vorremmo
per re, te che sai mille vie.
Prendici nella tua nave
tuoi fedeli insino alla morte!-
Non pur degnò volgere il capo.
Come a schiamazzo di vani
fanciulli, non volsa egli il capo
canuto; e l’aletta vermiglia
el pileo gli palpitava
al vento su l’arida gota
che il tempo e il dolore
solcato avean di solchi
venerandi. -Odimi- io gridai
sul clamor dei cari compagni
-odimi, o Re di tempeste!
Tra costoro io sono il più forte.
Mettimi a prova. E, se tendo
l’arco tuo grande,
qual tuo pari prendimi teco
ma, s’io nol tendo, ignudo
tu configgimi alla tua prua-.
Si volse egli men disdegnoso
a quel giovine orgoglio
chiarosonante nel vento;
e il folgore degli occhi suoi
mi ferì per mezzo alla fronte.
Poi tese la scotta allo sforzo
del vento; e la vela regale
lontanar pel Ionio raggiante
guardammo in silenzio adunati.
Ma il cuor mio dai cari compagni
partito era per sempre;
ed eglino ergevano il capo
quasi dubitando che un giogo
fosse per scender su loro
intollerabile. Io tacqui
in disparte, e fui solo;
per sempre fui solo sul mare.
E in me solo credetti.
Uomo, io non credetti ad altra
virtù se non a quella
inesorabile d’un cuore
possente. E ame solo fedele
io fui, al mio solo disegno.
O pensieri, scintille
dell’Atto, faville del ferro
percosso, beltà dell’incude!
C.KAVAFIS -- ITACA
Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
o Posidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto, e squisita
è l'emozione che ti tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai,
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.
Fa voti che ti sia lunga la via.
E siano tanti i mattini d'estate
che ti vedano entrare ( e con che gioia
allegra!) in porti sconosciuti prima.
Fa scalo negli empori dei Fenici
per acquistare bella mercanzia,
madrepore e coralli, ebani e ambre,
voluttuosi aromi d'ogni sorta,
quanti più puoi voluttuosi aromi.
Rècati in molte città dell'Egitto,
a imparare imparare dai sapienti.
Itaca tieni sempre nella mente.
La tua sorte ti segna quell'approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni, che vecchio
tu finalmente attracchi all'isoletta,
ricco di quanto guadagnasti in via,
senza aspettare che ti dia ricchezze.
Itaca t'ha donato il bel viaggio.
Senza di lei non ti mettevi in via.
Nulla ha da darti più.
E se la trovi povera, Itaca non t'ha illuso.
Reduce così saggio, così esperto,
avrai capito che vuol dire un'Itaca.
U.SABA -- ULISSE
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
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Il mito di Ulisse attraverso la letteratura
Miti e credenze sull’origine di Ulisse
Alcuni miti suggeriscono che Odisseo era il figlio illegittimo di Sisifo, il fondatore della città di Corinto. Questo spiegherebbe il suo ingegno dato che Sisifo era tanto intelligente da superare in astuzia sia Thanato (morte) sia il re dell'oltretomba, Ade.
Odisseo fu infatti la mente dei greci all'assedio di Troia. Egli ebbe l'idea di ingannare i troiani introducendo nella città, come dono, un cavallo di legno al cui interno erano nascosti i soldati greci. Quando lo stratagemma riuscì, i greci poterono porre fine alla guerra. Tuttavia Ulisse (gr. Оδυσσεύς e lat. Ulixes) nella mitologia greca è il re di Itaca, figlio di Laerte e di Anticlea, imparentato con Hermes per via di Autolico, il nonno materno,figlio di questo dio. Si tratta di una relazione significativa: l’astuzia, che è un modo d’essere del dio Hermes, è anche il tratto dominante di Ulisse. Grazie ad essa Ulisse è compreso tra quegli eroi che godevano la speciale protezione della dea Atena (secondo un mito sarebbe nato in un suo santuario).
Il matrimonio con Penelope
Ulisse fu uno dei pretendenti di Elena e fu ancora lui che diede il suggerimento a Tindaro del giuramento di protezione ed aiuto a chiunque sposerà Elena. Ulisse sposò poi Penelope, nipote di Tindaro, quindi ritornato ad Itaca, ebbe un figlio, Telemaco. Telemaco era ancora bambino, quando Agamennone, Menelao e Palamede si recarono da Ulisse, chiedendogli di mantenere fede al giuramento fatto a Tindaro. Ulisse non voleva partire e si finse pazzo.
Attaccò all'aratro un asino e un bue, arò il campo e vi sparse del sale. Ma Palemede scoprì l'inganno, così Ulisse fu costretto a partire.
La guerra di Troia
Arrivato a Troia, diede prova di coraggio ed ingegno. Fu lui, con Aiace il grande, che difese il corpo di Achille. Riusciti nell'intento, entrambi reclamarono le sue armi, forgiate da Efesto.La scelta cadde su Ulisse e ciò provocò la pazzia di Aiace. Certe versioni lo indicano come l'ideatore del cavallo di legno che porrà fine alla guerra Troia. Infatti si dice che organizzò in questo modo la presa della città: fece smontare tutti gli accampamenti greci e spostare le navi in una baia riparata. Poi costruì con alcuni compagni un enorme cavallo in legno con un'apertura nel ventre ben nascosta dove entrarono i guerrieri più feroci. Infine la mattina dopo, una sentinella troiana si accorse della scomparsa dei greci e dell'apparizione del cavallo. Quasi tutti pensarono che fosse un omaggio a Poseidone per ingrazirsi il favore del dio e favorireil viaggio di ritorno. Così lo portarono in città e festeggiano tutta la notte. Appena i troiani si addormentarono, però, dal cavallo uscirono i greci che aprirono i portoni ai loro compagni per procedere al massacro dei nemici, ubriachi o addormentati.
Ritorno a Itaca
Distrutta Troia, Ulisse diviene protagonista dell'Odissea, la grandiosa avventura che lo riporterà ad Itaca dopo molto tempo. Ulisse vorrebbe ritornare agli affetti familiari e alla nativa Itaca dopo dieci anni passati a Troia, ma l'odio di un dio avverso, Poseidone, glielo impedisce. Dopo l'avventura di Circe, Odisseo , su indicazione della stessa maga si reca nel regno dei morti , dove riesce ad intravedere le figure dei compagni defunti durante la guerra di Troia, la madre e l'indovino Tiresia, che gli predice che gli preannuncia un ritorno luttuoso e difficile e lo invita di guardarsi dal toccare le vacche del Sole. Rimessosi in rotta Ulisse se la vede ancora con le pericolose sirene, i mostri Scilla e Cariddi e con la disubbidienza dei compagni che non riescono a frenare la voglia di banchettare con le attiranti mucche. Per questo Odisseo racconta di essere stato per nove giorni in balia di terribili tempeste scatenate da Zeus, da cui riuscì a scampare grazie all'arrivo sull'isola di Ogigia. L'eroe è dunque riaccompagnato a casa con abbondanti doni, e dopo essersi rivelato al figlio e al fedele Eumeo si reca alla reggia dove si fa accogliere come un mendicante. Qui schernito ripetutamente dai tracotanti proci, partecipa alla gara di arco organizzata da Penelope, che aveva promesso di consegnarsi in sposa a colui che sarebbe riuscito a scoccare una freccia dal pesante arco del marito facendola passare per le fessure di dodici scuri. Nessuno dei pretendenti ci riesce e così l'ultimo tentativo spetta ad Odisseo, che, dopo averlo scaldato sulla fiamma riesce perfettamente nell'impresa. A questo punto non gli rimane che scatenare la vendetta che aveva attentamente preparato con Eumeo, Filezio e il figlio.
La morte
Tornato ad Itaca, scopre che Telemaco ha lasciato la sua casa. Un oracolo gli ha predetto che Ulisse sarebbe morto per mano del figlio. Telemaco ha così scelto l'esilio volontario nella vicina Cefalonia. Ulisse, senza esserne a conoscenza, ha dato un figlio a Circe, presso la quale aveva soggiornato nel suo lungo viaggio di ritorno da Troia. Questo figlio, Telegono, era alla ricerca del padre. Un giorno giunge ad Itaca. Viene dato l'allarme, degli stranieri sono sbarcati. Ulisse e le sue guardie, scendono alla riva. Ne nasce una battaglia, in cui Ulisse muore per mano di Telegono.
Proemio dell’Iliade e dell’Odissea
Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l'ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all'Orco
generose travolse alme d'eroi,
e di cani e d'augelli orrido pasto
lor salme abbandonò (così di Giove
l'alto consiglio s'adempìa), da quando
primamente disgiunse aspra contesa
il re de' prodi Atride e il divo Achille.
Narrami l'uomo dall'ingegno versatile, oh Musa, che moltissimo
fu costretto a vagare, dopo che distrusse la sacra città di Troia:
vide e conobbe la mente di molti uomini,
soffrì nel suo animo molti dolori
lottando per la sua vita e per il ritorno dei compagni.
ma neanche così li salvò, benchè lo volesse:
infatti morirono per la loro insensata indifferenza,
folli!, che divorarono le mucche del Sole Iperione
In seguito egli negò loro il giorno del ritorno.
Oh dea figlia di Zeus, partendo da un punto qualunque, parla anche a noi di questi avvenimenti.
Come già l’Iliade così anche l’Odissea presenta subito al pubblico, con la prima parola del proemio, il tema che intende affrontare: da una parte la μηνις di Achille (che indica un’ira profonda e tenace, uno stato d’animo duraturo contrapposto al χόλος, la collera improvvisa),dall’altra l’άνηρ, l’uomo; da un lato una storia di passioni dall’altro una storia di azioni che vede come protagonista Odisseo. E’ da questi due incipit che si snodano i primi grandi modelli non solo per il popolo greco ma anche per l’intero Occidente. Il primo è Achille, il più forte e il più bello tra i guerrieri greci, che sebbene sia conforme all’ideale di καλοκαγαθία è anche, come solo un passionale sa essere, crudele ingiusto e violento. Egli alimenta il senso eroico della vita, senso che se già nell’Iliade mostra di essere allo stremo, in realtà continua come suggestione potente per la Grecia.
Dall’altro lato sta Odisseo, non bello non alto, non biondo. Nell’Iliade sebbene non esibisca prove di particolare valore, se ne sottolineano gli aspetti che troveranno poi più ampio sviluppo nell’Odissea: mediatore dei rapporti fra i capi e l’esercito nel secondo canto, raffinato oratore, le cui parole sembrano “fiocchi di neve d’inverno” nel terzo canto, con un ruolo di spicco come legato dell’ambasceria alla tenda di Achille nel nono, intraprendente e audace nella sortita notturna del decimo, Odisseo tempera la passionalità di Achille, la sua ansia di uscire in battaglia, nel diciannovesimo, riportandolo a riconoscere, ben prima del sentimento l’esistenza per gli uomini di ineludibili bisogni concreti e immediati: segno di adattabilità alle circostanze più varie.
Odisseo dominerà invece l’altro poema che invece fa di lui un eroe diverso da Achille. Non a caso infatti l’aedo Democo canta nell’Odissea di una contesa tra i due analizzandone le differenze: Ulisse non morirà giovane in battaglia, ma avrà una morte serena in tarda età e in patria, come aveva predetto l’indovino Tiresia, e proporrà nelle sue imprese valori allora sconosciuti al mondo eroico.
Gli epiteti che lo definiscono, pur formulari, ripetitivi e riempitivi, il più delle volte nudi di un significato pertinente alla situazione specifica, lo determinano senza equivoci in quanto sono riservati da Omero solo a lui: πολύτροπος (da πολύς=molto più τρόπος=direzione,uso,indole,natura da τρέπω=rivolgere,dirigere) primo epiteto attribuito a Odisseo nel proemi che significa che ha molto errato ma anche dal multiforme ingegno, scaltro, πολύμητις, cioè ingegnoso, pieno di senno (da πολύς=molto e μητις=saggezza), ποικιλομήτης, che rimanda alla varietà della sua intelligenza (da ποικιλος=variegato,complesso μητις=saggezza), πολυμηχανός (da πολύς=molto e μηχανή=artifizio parola ambigua in greco che sta a indicare espedienti di difficile collocazione sotto il profilo morale) cioè mentitore, ricco d’astuzie e πολύτλας (da πολύς=molto e la radice di τληναι=sopportare) ovvero tollerante i mali, che molto sopporta.
Tali epiteti come possiamo notare hanno la caratteristica di essere formati da una parte invariabile (πολύ-) che propone una molteplicità numerica che associata al secondo termine rimanda a una singolare unità nella molteplicità delle sfaccettature dell’eroe. Odisseo infatti nel suo lungo viaggio rimane sostanzialmente uguale a se stesso.
Tuttavia la sua personalità lasciò perplessi numerosi commentatori antichi a partire da Platone ed Eustazio per “doti” che, nello sviluppo della società greca, erano state ormai svuotate e condannato; lo stesso nonno materno di Ulisse, Autolico reso ladro e spergiuro da Hermes per aver ucciso i buoi a lui sacri, poiché odiava ed era odiato dagli uomini volle dare al nipote il nome di Odisseo, e in effetti Poseidone molto lo odierà ostacolandone il ritorno. Tuttavia la natura ingannevole e astuta ereditata dal nipote piegherà di volta in volta il nome alle diverse circostanze. Infatti πολύτροπος, se da una parte rimanda ai molti viaggi (il cui concetto è rafforzato nel proemio dal uso del poliptoto della parola πολύς, con il quale il poeta evidenzia la curiosità e la sete di nuove conoscenze dell'eroe ma introduce anche l'altra tematica del poema, cioè le sofferenze e i dolori sopportati da Ulisse che vuole ritornare in patria e che si sente responsabile anche della vita dei compagni), dall’altra rimanda alle molte identità che ogni nuovo incontro comporta. La mutevolezza (ποικιλία) è adattamento cioè capacità di sopportare (πολύτλας) ma tradisce una sempre identica natura, quella del nonno e di Hermes, protettore dei ladri e dei mercanti. Perciò nel termine greco πολύτροπος si assiste a un progressivo slittamento semantico dal viaggiatore all’astuto.
Come osservò anche Platone alla mutevolezza di Odisseo si oppone invece l’integrità, la semplicità di Achille che è απλόος nel senso di unitario. Anche nell’arte figurativa alle rappresentazioni frontali di Achille si sostituiscono quelle “di scorcio” di Ulisse che rimanda a qualcosa di lontano ed estraneo a ciò che suggerisce l’apparenza.
Le Sirene nell’Odissea: un mortale e dolce oblio
Lasciata l’isola di Eèa, Odisseo e i compagni si dirigono verso occidente grazie al vento propizio inviato dalla maga Circe per favorire la loro navigazione. Vicini all’isola delle Sirene,uccelli con la testa di donna,l’eroe rivela ai compagni le indicazioni della maga:tapperà loro le orecchie con la cera, poi essi dovranno legarlo all’albero della nave in modo che egli possa ascoltare il loro canto senza caderne vittima.
Nei vv154-157 Odisseo avverte i compagni dell’utilità della conoscenza: essere consapevoli dei pericoli non serve ad evitarli ma ad affrontarli nel modo migliore facendo ricorso ai mezzi della ragione. Chi si avvicina alle sirene αϊδρείη (“nell’ignoranza”), aveva detto Circe, va incontro a morte sicura(XII 41-46), una morte che toglie all’uomo la sua dignità.
Nei vv184-191 le sirene affermano di sapere tutto ciò che accade sulla terra. Ed è proprio dalla promessa di un arricchimento conoscitivo che deriva loro quel fascino a cui gli uomini non sanno rinunciare. Il loro sapere è simile a quello delle Muse che Omero invoca a sostegno della sua memoria e delle sue conoscenze dicendo:”voi infatti siete dee, siete presenti e sapete tutto; noi poeti invece udiamo soltanto la fama e non sappiamo niente”(Iliade II vv485-486). Nell’incontro con Odisseo le Sirene sfoderano un’arma senz’altro vincente, se l’eroe non fosse saldamente legato all’albero della nave e non fosse quindi materialmente impedito a soddisfare l’irresistibile impulso ad abbandonarsi alle loro lusinghe. Esse infatti tentano di attirarlo con il canto di quelle imprese epiche che l’eroe ha vissuto in prima persona: ecco allora il ricorso ad epiteti e formule tipicamente iliadiche con lo scopo di arrivare direttamente al cuore di Odisseo. Quale fosse l’effetto prodotto su di lui dal ricordo delle vicende di Troia lo sappiamo da racconto di Demodoco (canto ottavo) che per due volte aveva provocato il pianto dell’eroe. Ma il canto delle Sirene è molto più pericoloso di questo perché non è mediato da un rituale che permette agli uomini di ricordarsi che sono uomini. Senza un contesto preciso di enunciazione infatti come un rituale religioso o un banchetto, l’epopea resta inudibile per gli uomini senza che essi si perdano. Il loro canto comporta il dolce oblio della propria esistenza, delle proprie sofferenze, ma è un oblio eccessivo, totale che porta l’uomo a dimenticare la sua condizione mortale, il bere, il mangiare e che quindi uccide.
Da tale brano inoltre trapela un tema fondamentale del personaggio di Ulisse: la doppia tensione in cui si esplica il sentimento di nostalgia(da νόστος=ritorno e άλγος=sofferenza quindi sofferenza per il ritorno). Da un lato la tensione per il ritorno a casa, motore della vicenda, dall’altro l’impulso di viaggiare, di esplorare quindi la nostalgia per l’ignoto e per la conoscenza.
Le Sirene infatti rappresentano tutto ciò che attrae lontano da casa, come la poesia, la sapienza, la fama, la gloria, il ricordo del passato(in questo caso della guerra di Troia). Egli è ardentemente attratto dal canto delle Sirene e dal sapere che gli verrebbe svelato ma è altrettanto desideroso di tornare a casa dalla moglie Penelope. Ulisse perciò si dimena tra due poli opposti che simboleggiano la condizione umana, la realtà a noi conosciuta e tangibile a noi cara e l’ignoto a cui tende la ψυχή (Odissea I v.5), cioè la forza vitale.
Analogie con Ulisse in Le Mille e una Notte
Un esempio del fascino che la multiforme figura di Ulisse ha esercitato nel tempo è offerto da un passo tratto da I viaggi di Sindibàd, un ciclo di racconti di un ignoto autore iracheno vissuto intorno al Mille, giunto a noi attraverso una delle varie redazioni de Le Mille e una notte (opera che raccoglie testi appartenenti alla narrativa di paesi dell'Oriente medievale quali l'India, la Persia, l'Egitto, l'Iraq). Sindibàd è un marinaio ormai anziano che vive agiatamente nella città di Baghdad; un giorno un facchino, anch'egli di nome Sindibàd, si siede a riposare presso la porta del palazzo del ricco marinaio, lamentandosi delle ingiustizie del mondo. Sindibàd lo sente, lo fa entrare nel palazzo e gli racconta le avventure della sua vita. Il marinaio, in sette giorni, narra sette viaggi e, alla fine, invita a cena Sindibàd-facchino e gli regala cento monete d'oro.
Paragone tra Enea e Ulisse
In Virgilio Enea è Ulisse, va alla ricerca della propria patria, erra per i mari, scende nell’oltretomba, ma per Ulisse la patria coincide con la sede della propria famiglia e degli affetti, per Enea il Lazio è la sede che il fato ha assegnato ai troiani e ai loro discendenti e anche se spera di trovarvi la quiete e gli affetti familiari, questi non sono nulla rispetto all’onus, al dovere che Enea ha verso gli ordini divini.
Inoltre in Ulisse troviamo che il desiderio di tornare in patria è forte quanto il desiderio di conoscere l’ignoto.
In Enea questo aspetto è totalmente assente, può essere traviato dalle passioni (amore per Didone), ma le passioni si configurano proprio come un traviamento dalla recta ratio.
Il solo onus che deve assolvere è quello di guidare il suo popolo e di proporgli un futuro glorioso.
Enea è il pius nel quale si concentrano pietas, labor e fatum che sono parole chiave di un personaggio portatore di valori morali e religiosi (vedi restaurazione degli antichi valori del programma augusteo).
Per la pietas egli obbedisce al destino “Italiam non sponte sequor”, reprime le passioni e gli affetti personali.
“A Zacinto” di Ugo Foscolo
Né più mai toccherò le sacre sponde 1
ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde 3
del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea quell'isole feconde 5
col suo primo sorriso, onde non tacque
le tue limpide nubi e le tue fronde 7
l’inclito verso di colui che l'acque
cantò fatali, ed il diverso esiglio, 9
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse. 11
Tu non altro che il canto avrai del figlio,
o materna mia terra; a noi prescrisse 13
il fato illacrimata sepoltura.
Nella poesia di Foscolo “a Zacinto” il poeta saluta la natia Zacinto, odierna Zante, dove non potrà più ritornare, in quanto il suo destino di esule lo condanna a morire lontano dalla patria. L'esperienza personale e il tema dell'esilio sono enunciati nell'incipit, per essere poi ripresi nella terzina finale, dando luogo ad una struttura circolare e caricandosi di significati ulteriori.
Zacinto evoca il mondo classico greco: le sue sponde sono "sacre" al cuore del poeta, perché vi è nato, ma anche per i miti e i culti che sono legati a quell'isola. Essa rappresenta un mondo di eterni valori, la fecondità e la vita, creati dal sorriso di Venere, dea della bellezza, nata dalle onde del mare greco.
Il legame Foscolo-Venere introduce il parallelo Foscolo-Omero: come il poeta greco ha eternato nei suoi versi l'isola di Zacinto, così Foscolo promette la celebrazione poetica alla sua terra. E proprio Omero ha cantato anche la bellezza di Ulisse, che l'esilio ha reso degno di eterna fama (bello di fama e di sventura). Il dolore diventa dunque un segno distintivo: l'esilio è sofferenza, ma può anche nobilitare e rendere famosi. Di qui nasce la similitudine Foscolo-Ulisse: il poeta sente di rinnovare l'esule mitico nell'intimo della propria personalità inquieta, ma il suo è un destino capovolto, in quanto diversa è la conclusione.
Nell'ultima terzina il mito lascia spazio alla dignitosa accettazione della realtà: Ulisse, dopo venti anni di peregrinazioni volute dal fato, è ritornato ad Itaca, invece il poeta - moderno Ulisse - ha il presentimento che non rivedrà più Zacinto; per lui è prescritta una sepoltura in terra lontana e quindi non confortata dalle lacrime e dal ricordo dei familiari.
Il dato autobiografico, accostato alle immagini del mito, - Venere, Omero, Ulisse, Zacinto, Itaca -, supera la dimensione individuale, per assumere un valore universale ed eterno.
Ricordo ancora alcune osservazioni che abbiamo fatto a proposito della coppia Ulisse/Foscolo.
La sintassi così tortuosa, inoltre, appare perfettamente adatta ad esprimere il travaglio dei due eroi nel loro faticoso peregrinare. Particolarmente significativi, a questo proposito, gli ultimi due versi del blocco:
per cui bello di fama e di sventura
baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.
Qui la posposizione del soggetto (alla fine di frase, anziché all’inizio) rende ancor più lunga e “faticosa” la lettura, proprio per sottolineare la il lungo e faticoso errare di Ulisse.
Pur nel suo andamento fluttuante e tribolato, questo lunghissimo periodo ha una sua compattezza strutturale: il discorso delle prime tre strofe, infatti, è perfettamente circolare: il concetto espresso nel primo verso (Foscolo non potrà toccare la sua isola) è ripreso - per contrasto - nell’ultimo (Ulisse tocca la sua isola). E qui si impone con evidenza la contrapposizione simbolica fra i due eroi.
Dopo lungo errare, Foscolo non toccherà più Zante; dopo avventure incredibili, Ulisse baciò la sua petrosa Itaca. Sono due peregrinazioni volute dal fato, ma con esito diverso: ad Ulisse gli dèi concessero il ritorno, a Foscolo lo negano. Si può leggere così il sonetto secondo un doppio codice, “classico” e “romantico”:
CODICE CLASSICO: l’eroe classico, positivo, conclude felicemente le proprie peregrinazioni;
CODICE ROMANTICO: l’eroe romantico, negativo non può concludere felicemente le proprie peregrinazioni.
“Sono due concezioni dell’eroe profondamente diverse, l’una propria dell’antichità classica, l’altra propria dell’età moderna. È un tema tipicamente romantico quello di errare senza approdo che si conclude con la morte in terre lontane e sconosciute. Questi viaggi errabondi degli eroi letterari sono la proiezione simbolica di una condizione di smarrimento, di incertezza, di mancata identificazione con un dato sistema sociale e con i suoi valori.”
Non a caso uno dei temi-chiave della poesia foscoliana è quello dell’esilio: l’eroe romantico, sentendosi sradicato, escluso da una società in cui non si riconosce, ama rappresentarsi “romanticamente” come un esule, un diverso, un incompreso. Un eroe solitario, costretto a un perenne vagabondare e destinato comunque alla malinconia e all’infelicità. Questo errare senza meta alla vana ricerca di un senso da dare alla vita, è molto simile a quello di certi eroi negativi della mia generazione: i poeti della Beat Generation che consumavano sulla strada (On the road) ansie e frustrazioni di una società ottusamente conformista.
La frustrazione per l’inevitabile sconfitta genera un bisogno di regressione, di ritorno ai miti salvifici dell’infanzia, di un rifugio illusorio dalle brutture del mondo moderno.
L’ultimo viaggio
Se l’Ulisse foscoliano ritorna, l’Ulisse di molti altri autori, invece, non ritorna. Di tutto il mito di Ulisse, infatti, particolarmente intrigante è il tema legato al suo possibile (probabile, ipotetico...) ultimo viaggio.
Questo motivo lascia in ombra la dimensione «centripeta» dell'eroe omerico, il suo desiderio del ritorno ad Itaca, il suo rimpianto di una vita stabile; e di porre invece in piena luce l'animo avventuroso, la curiosità intellettuale che porta ad imprese arrischiate, che spinge ad esplorare l'ignoto: quella, cioè, che potremmo definire la dimensione «centrifuga».
Un ulteriore viaggio dell'eroe, dopo il ritorno in patria, era già stato preannunciato dall'Odissea: nel libro XI Tiresia, l'indovino consultato da Ulisse nella sua discesa al regno dei morti, gli profetizzava infatti la necessità di ripartire da Itaca, arrivare in un paese, dove non conoscono i remi, le "ali alle navi" e i cui abitanti fossero ignari del mare: ciò significava in realtà vagare all’infinito poiché per la mentalità greca dell’epoca un mondo che non conoscesse il mare non esisteva; tuttavia lì Ulisse avrebbe piantato a terra il suo remo e fatto sacrifici a Posidone, il dio a lui ostile. Dopo quest'ultima impresa, tuttavia, nulla avrebbe più insidiato, secondo Tiresia, la quiete dell'eroe che sarebbe morto ad Itaca, al termine di una serena vecchiaia.
Tre poeti appartenenti ad epoche diverse, Dante (1265-1321), Tennyson (1809-1892) e Pascoli (1855-1912), hanno immaginato un epilogo della vita dell'eroe perciò diverso da quello prospettato nell'Odissea come già i poeti « ciclici», autori di una serie di poemi epici fioriti in Grecia probabilmente fra il secolo VII e il VI a.C. che cantarono la morte di Ulisse «per mare».
Dante, Divina Commedia XXVIcanto
Il canto XXVI della Divina Commedia è evidentemente costituito da tre ampie parti giustapposte: una parte introduttiva che anticipa, attraverso l'insistita attenzione all'emozione di Dante, il tema centrale: l'impossibilità dell'uomo di raggiungere la vera conoscenza senza l'aiuto divino; una seconda parte dedicata ai peccati «di lingua» dei fraudolenti; infine quella, molto più «epica» dove il poeta racconta dell'ultimo viaggio di Ulisse.
Dante ha costruito l'incontro con Ulisse sul fondamento di una figura retorica che domina con la sua viva presenza la prima parte del canto: quella della fiamma, del fuoco furo, cioè «ladro», perché ruba alla vista la figura dei dannati. Con la scelta di questa pena, Dante ha creato un perfetto contrappasso, adeguato alla complessità della colpa dei consiglieri fraudolenti: essi ingannarono, nascondendo dietro false intenzioni il loro vero scopo e quindi adesso sono costretti a essere nascosti per sempre da questo fuoco che li brucia dolorosamente; esso ruba l’immagine della loro forma fisica, così come nella loro vita essi furono ladri della buona fede altrui; infine, come si vede all'inizio dei racconto di Ulisse, la fiamma che li avvolge assume tutti i connotati fisici dei consiglieri fraudolenti, al punto di assomigliare a una lingua che guizzando emette suoni articolati.
I consiglieri fraudolenti erano definiti «lingue di fuoco», perché usavano la loro capacità di persuasione oratoria per ingannare le loro vittime. È quindi giusto che vengano eternamente «marchiati a fuoco», rinchiusi nell’immagine dell’organo fisico che usarono in vita per fare del male.
Un'altra grande metafora, subito dopo quella della fiamma, è rappresentata dall'immagine del mare, simbolo di una vastità incommensurabile, una massa immensa di acque sconosciute e deserte che solo un animo coraggioso può osare affrontare. la metafora è fondamentale per capire il personaggio centrale del canto, Ulisse, e insieme il senso del canto stesso. Infatti il protagonista dell'Odissea, poema dove vive tante avventure proprio sull'elemento pericoloso e affascinante del mare, è stato scelto non a caso come protagonista del canto. Ulisse è l'unico personaggio importante della Commedia che non appartenga alla storia contemporanea, e invece faccia parte del mito: la sua funzione è dunque soprattutto simbolica, e corrisponde narrativamente, con coerenza stilistica e retorica, alla metafora del mare.
Il mare, con le sue acque invitanti e infide, non solo in Dante ma in tutta la tradizione culturale del Medioevo, rappresenta la conoscenza, il sapere: attraversarlo o comunque tentare di solcarlo è quindi un tentativo coraggioso di apprendere di più, di superare i limiti del sapere precedente.
Possiamo vedere quindi come mentre nell’Odissea l’intelletto è posto al di sotto della pietas, l’Ulisse dantesco non pone alcuna restrizione morale alla sete di conoscenza, e la sua impresa è condannata in partenza al fallimento, proprio perché, in periodo teocentrista, si pone come sfida alla virtù divina. Paragonando invece il viaggio di Odisseo con quello di dantesco notiamo che entrambi sono alla ricerca della verita, ma mentre l’eroe omerico vuole conoscere la realtà attraverso il proprio ingegno, Dante ricerca attraverso la retta via, le verità sovrannaturali, cioè la ragione e la fede. Per questo Ulisse, avendo voluto conoscere senza la guida di Dio, viene condannato mantre Dante attraverso l’azione umana del credere nel Signore ha conquistato l’eterno.
La presunzione umana rappresenta un inconcepibile sovvertimento dell'ordine dell'universo, e come tale è una forma di «follia». Infatti, l'aggettivo “folle” compare al v. 125, a definire la natura insana dell'impresa dell’eroe mitico.
L'autore, dunque, sente vicina alla propria, l'esperienza di Ulisse (che può rappresentare quella dei filosofi laici che - come lo stesso Dante giovane - si lasciarono tentare da una conoscenza che fosse del tutto indipendente da Dio). Da un lato quindi Dante apprezza l’eroe per il suo ardore di conoscenza(“…vincer potevo dentro a me l’ardore/ch’io ebbi a divenir del mondo esperto/e de li vizi umani e del dolore”), per la valorizzazione della dignità umana da lui attuata(“Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver come bruti/ma per seguire virtute e conoscenza”) e per la sua dimensione eroica di stampo classico(“…non vogliate negar l’esperienza,/di retro al sol, del mondo senza gente.”), dall’altro però condanna il suo uso presuntuoso dell’ingegno(“de’ remi facemmo ali al folle volo”) il suo orgoglio sfrenato(“…misi me per l’alto mare aperto…dov’Ercule segnò li suoi riguardi,/acciò che l’uom più oltre non si metta”) e per il suo uso malizioso della parola(“Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa/orazion picciola…”)
Il protagonista del canto, quindi, ha una funzione simbolica: non rappresenta solo se stesso, ma soprattutto la categoria intellettuale dei filosofi laici, come i commentatori di Aristotele che non lo interpretarono alla luce dei dogmi cristiani.
l’Ulisse di Tennyson
Mentre Omero immagina che Ulisse, sul finire di una vita tormentata ed errabonda, viva una serena vecchiaia, il poeta inglese Tennyson ci mostra un eroe disgustato dalla vita mediocre e priva di attrattive che la sua esistenza ad Itaca e la sua funzione di re gli offrono.
L'insoddisfazione dell'eroe è tale che la stessa Itaca, oggetto della nostalgia dell'Ulisse omerico, è divenuta per l'eroe di Tennyson isola inospitale («sterili rocce») poiché chi ha viaggiato tutta la vita non può più accontentarsi di un caldo focolare e passare il resto della vita scandito da ritmi abitudinari e tranquilli quali quelli della vita familiare. Perciò l’eroe, pur essendo già avanzato negli anni, raduna i compagni di un tempo, usando la sua eloquenza per prospettare loro la nuova impresa in una luce affascinante. La meta, come anche Dante narra, è pur sempre l’ultimo occidente, la rotta per mari sconosciuti, il paese da cui non si ritorna.
Manca, rispetto all'episodio dantesco, la punizione dell'eroe: certo Ulisse prospetta ai compagni la possibilità della morte per mare («forse è destino che i gorghi del mare ci affondino»); ma
l'infrazione del limite, che in Dante portava necessariamente alla punizione, non è vista da Tennyson come eccesso di ardimento. Anzi, gli ultimi versi insistono sulla tempra eroica di Ulisse, risultando un pieno elogio della volontà di «lottare e cercare e trovare né cedere mai». Laddove Dante non poteva concepire l'esito dell'ultima avventura di Ulisse se non in termini di distruzione e di annientamento, Tennyson - che vive nell'epoca moderna, in una nazione le cui flotte solcano i mari, impegnata in un progetto di espansione che esige le doti di determinazione e tenacia indicate nella lirica - fa del suo eroe l'emblema dello spirito pionieristico, della scoperta arrischiata, non solo giustificabile, ma più che lecita, anzi esemplare.
È evidente come il clima culturale di un'epoca abbia influito sulla ripresa e sulla reinterpretazione dell’argomento mitico. Lo stesso Stanford commenta l'immagine di Ulisse fornita dai versi di Tennyson: «Un moderno Ulisse è nato, un santo patrono pagano per una nuova età di ottimismo
scientifico e di espansione coloniale».
Possiamo quindi paragonare l’opera del poeta inglese all'Odissea anch’essa infatti leggibile come l'epopea di un popolo di navigatori e di colonizzatori
Ulisse in Pascoli
...
Sirene, io sono ancora quel mortale
che v’ascoltò, ma non poté sostare.
E la corrente tacita e soave
più sempre avanti sospingea la nave.
E il vecchio vide che le due Sirene,
le ciglia alzate su le due pupille, 30
avanti sé miravano, nel sole
fisse, od in lui, nella sua nave nera.
E su la calma immobile del mare,
alta e sicura egli inalzò la voce.
Son io! Son io, che tomo per sapere! 35
Ché molto io vidi, come voi vedete
me. Sì; ma tutto ch'io guardai nel mondo,
mi riguardò; mi domandò: Chi sono?
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave. 40
E il vecchio vide un grande mucchio d'ossa
d'uomini, e pelli raggrinzate intorno,
presso le due Sirene, immobilmente
stese sul lido, simili a due scogli.
Vedo. Sia pure. Questo duro ossame 45
cresca quel mucchio. Ma, voi due, parlate!
Ma dite un vero, un solo a me, tra il tutto,
prima ch'io muoia, a ciò ch'io sia vissuto!
E la corrente rapida e soave
più sempre avanti sospingea la nave. 50
E s'ergean su la nave alte le fronti,
con gli occhi fissi, delle due Sirene.
Solo mi resta un attimo. Vi prego!
Ditemi almeno chi sono io! chi ero!
E tra i due scogli si spezzò la nave. 55
(Pascoli, Poemi conviviali, Canto XXIII)
Se l’Ulisse di Tennyson è un eroe moderno ed ottimista, l’Ulisse di Pascoli è un eroe moderno, ma pessimista.
Giovanni Pascoli dedicò al mito di Ulisse un intero poema, incluso nella raccolta Poemi conviviali (1904). Omero immagina per Ulisse, a conclusione di una vita tormentata ed errabonda, una serena vecchiaia; non così Dante e Tennyson che, come abbiamo visto, presentano un eroe o interamente dominato dal desiderio di conoscere, al punto di rinunciare al ritorno ad Itaca, o disgustato della vita mediocre e priva di attrattive che la sua isola e il suo ruolo di sovrano gli offrono, e deciso perciò a riprendere il mare.
L’ultimo viaggio di Ulisse in Giovanni Pascoli è dominato dal mistero circa il senso della vita e dalla realizzazione dolorosa dell’impotenza umana.Perciò Ulisse che è incarnazione dell’uomo moderno, tornato a Itaca dopo dieci anni di peregrinazioni e peripezie, ripensa al suo viaggio e viene assalito da una ineludibile sensazione di vuoto e da un tormentoso dubbio circa la veridicità delle sue passate avventure.
Ormai a ridosso della fine, lo angoscia sapere di morire senza prima aver capito il significato della propria esistenza. Così decide di percorrere a ritroso il viaggio del suo ritorno in modo da poter scorgere la verità che illumini la sua vita trascorsa e dare significato alla propria esistenza. Ulisse sebbene ormai vecchio e stanco decide di ricomporre il suo equipaggio e di solcare l’onda nella sua ultima avventura alla ricerca dell’essere. Giunto presso l’isola dei Ciclopi, teme, dopo aver parlato con un’abitante dell’isola di essersi immaginato tutto. Trapela così il pensiero di Pascoli secondo il quale un uomo che si affida alla ragione e che quindi reprime il fanciullino che c’è in lui vivrà sempre in un mondo di illusioni e la verità gli resterà celata. Nel ricordare le sue esperienze, gli sovvengono le parole della maga Circe secondo la quale il vero motivo dell’esistenza era la conoscenza del mondo, ma come l’uomo moderno Ulisse ormai vicino alla morte prende coscienza di quanto questa sia stata inutile e quanto non possa alleviare la sua angoscia esistenziale.
Ma Circe non esiste, la sua canzone, che l'eroe si illude di risentire, non è che lo sciacquio del mare mosso dal vento così come nella grotta di Polifemo abitava un innocuo pastore, che a stento ricordava di aver udito raccontare che da quel monte piovevano pietre in mare « ... e che appariva un occhio / nella sua cima, un tondo occhio di fuoco» (XX, vv. 40-41). Il mito si dissolve, l'avventura di Ulisse si rivela sogno, non realtà. Così si reca presso le stesse Sirene che nell’Odissea lo allettavano poiché foriere di verità, e sebbene rischi di essere da loro ammaliato e di cadere nella loro dolce trappola mortale, vuole soddisfare il bisogno esistenziale di conoscere il senso della propria vita che vale più della vita stessa.
Nel verso 25 del brano sulle Sirene, Pascoli fa riferimento al canto XII dell’Odissea in cui viene narrato l’incontro di Ulisse con le Sirene (“quel mortale/che v’ascoltò, ma non poté sostare”) la cui ripresa tematica è sottolineata da una struttura sintattica prevalentemente coordinativa, mediante l'uso del polisindeto, che riproduce il ritmo della poesia epica classica, e dall’uso nel verso 32 di un attributo di derivazione omerica, che ritorna anche in D'Annunzio, la “nave nera”(che come le Sirene da un lato è un mezzo conoscitivo dall’altro porta l’uomo all’inevitabile morte a cui è destinato)
Ma nei vv.43-44 le due Sirene appaiono ora all’eroe come statue immobili (“le due Sirene, immoblimente/... simili a due scogli”) e i vv.51-52 (“alte le fronti, / con gli occhi fissi”)la fissità dei loro occhi è ulteriore espressione della loro statuarietà e il loro atteggiamento impassibile è contrapposto all'ansia dell'eroe che le interroga.
Odisseo è animato da una forte tensione conoscitiva che non gli fornisce certezze, ma lo sollecita a porsi ulteriori interrogativi alla ricerca della propria identità come nel v38 (“Chi sono?”)e nuovamente al v.54 l'eroe implora supplichevolmente le Sirene (“Vi prego! /Ditemi almeno chi sono io! chi ero! “) perché conoscere anche una sola verità darebbe a Odisseo la consapevolezza di non essere vissuto inutilmente (“vv47-48 dite un vero... / ... vissuto!”). Ma purtroppo il solo «vero» a cui l'uomo perviene è la certezza della morte(“v55 si spezzò la nave.”)
Mentre nel mito greco le Sirene avevano le sembianze di uccelli con volto di donna Pascoli le descrive inizialmente come enigmatiche sfingi, immobili «alla punta dell'isola fiorita » verso cui la corrente «tacita e soave» spinge inesorabilmente la nave di Ulisse. La ripresa dei due versi che fungono da ritornello («E la corrente tacita e soave /più sempre avanti sospingea la nave») sottolinea in maniera assai evidente il mutamento della situazione, rispetto al racconto di Omero:
non è tanto l'eroe padrone di sé, artefice del proprio destino, a scegliere di incontrare le Sirene, ma è piuttosto una forza a lui superiore che ad esse lo trascina.
Certo Ulísse non ha perso la sua fisionomia di eroe della conoscenza: «Son io! Son io, che tomo per sapere! / Ché molto io vidi»; alla ricerca tenace dell'eroe, tuttavia, non ha corrisposto alcuna acquisizione di certezze: «ma tutto ch'io guardai nel mondo, mi riguardò; mi domandò: Chi sono?»
Davvero più moderno, questo Ulisse del Pascoli, non più segnato da quella determinazione a varcare il «limite», a conoscere terre ignote, che caratterizzava gli eroi di Dante e di Tennyson; o meglio, fornito anch’egli di uguale determinazione, ma diversamente orientata: il suo viaggio non è più volto all'esterno, alla ricerca di nuovi lidi, ma all’interno, alla scoperta dell'ambiguo confine tra sogno e realtà; mentre il «limite» non è costituito dalle mitiche Colonne d'Ercole, bensì connaturato nella condizione umana, irrevocabilmente volta alla morte.
L'unica risposta all'affannoso interrogare di un Ulisse ormai giunto oltre l'illusione, è il concretizzarsi della sola certezza che l'uomo può avere: la morte.
La sostituzione del consueto ritornello di due versi con l'unico verso «E tra i due scogli si spezzò la nave», che funge da chiusa al canto XXIII, sancisce il carattere «ultimo» del naufragio di Ulisse. L'eroe navigatore (così il Pascoli altrove lo designa) è pervenuto alla metà definitiva.
Nel canto XXIV (Calipso), l'ultimo approdo è immaginato nell'isola della dea, cui l'eroe senza vita sarà trascinato dalle onde; ma fin d'ora siamo in grado di intendere ciò che il Pascoli ha voluto intendere. Il suo Ulisse, un antieroe nell'assenza di sicurezze, nel dubbio che investe ogni momento della vita passata e presente, è in realtà anch’egli «eroe»: nel voler indagare nel mistero dell’animo umano, nell'affrontare il crollo delle illusioni, nell'accettare la realtà della morte.
Incontro di Ulisse e D’Annunzio
DANNUNZIANO
“… E in me solo credetti.
Uomo,
io non credetti ad altra virtù se non a quella inesorabile d’un cuore possente.
E a me solo fedele io fui,
al mio solo disegno.”
In questi versi e nella figura di Ulisse s’incarna l’ideale superomistico dannunziano.
Sia Ulisse che il poeta nel loro incontro si conoscono e si riconoscono come l’incarnazione del superuomo caratterizzato da uno sfrenato individualismo, da una visione aristocratica della vita.
Il superuomo al pari del “fanciullino” pascoliano e del “santo” di Fogazzaro, rappresenta la risposta alla crisi dell’intellettuale nella nascente società di massa.
La volontà di potenza del superuomo dannunziano non è altro che il rovesciamento fantastico dell’impotenza effettiva dell’intellettuale piccolo borghese in onnipotenza velleitaria.
Il superuomo dannunziano al contrario di quello nietzschiano non comporta la distruzione di tutti i valori codificati, ma l’abile manipolazione dei valori del popolo. D’Annunzio esasperò gli elementi antiborghesi ed antidemocratici, il superuomo dannunziano ha bisogno della folla che lui “disprezza” e ha bisogno di quella società piccolo borghese che lui rifiuta.
(Manifesto politico ed artistico del superuomo sono le opere “Le vergini delle rocce” e “Il fuoco”).
Il superuomo di D’Annunzio nasce dalla lettura personalissima dell’oltreuomo nietzschiano.
La nascita dell’Ubermensch nietzschiano coincide con la morte di Dio. L’Ubermensch avendo preso coscienza del fatto che tutti i valori tradizionali sono crollati è in grado di tornare ad essere “fedele alla terra”.
Poiché Dio è morto l’unica realtà è ora la vita terrena, non esiste più “un mondo dietro il mondo” in cui trovare consolazione al pensiero della morte, il superuomo è colui che dice SI alla vita, con uno spirito dionisiaco (nichilismo completo attivo).
L’Ubermensch supera timori e debolezze dell’uomo comune, sostenendo la morte di Dio e accettando l’eterno ritorno dell’uguale.
Il superuomo ha in sé una forza creatrice che gli permette di operare la trasvalutazione dei valori e di sostituire ad essi la propria volontà di potenza, liberandosi dal dogmatismo, dal conformismo e dalla passività.
Il superuomo è un essere totalmente libero:
“… il tipo riuscito al massimo grado.”
l’incarnazione della volontà di potenza che sta “Al di là del bene e del male”, che è libero dalla morale cristiana (il Cristianesimo è una indelicatezza che è stata fatta nei confronti dei pensatori).
In D'Annunzio abbiamo già parlato del mito di "superuomo", infatti molti personaggi dei suoi romanzi (Il Piacere) rappresentano la sua forte volontà, il suo spirito attivo, aristocratico superiore. Questo concetto del -superuomo- non lo prese del tutto da Nietzche (filosofo tedesco) ma, D'Annunzio, trovò in questo scrittore tedesco un maggiore chiarimento ai sentimenti di potenza, di voluttà e di bellezza che già esistevano in lui. Questo impulso di godere la vita lo troviamo nelle Laudi della vita, in cui si invitano gli uomini a godere la vita e si loda Ulisse, che rappresenta l'uomo moderno, sicuro di sè, superuomo che sfida il destino.
La crisi di valori tipica del decadentismo si manifesta in modo diverso nella poesia di D'annunzio, in cui il modello del superuomo trova piena realizzazione nella figura di Ulisse. Nel L'incontro di Ulisse, tratto da una delle Lodi, Maia il poeta racconta di aver incontrato navigando nello Ionio insieme ai suoi compagni, a nord di Itaca, Ulisse, partito per l’ultima avventura. Lo stesso poeta e i suoi compagni si sentono dei superuomini, ma l’incontro con Ulisse, "re del