SENECA - Lettere a Lucilio LIBRO IX testo latino e traduzione

L. ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM IX
LETTERE A LUCILIO DI SENECA IX

Opera integrale tradotta - testo latino e relativa traduzione

LIBER NONUS - LIBRO NONO
LXXV.

SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] Minus tibi accuratas a me epistulas mitti quereris. Quis enim accurate loquitur nisi qui vult putide loqui? Qualis sermo meus esset si una desideremus aut ambularemus, inlaboratus et facilis, tales esse epistulas meas volo, quae nihil habent accersitum nec fictum. [2] Si fieri posset, quid sentiam ostendere quam loqui mallem. Etiam si disputarem, nec supploderem pedem nec manum iactarem nec attollerem vocem, sed ista oratoribus reliquissem, contentus sensus meos ad te pertulisse, quos nec exornassem nec abiecissem. [3] Hoc unum plane tibi adprobare vellem, omnia me illa sentire quae dicerem, nec tantum sentire sed amare. Aliter homines amicam, aliter liberos osculantur; tamen in hoc quoque amplexu tam sancto et moderato satis apparet adfectus. Non mehercules ieiuna esse et arida volo quae de rebus tam magnis dicentur (neque enim philosophia ingenio renuntiat), multum tamen operae inpendi verbis non oportet. [4] Haec sit propositi nostri summa: quod sentimus loquamur, quod loquimur sentiamus; concordet sermo cum vita. Ille promissum suum implevit qui et cum videas illum et cum audias idem est. Videbimus qualis sit, quantus sit: unus est. [5] Non delectent verba nostra sed prosint. Si tamen contingere eloquentia non sollicito potest, si aut parata est aut parvo constat, adsit et res pulcherrimas prosequatur: sit talis ut res potius quam se ostendat. Aliae artes ad ingenium totae pertinent, hic animi negotium agitur. [6] Non quaerit aeger medicum eloquentem, sed si ita competit ut idem ille qui sanare potest compte de iis quae facienda sunt disserat, boni consulet. Non tamen erit quare gratuletur sibi quod inciderit in medicum etiam disertum; hoc enim tale est quale si peritus gubernator etiam formosus est. [7] Quid aures meas scabis? quid oblectas? aliud agitur: urendus, secandus, abstinendus sum. Ad haec adhibitus es; curare debes morbum veterem, gravem, publicum; tantum negotii habes quantum in pestilentia medicus. Circa verba occupatus es? iamdudum gaude si sufficis rebus. Quando tam multa disces? quando quae didiceris adfiges tibi ita ut excidere non possint? quando illa experieris?

Non enim, ut cetera, memoriae tradidisse satis est: in opere temptanda sunt; non est beatus qui scit illa, sed facit. [8] 'Quid ergo? infra illum nulli gradus sunt? statim a sapientia praeceps est?' Non, ut existimo; nam qui proficit in numero quidem stultorum est, magno tamen intervallo ab illis diducitur. Inter ipsos quoque proficientes sunt magna discrimina: in tres classes, ut quibusdam placet, dividuntur.
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1 Ti lamenti perché ti invio lettere scritte con minore ricercatezza. Ma con ricercatezza si esprime solo chi vuole essere manierato. Io voglio, invece, che le mie lettere siano quali sarebbero le mie parole se sedessimo o passeggiassimo insieme: semplici e chiare; non voglio che abbiano niente di artificioso o di falso. 2 Se fosse possibile, preferirei mostrarti più che esprimerti i miei sentimenti. Anche se discutessi, non batterei i piedi e nemmeno agiterei le mani o alzerei la voce, ma lascerei tutti questi artifici agli oratori, accontentandomi di esternarti i miei sentimenti senza fronzoli o sciatterie. 3 Un'unica cosa vorrei mostrarti chiaramente: che sento in me tutto quello che dico e non solo lo sento, ma lo amo. Gli uomini baciano l'amante in modo diverso che i figli, ma anche in questo abbraccio così puro e misurato l'affetto è abbastanza evidente. Non voglio, perbacco, che si usi un linguaggio arido e scarno per argomenti tanto importanti: la filosofia non rinunzia all'elaborazione formale;

non conviene, però sprecare fatica per le parole. 4 Il nostro principale proposito deve essere di dire quello che sentiamo e di sentire quello che diciamo; vita e parole devono essere coerenti. Mantiene il suo impegno chi è sempre lo stesso a parole e a fatti. Vedremo le sue qualità e la sua grandezza: è il medesimo. 5 Le nostre parole non devono essere piacevoli, ma utili. E tuttavia, se l'eloquenza scaturisce senza sforzo, facile o spontanea, ben venga e tratti argomenti di grande rilievo: ma evidenzi la sostanza, non se stessa. Le altre arti riguardano interamente la mente, qui è in gioco la salvezza dell'anima. 6 L'ammalato non cerca un medico eloquente, ma se gli capita un uomo che possa guarirlo e che nello stesso tempo parli forbitamente delle cure necessarie, ne sarà contento. Non c'è, tuttavia, motivo di rallegrarsi per aver incontrato un medico tanto eloquente; è come se un esperto pilota fosse anche bello. 7 Perché solletichi le mie orecchie? Perché le blandisci? Ben altro è in gioco: devo essere cauterizzato, operato, messo a dieta. Questo è il tuo compito: devi curare una malattia di vecchia data, grave, diffusa; hai da fare quanto un medico in una epidemia. Ti preoccupi delle parole? Rallegrati se riesci a fare quello che devi. Quando imparerai tante cose? Quando fisserai le nozioni che hai appreso in modo da non dimenticarle più? Quando le metterai in pratica? Non basta, come le altre, ricordarle a memoria: bisogna sperimentarle in concreto; non è felice chi le conosce, ma chi le applica. 8 "Ma come? Al di sotto del saggio non ci sono altri stadi? Subito dopo la saggezza c'è l'abisso?" Credo di no; chi sta progredendo è ancora nel numero degli stolti, ma c'è già un notevole distacco. E anche tra quegli stessi che stanno progredendo ci sono grandi differenze: certi li dividono in tre gruppi.


[9] Primi sunt qui sapientiam nondum habent sed iam in vicinia eius constiterunt; tamen etiam quod prope est extra est. Qui sint hi quaeris? qui omnes iam adfectus ac vitia posuerunt, quae erant conplectenda didicerunt, sed illis adhuc inexperta fiducia est. Bonum suum nondum in usu habent, iam tamen in illa quae fugerunt decidere non possunt; iam ibi sunt unde non est retro lapsus, sed hoc illis de se nondum liquet: quod in quadam epistula scripsisse me memini, 'scire se nesciunt'. Iam contigit illis bono suo frui, nondum confidere. [10] Quidam hoc proficientium genus de quo locutus sum ita conplectuntur ut illos dicant iam effugisse morbos animi, adfectus nondum, et adhuc in lubrico stare, quia nemo sit extra periculum malitiae nisi qui totam eam excussit; nemo autem illam excussit nisi qui pro illa sapientiam adsumpsit. [11] Quid inter morbos animi intersit et adfectus saepe iam dixi. Nunc quoque te admonebo: morbi sunt inveterata vitia et dura, ut avaritia, ut ambitio; nimio artius haec animum inplicuerunt et perpetua eius mala esse coeperunt. Ut breviter finiam, morbus est iudicium in pravo pertinax, tamquam valde expetenda sint quae leviter expetenda sunt; vel, si mavis, ita finiamus: nimis inminere leviter petendis vel ex toto non petendis, aut in magno pretio habere in aliquo habenda vel in nullo. [12] Adfectus sunt motus animi inprobabiles, subiti et concitati, qui frequentes neglectique fecere morbum, sicut destillatio una nec adhuc in morem adducta tussim facit, adsidua et vetus pthisin. Itaque qui plurimum profecere extra morbos sunt, adfectus adhuc sentiunt perfecto proximi. [13] Secundum genus est eorum qui et maxima animi mala et adfectus deposuerunt, sed ita ut non sit illis securitatis suae certa possessio; possunt enim in eadem relabi.


Primo: quelli che non possiedono ancora la saggezza, ma le sono ormai arrivati vicino; nondimeno anche ciò che è vicino è fuori. Chi sono? Quegli uomini che si sono liberati da tutte le passioni e i vizi e hanno imparato i concetti necessari, ma non hanno messo alla prova il loro impegno. Non hanno ancora dimestichezza col bene che hanno raggiunto e tuttavia non possono più cadere negli errori da cui sono fuggiti; sono ormai arrivati a un punto da dove non possono cadere all'indietro, ma questo non lo hanno ancora chiaro: ricordo di averlo scritto in una lettera: "Non sanno di sapere. " Usufruiscono del loro bene, ma non ne sono ancora sicuri. 10 Alcuni comprendono in questa classe di neofiti, di cui si è detto, quegli uomini che sono ormai sfuggiti alle malattie dell'anima, ma non alle passioni, e stanno ancora su un terreno malcerto, perché solo chi si è scrollato di dosso la malvagità non corre più nessun pericolo; ma se l'è scrollata di dosso solo chi in cambio ha conquistato la saggezza. 11 Ho già parlato spesso della differenza tra passioni e malattie dello spirito. Ma voglio ricordartela anche adesso: malattie sono i vizi radicati e tenaci come l'avarizia o l'ambizione; hanno avviluppato strettamente l'anima e sono diventati mali permanenti. Per farla breve: malattia è il pervicace proposito al male, come ricercare con accanimento beni trascurabili; o, se preferisci, concludiamo così: aspirare troppo a beni che vanno ricercati con moderazione o tralasciati del tutto, oppure apprezzare molto beni di scarso o di nessun valore. 12 Le passioni, invece, sono i moti dell'anima riprovevoli, improvvisi e violenti, che, ripetuti e trascurati, provocano la malattia; facciamo un esempio: il catarro, quando è un'affezione momentanea ed episodica, porta la tosse, ma se è cronico e di vecchia data fa venire la tisi. Perciò chi ha fatto molti progressi è ormai fuori dal pericolo di malattie, ma nonostante sia vicino alla perfezione avverte ancora le passioni. 13 Al secondo gruppo appartengono quegli uomini che si sono liberati dai mali peggiori dell'anima e dalle passioni, ma non al punto da essere sicuri della conquistata serenità: possono, difatti, ripiombare nei medesimi vizi.


[14] Tertium illud genus extra multa et magna vitia est, sed non extra omnia. Effugit avaritiam sed iram adhuc sentit; iam non sollicitatur libidine, etiamnunc ambitione; iam non concupiscit, sed adhuc timet, et in ipso metu ad quaedam satis firmus est, quibusdam cedit: mortem contemnit, dolorem reformidat. [15] De hoc loco aliquid cogitemus: bene nobiscum agetur, si in hunc admittimur numerum. Magna felicitate naturae magnaque et adsidua intentione studii secundus occupatur gradus; sed ne hic quidem contemnendus est color tertius. Cogita quantum circa te videas malorum; aspice quam nullum sit nefas sine exemplo, quantum cotidie nequitia proficiat, quantum publice privatimque peccetur: intelleges satis nos consequi, si inter pessimos non sumus. [16] 'Ego verò inquis 'spero me posse et amplioris ordinis fieri. ' Optaverim hoc nobis magis quam promiserim: praeoccupati sumus, ad virtutem contendimus inter vitia districti. Pudet dicere: honesta colimus quantum vacat. At quam grande praemium expectat, si occupationes nostras et mala tenacissima abrumpimus! [17] Non cupiditas nos, non timor pellet; inagitati terroribus, incorrupti voluptatibus, nec mortem horrebimus nec deos; sciemus mortem malum non esse, deos malo non esse. Tam inbecillum est quod nocet quam cui nocetur: optima vi noxia carent. [18] Expectant nos, ex hac aliquando faece in illud evadimus sublime et excelsum, tranquillitas animi et expulsis erroribus absoluta libertas. Quaeris quae sit ista? Non homines timere, non deos; nec turpia velle nec nimia; in se ipsum habere maximam potestatem: inaestimabile bonum est suum fieri. Vale.


14 Il terzo gruppo si è liberato di molti gravi vizi, ma non di tutti. È sfuggito all'avarizia, ma è ancora soggetto all'ira; non è più preda della lussuria, ma lo è ancora dell'ambizione; non ha desideri sfrenati, ma ha ancora molte paure, e nella paura di fronte a certe evenienze è abbastanza fermo, di fronte ad altre cede: disprezza la morte, teme il dolore. 15 Facciamo qualche riflessione su questo punto: ci va già bene se apparteniamo all'ultimo gruppo. Il secondo possiamo raggiungerlo, se abbiamo una buona predisposizione naturale e attraverso un'assidua e grande applicazione allo studio; ma non dobbiamo disprezzare nemmeno il terzo gruppo. Pensa a quanti mali vedi intorno a te; guarda quanti esempi di ogni delitto, quanto si diffonda giorno dopo giorno la malvagità, quali colpe si commettano nella sfera pubblica e privata: capirai che è già un buon risultato se non siamo tra i peggiori. 16 "Ma io spero, " mi dici, "di poter far parte anche del gruppo superiore. " Più che prometterlo, io lo desidererei: siamo assaliti da ogni parte, aspiriamo alla virtù assediati dai vizi. Mi vergogno a dirlo: curiamo la virtù nei ritagli di tempo. Ma che grande premio ci aspetta se riusciamo a farla finita con le nostre occupazioni e con i mali più incalliti. 17 Non ci colpiranno cupidigia e terrore; senza i turbamenti della paura e la corruzione dei piaceri non avremo più timore della morte e neppure degli dèi; ci renderemo conto che la morte non è un male e che gli dèi non ci fanno del male. Quello che nuoce è debole quanto colui a cui nuoce: gli esseri migliori non hanno forza nociva. 18 Se un giorno riusciremo ad arrivare da questa feccia in quel mondo sublime ed eccelso, ci aspettano la serenità e, dissipati tutti gli inganni, una libertà incondizionata. Cos'è questa libertà? Non temere gli uomini e nemmeno gli dèi: non concepire desideri turpi o sfrenati, avere un grandissimo dominio di se stessi; appartenersi è un bene inestimabile. Stammi bene.


LXXVI. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

[1] Inimicitias mihi denuntias si quicquam ex iis quae cotidie facio ignoraveris. Vide quam simpliciter tecum vivam: hoc quoque tibi committam. Philosophum audio et quidem quintum iam diem habeo ex quo in scholam eo et ab octava disputantem audio. 'Bona' inquis 'aetate. ' Quidni bona? quid autem stultius est quam quia diu non didiceris non discere? [2] 'Quid ergo? idem faciam quod trossuli et iuvenes?' Bene mecum agitur si hoc unum senectutem meam dedecet: omnis aetatis homines haec schola admittit. 'In hoc senescamus, ut iuvenes sequamur?' In theatrum senex ibo et in circum deferar et nullum par sine me depugnabit: ad philosophum ire erubescam? [3] Tamdiu discendum est quamdiu nescias; si proverbio credimus, quamdiu vivas. Nec ulli hoc rei magis convenit quam huic: tamdiu discendum est quemadmodum vivas quamdiu vivas. Ego tamen illic aliquid et doceo. Quaeris quid doceam? etiam seni esse discendum. [4] Pudet autem me generis humani quotiens scholam intravi. Praeter ipsum theatrum Neapolitanorum, ut scis, transeundum est Metronactis petenti domum. Illud quidem fartum est, et ingenti studio quis sit pythaules bonus iudicatur; habet tubicen quoque Graecus et praeco concursum: at in illo loco in quo vir bonus quaeritur, in quo vir bonus discitur, paucissimi sedent, et hi plerisque videntur nihil boni negotii habere quod agant; inepti et inertes vocantur. Mihi contingat iste derisus: aequo animo audienda sunt inperitorum convicia et ad honesta vadenti contemnendus est ipse contemptus


76 1 Minacci di non essermi più amico, se non ti informerò di tutto quello che faccio giornalmente. Guarda come sono schietto con te: ti confiderò anche questo. Vado a sentire un filosofo; già da cinque giorni frequento la sua scuola e lo ascolto parlare alle due del pomeriggio. "È proprio l'età giusta!" osservi. E perché non dovrebbe essere quella giusta? È da stupidi non voler imparare solo perché per tanto tempo non lo si è fatto. 2 "E allora? Dovrei fare come i bellimbusti e i giovanotti?" Mi va bene se è l'unica cosa sconveniente alla mia vecchiaia: questo tipo di scuola ammette uomini di ogni età. "E noi invecchiamo per seguire i giovani?" Sono vecchio, eppure andrò a teatro, al circo, assisterò a tutti gli spettacoli di gladiatori e dovrei arrossire perché vado a scuola da un filosofo? 3 Devi imparare finché non sai; anzi, a credere al proverbio, finché vivi. Il che torna perfettamente con quanto segue: finché hai vita devi imparare a vivere. Tuttavia anch'io insegno qualcosa lì. Che cosa? Che anche un vecchio deve imparare. 4 Ogni volta che entro a scuola mi vergogno del genere umano. Per andare a casa di Metronatte si deve, come sai, oltrepassare il teatro dei Napoletani. È strapieno e vi si giudica con grande attenzione chi sia un buon flautista; anche il trombettiere greco e l'araldo richiamano molta gente: ma in quella scuola dove si ricerca l'uomo virtuoso e si impara a diventare virtuosi, ci sono pochissime persone, e i più ritengono che costoro non hanno niente di buono da fare; li definiscono inetti e fannulloni. Tocchi anche a me questo scherno: gli insulti degli ignoranti bisogna ascoltarli senza scomporsi e se uno aspira alla virtù deve disprezzare il disprezzo stesso.


. [5] Perge, Lucili, et propera, ne tibi accidat quod mihi, ut senex discas; immo ideo magis propera quoniam id nunc adgressus es quod perdiscere vix senex possis. 'Quantum' inquis 'proficiam?' Quantum temptaveris. [6] Quid expectas? nulli sapere casu obtigit. Pecunia veniet ultro, honor offeretur, gratia ac dignitas fortasse ingerentur tibi: virtus in te non incidet. Ne levi quidem opera aut parvo labore cognoscitur; sed est tanti laborare omnia bona semel occupaturo. Unum est enim bonum quod honestum: in illis nihil invenies veri, nihil certi, quaecumque famae placent. [7] Quare autem unum sit bonum quod honestum dicam, quoniam parum me exsecutum priore epistula iudicas magisque hanc rem tibi laudatam quam probatam putas, et in artum quae dicta sunt contraham. [8] Omnia suo bono constant. Vitem fertilitas commendat et sapor vini, velocitas cervum; quam fortia dorso iumenta sint quaeris, quorum hic unus est usus, sarcinam ferre; in cane sagacitas prima est, si investigare debet feras, cursus, si consequi, audacia, si mordere et invadere: id in quoque optimum esse debet cui nascitur, quo censetur. [9] In homine quid est optimum? ratio: hac antecedit animalia, deos sequitur. Ratio ergo perfecta proprium bonum est, cetera illi cum animalibus satisque communia sunt. Valet: et leones. Formonsus est: et pavones. Velox est: et equi. Non dico, in his omnibus vincitur; non quaero quid in se maximum habeat, sed quid suum. Corpus habet: et arbores. Habet impetum ac motum voluntarium: et bestiae et vermes. Habet vocem: sed quanto clariorem canes, acutiorem aquilae, graviorem tauri, dulciorem mobilioremque luscinii? [10] Quid est in homine proprium? ratio: haec recta et consummata felicitatem hominis implevit. Ergo si omnis res, cum bonum suum perfecit, laudabilis est et ad finem naturae suae pervenit, homini autem suum bonum ratio est, si hanc perfecit laudabilis est et finem naturae suae tetigit. Haec ratio perfecta virtus vocatur eademque honestum est. [11] Id itaque unum bonum est in homine quod unum hominis est; nunc enim non quaerimus quid sit bonum, sed quid sit hominis bonum. Si nullum aliud est hominis quam ratio, haec erit unum eius bonum, sed pensandum cum omnibus. Si sit aliquis malus, puto inprobabitur; si bonus, puto probabitur. Id ergo in homine primum solumque est quo et probatur et inprobatur.


5 Vai avanti, Lucilio, e affrettati, perché non ti accada come a me, di imparare da vecchio; anzi affrettati ancora di più perché hai intrapreso studi che potresti a stento concludere da vecchio. "Quanti progressi farò?" mi chiedi. Proporzionati ai tuoi sforzi. 6 Che aspetti? A nessuno capita di diventare saggio per caso. Il denaro arriverà spontaneamente; una carica sarà offerta, favori e crediti ti verranno forse messi davanti: ma la virtù non può capitarti per caso. E neppure la si può apprendere con poca fatica o scarso impegno; ma vale la pena darsi da fare per conquistare tutti i beni in una sola volta. L'unico bene è l'onestà: negli altri apprezzati dalla massa non troverai niente di vero, niente di sicuro. 7 Secondo te, nella mia lettera precedente non ho trattato il problema esaurientemente e ho dedicato più spazio alle lodi che alla dimostrazione; ti ripeterò allora in breve perché sostengo che la virtù sia l'unico bene.
8 Ogni cosa vale per il bene che ha in sé: la fertilità e il sapore del vino dà pregio alla vite, la velocità al cervo; dei cavalli da tiro, che sono utilizzati solo per il trasporto di carichi, si chiede se hanno la schiena forte; la principale qualità di un cane è il fiuto, se deve scovare le fiere, la velocità se deve inseguirle, il coraggio, se deve assalirle e azzannarle; ognuno deve raggiungere la perfezione in quello per cui nasce, per cui viene valutato. 9 E nell'uomo qual è la caratteristica migliore? La ragione: grazie a essa è superiore agli animali e di poco inferiore agli dèi. Quindi la ragione perfetta è un suo bene peculiare; le altre qualità le ha in comune con gli animali e le piante. È forte: lo è anche il leone. È bello: anche il pavone. È veloce: anche il cavallo. Senza dire che in tutte queste qualità è superato; io non cerco la sua qualità migliore, ma quella sua propria. Ha un corpo: anche gli alberi. Ha slanci e movimenti volontari: li hanno anche le bestie, anche i vermi. Ha la voce: ma i cani ce l'hanno tanto più forte, le aquile più acuta, i tori più profonda, gli usignoli più dolce e agile. 10 Qual è la qualità peculiare dell'uomo? La ragione: se questa è onesta e perfetta, dà all'uomo una felicità completa. Quindi se ogni cosa, quando ha portato a perfezione il suo bene, è lodevole e raggiunge il suo fine naturale, e il bene proprio dell'uomo è la ragione, se egli lo ha portato a perfezione, è lodevole e ha toccato il suo fine naturale. La ragione perfetta si chiama virtù e coincide con l'onestà. 11 Pertanto è l'unico bene nell'uomo, poiché è l'unico bene proprio dell'uomo: noi non stiamo cercando che cosa sia il bene, ma quale sia il bene proprio dell'uomo. Se esso consiste solo nella ragione, questa sarà l'unico suo bene, ma va confrontato con tutti gli altri. Se uno è malvagio, verrà, a mio parere, giudicato negativamente; se è buono, positivamente. Quindi, nell'uomo, primo e solo bene è quello per cui egli riceve approvazione e disapprovazione.


[12] Non dubitas an hoc sit bonum; dubitas an solum bonum sit. Si quis omnia alia habeat, valetudinem, divitias, imagines multas, frequens atrium, sed malus ex confesso sit, inprobabis illum; item si quis nihil quidem eorum quae rettuli habeat, deficiatur pecunia, clientium turba, nobilitate et avorum proavorumque serie, sed ex confesso bonus sit, probabis illum. Ergo hoc unum est bonum hominis, quod qui habet, etiam si aliis destituitur, laudandus est, quod qui non habet in omnium aliorum copia damnatur ac reicitur. [13] Quae condicio rerum, eadem hominum est: navis bona dicitur non quae pretiosis coloribus picta est nec cui argenteum aut aureum rostrum est nec cuius tutela ebore caelata est nec quae fiscis atque opibus regiis pressa est, sed stabilis et firma et iuncturis aquam excludentibus spissa, ad ferendum incursum maris solida, gubernaculo parens, velox et non sentiens ventum; [14] gladium bonum dices non cui auratus est balteus nec cuius vagina gemmis distinguitur, sed cui et ad secandum subtilis acies est et mucro munimentum omne rupturus; regula non quam formosa, sed quam recta sit quaeritur: eo quidque laudatur cui comparatur, quod illi proprium est. [15] Ergo in homine quoque nihil ad rem pertinet quantum aret, quantum feneret, a quam multis salutetur, quam pretioso incumbat lecto, quam perlucido poculo bibat, sed quam bonus sit. Bonus autem est si ratio eius explicita et recta est et ad naturae suae voluntatem accommodata. [16] Haec vocatur virtus, hoc est honestum et unicum hominis bonum. Nam cum sola ratio perficiat hominem, sola ratio perfecte beatum facit; hoc autem unum bonum est quo uno beatus efficitur. Dicimus et illa bona esse quae a virtute profecta contractaque sunt, id est opera eius omnia; sed ideo unum ipsa bonum est quia nullum sine illa est. [17] Si omne in animo bonum est, quidquid illum confirmat, extollit, amplificat, bonum est; validiorem autem animum et excelsiorem et ampliorem facit virtus. Nam cetera quae cupiditates nostras inritant deprimunt quoque animum et labefaciunt et cum videntur attollere inflant ac multa vanitate deludunt. Ergo id unum bonum est quo melior animus efficitur. [18] Omnes actiones totius vitae honesti ac turpis respectu temperantur; ad haec faciendi et non faciendi ratio derigitur. Quid sit hoc dicam: vir bonus quod honeste se facturum putaverit faciet etiam [sine pecunia] si laboriosum erit, faciet etiam si damnosum erit, faciet etiam si periculosum erit; rursus quod turpe erit non faciet, etiam si pecuniam adferet, etiam si voluptatem, etiam si potentiam; ab honesto nulla re deterrebitur, ad turpia nulla invitabitur. [19] Ergo si honestum utique secuturus est, turpe utique vitaturus, et in omni actu vitae spectaturus haec duo, nec aliud malum quam turpe, si una indepravata virtus est et sola permanet tenoris sui, unum est bonum virtus, cui iam accidere ne sit bonum non potest. Mutationis periculum effugit: stultitia ad sapientiam erepit, sapientia in stultitiam non revolvitur.


12 Tu non dubiti che questo sia un bene, dubiti che sia il solo bene. Se uno ha tutti gli altri beni, salute, ricchezza, antenati famosi, una massa di clienti, ma è chiaramente un malvagio, lo disprezzerai; così se uno non ha alcuno dei beni suddetti, è privo di denaro, di clienti, di nobiltà e di una sfilza di avi e bisavoli, ma è palesemente virtuoso, lo apprezzerai. Quindi è questo l'unico bene dell'uomo: chi lo possiede, anche se gli mancano gli altri beni, merita apprezzamento; chi non lo possiede, è disapprovato e disprezzato, benché di tutti gli altri beni ne abbia in abbondanza. 13 Identica la condizione dell'uomo e quella delle cose: non si definisce buona la nave dipinta con colori preziosi o quella col rostro d'oro o d'argento o che ha il dio protettore scolpito in avorio o che è carica di tesori o ricchezze degne di un re, ma quella stabile e sicura, compatta in modo che non entri acqua, solida e resistente alla furia del mare, docile al timone, veloce e non soggetta alla violenza del vento; 14 non definirai buona una spada se ha il cinturino d'oro o il fodero tempestato di gemme, ma se ha la lama dal taglio affilato e una punta in grado di trapassare ogni difesa; non si richiede che una riga sia bella, ma che sia perfettamente diritta: ogni oggetto è apprezzato in virtù dell'uso per cui è fatto e che gli è proprio. 15 Dunque, anche in un uomo non importa quanta terra abbia, quanto frutto ricavi dai suoi capitali, quanta gente gli renda omaggio, se dorme in un letto prezioso, se beve in una coppa scintillante, ma la sua onestà. Ed è onesto se la sua ragione è libera, giusta e realizzata in armonia con l'inclinazione della sua natura. 16 Questa si chiama virtù, questa è l'onestà ed è l'unico bene dell'uomo. Solo la ragione può rendere perfetto l'uomo, solo la ragione, quindi, può renderlo perfettamente felice e questo è l'unico bene che da solo rende felici. Noi definiamo beni anche quelli che scaturiscono e nascono dalla virtù, cioè tutte le sue opere; perciò la virtù è l'unico bene, poiché non esiste bene senza di lei. 17 Se ogni bene risiede nell'anima, tutto ciò che la rafforza, la innalza, l'accresce, è un bene; ma è la virtù a rendere più forte, più eccelsa, più grande l'anima. Gli altri beni che accendono i nostri desideri, avviliscono l'anima, la abbattono e apparentemente la elevano, in realtà la gonfiano e la ingannano con false apparenze. Quindi l'unico bene è quello che rende migliore l'anima. 18 Ogni azione dell'intera nostra esistenza è regolata dalla considerazione del bene e del male; su di essi si basa la norma dell'agire e del non agire. Ecco qual è: l'uomo virtuoso farà quello che ritiene onesto anche se gli costerà fatica, anche se lo danneggerà o sarà rischioso; non compirà, invece, un'azione indegna, anche se gli procurerà denaro o piacere o potenza: niente lo distoglierà dal bene, niente lo indurrà al male. 19 Quindi, se perseguirà sempre l'onestà, eviterà sempre la disonestà e in ogni azione della sua vita terrà presente questi due principI, non c'è altro bene che l'onestà, non c'è altro male che la disonestà; se solo la virtù è incorrotta e sola rimane sempre uguale a se stessa, la virtù è l'unico bene e non può succedere che non sia un bene. Non corre il pericolo di cambiare: lo stolto può salire con fatica alla saggezza, il saggio non può ripiombare nella stoltezza.


[20] Dixi, si forte meministi, et concupita vulgo et formidata inconsulto impetu plerosque calcasse: inventus est qui divitias proiceret, inventus est qui flammis manum inponeret, cuius risum non interrumperet tortor, qui in funere liberorum lacrimam non mitteret, qui morti non trepidus occurreret; amor enim, ira, cupiditas pericula depoposcerunt. Quod potest brevis obstinatio animi, aliquo stimulo excitata, quanto magis virtus, quae non ex impetu nec subito sed aequaliter valet, cui perpetuum robur est? [21] Sequitur ut quae ab inconsultis saepe contemnuntur, a sapientibus semper, ea nec bona sint nec mala. Unum ergo bonum ipsa virtus est, quae inter hanc fortunam et illam superba incedit cum magno utriusque contemptu.
[22] Si hanc opinionem receperis, aliquid bonum esse praeter honestum, nulla non virtus laborabit; nulla enim obtineri poterit si quicquam extra se respexerit. Quod si est, rationi repugnat, ex qua virtutes sunt, et veritati, quae sine ratione non est; quaecumque autem opinio veritati repugnat falsa est. [23] Virum bonum concedas necesse est summae pietatis erga deos esse. Itaque quidquid illi accidit aequo animo sustinebit; sciet enim id accidisse lege divina qua universa procedunt. Quod si est, unum illi bonum erit quod honestum; in hoc enim positum et parere diis nec excandescere ad subita nec deplorare sortem suam, sed patienter excipere fatum et facere imperata. [24] Si ullum aliud est bonum quam honestum, sequetur nos aviditas vitae, aviditas rerum vitam instruentium, quod est intolerabile, infinitum, vagum. Solum ergo bonum est honestum, cui modus est.
[25] Diximus futuram hominum feliciorem vitam quam deorum, si ea bona sunt quorum nullus diis usus est, tamquam pecunia, honores. Adice nunc quod, si modo solutae corporibus animae manent, felicior illis status restat quam est dum versantur in corpore. Atqui si ista bona sunt quibus per corpora utimur, emissis erit peius, quod contra fidem est, feliciores esse liberis et in universum datis clusas et obsessas.
[26] Illud quoque dixeram, si bona sunt ea quae tam homini contingunt quam mutis animalibus, et muta animalia beatam vitam actura; quod fieri nullo modo potest. Omnia pro honesto patienda sunt; quod non erat faciendum si esset ullum aliud bonum quam honestum. Haec quamvis latius exsecutus essem priore epistula, constrinxi et breviter percucurri.

20 Ho già detto, se te ne ricordi, che molti obbedendo a uno slancio inconsulto si sono messi sotto i piedi tutto quello che la massa desidera o teme: abbiamo trovato uomini che hanno rinunciato alla ricchezza, che hanno messo la mano nel fuoco, che hanno continuato a sorridere anche sotto tortura, che non hanno versato una sola lacrima al funerale dei figli, che hanno affrontato coraggiosamente la morte; amore, ira, ambizione li hanno portati a sfidare i pericoli. Se arriva a tanto una momentanea risolutezza, prodotta da un qualche stimolo, quanto più potrà compiere la virtù: la sua forza non dipende da un impulso improvviso, ma è sempre uguale a se stessa e duratura. 21 Ne consegue che quanto viene disprezzato spesso da gente temeraria e sempre dai saggi, non è né bene, né male. La virtù è, quindi, l'unico bene e avanza superba tra la buona e la cattiva sorte, disprezzandole entrambe. 22 Se, invece, ti convincerai che c'è qualche altro bene oltre l'onestà, vacilleranno tutte le virtù; non potrà mantenersene nessuna, se prenderà in considerazione altro fuori di sé. Se è così, questa affermazione contrasta con la ragione da cui scaturiscono le virtù, e con la verità, che non esiste senza la ragione; ma qualunque opinione sia in contrasto con la verità, è falsa. 23 Devi ammettere che un uomo virtuoso ha una grandissima venerazione per gli dèi. Sopporterà perciò con animo sereno tutto quello che gli accade; sa che è accaduto per la legge divina che muove l'universo. Se è così, per lui l'unico bene sarà l'onestà; essa comprende l'obbedienza agli dèi, non adirarsi per gli imprevisti, non deplorare la propria sorte, ma accogliere con rassegnazione il destino e fare quello che comanda. 24 Se c'è qualche altro bene oltre all'onestà, ci perseguiterà la bramosia di vivere, la bramosia dei beni che corredano la vita, tutti desideri insopportabili, senza limiti e incerti. Il solo bene è dunque l'onestà che ha una misura. 25 Come ho già detto, la vita degli uomini sarebbe più felice di quella degli dèi, se fossero veri beni quelli di cui gli dèi non godono, come il denaro, gli onori. Aggiungi ora che, se pure le anime sopravvivono alla morte del corpo, le aspetta una condizione più felice di quando si trovano nel corpo. Se, però, sono beni veri quelli di cui godiamo per mezzo del corpo, una volta persi, la condizione dell'anima sarebbe peggiore; ma è impossibile credere che le anime chiuse e oppresse nei corpi siano più felici che libere e proiettate nell'universo. 26 Avevo anche detto che se sono veri beni quelli che toccano tanto agli uomini quanto agli animali, anche gli animali vivrebbero una vita felice; e questo non è assolutamente possibile. Per la virtù bisogna sopportare tutto, ma ciò non sarebbe necessario se ci fosse qualche altro bene oltre la virtù. Ho riassunto ed esposto in breve questi concetti sebbene li abbia trattati più ampiamente in precedenza

[27] Numquam autem vera tibi opinio talis videbitur, nisi animum adleves et te ipse interroges, si res exegerit ut pro patria moriaris et salutem omnium civium tua redimas, an porrecturus sis cervicem non tantum patienter sed etiam libenter. Si hoc facturus es, nullum aliud bonum est; omnia enim relinquis ut hoc habeas. Vide quanta vis honesti sit: pro re publica morieris, etiam si statim facturus hoc eris cum scieris tibi esse faciendum. [28] Interdum ex re pulcherrima magnum gaudium etiam exiguo tempore ac brevi capitur, et quamvis fructus operis peracti nullus ad defunctum exemptumque rebus humanis pertineat, ipsa tamen contemplatio futuri operis iuvat, et vir fortis ac iustus, cum mortis suae pretia ante se posuit, libertatem patriae, salutem omnium pro quibus dependit animam, in summa voluptate est et periculo suo fruitur. [29] Sed ille quoque cui etiam hoc gaudium eripitur quod tractatio operis maximi et ultimi praestat, nihil cunctatus desiliet in mortem, facere recte pieque contentus. Oppone etiamnunc illi multa quae dehortentur, dic, 'factum tuum matura sequetur oblivio et parum grata existimatio civium'. Respondebit tibi, 'ista omnia extra opus meum sunt, ego ipsum contemplor; hoc esse honestum scio; itaque quocumque ducit ac vocat venio'.


27 Ma tu non potrai mai condividere un'opinione come questa, se non elevi il tuo spirito e non ti domandi se saresti pronto a offrire non solo con rassegnazione, ma anche volentieri, la testa, nel caso che le circostanze richiedano di morire per la patria e di pagare con la vita la salvezza di tutti i cittadini. Se la risposta è sì, non esiste nessun altro bene, perché tu rinunci a tutto per ottenerlo. Guarda quanta forza ha la virtù: morirai per la patria, anche se dovrai farlo subito, non appena ti renderai conto che è tuo dovere. 28 A volte da una nobilissima azione deriva una gioia grande anche se breve; per quanto il frutto dell'impresa non tocchi a chi muore e sia strappato alla vita, tuttavia, fa piacere pensare all'azione che si compirà, e l'uomo forte e giusto, se considera il prezzo del suo sacrificio, cioè la libertà della patria e la salvezza di tutti quegli uomini per i quali si immola, prova una straordinaria gioia e gode del pericolo che affronta. 29 Ma anche l'uomo che è privato della gioia data da quel supremo nobilissimo gesto, correrà senza esitare verso la morte, contento di agire secondo giustizia e dovere. Opponigli ancora altri argomenti per dissuaderlo; digli: "Al tuo gesto seguirà un immediato oblio e l'ingratitudine dei cittadini". Ti risponderà: "Tutto questo non riguarda la mia impresa, la considero per se stessa; sono convinto che sia onesta e perciò vado dovunque mi conduca e mi chiami".


[30] Hoc ergo unum bonum est, quod non tantum perfectus animus sed generosus quoque et indolis bonae sentit: cetera levia sunt, mutabilia. Itaque sollicite possidentur; etiam si favente fortuna in unum congesta sunt, dominis suis incubant gravia et illos semper premunt, aliquando et inludunt. [31] Nemo ex istis quos purpuratos vides felix est, non magis quam ex illis quibus sceptrum et chlamydem in scaena fabulae adsignant: cum praesente populo lati incesserunt et coturnati, simul exierunt, excalceantur et ad staturam suam redeunt. Nemo istorum quos divitiae honoresque in altiore fastigio ponunt magnus est. Quare ergo magnus videtur? cum basi illum sua metiris. Non est magnus pumilio licet in monte constiterit; colossus magnitudinem suam servabit etiam si steterit in puteo. [32] Hoc laboramus errore, sic nobis inponitur, quod neminem aestimamus eo quod est, sed adicimus illi et ea quibus adornatus est. Atqui cum voles veram hominis aestimationem inire et scire qualis sit, nudum inspice; ponat patrimonium, ponat honores et alia fortunae mendacia, corpus ipsum exuat: animum intuere, qualis quantusque sit, alieno an suo magnus. [33] Si rectis oculis gladios micantes videt et si scit sua nihil interesse utrum anima per os an per iugulum exeat, beatum voca; si cum illi denuntiata sunt corporis tormenta et quae casu veniunt et quae potentioris iniuria, si vincula et exilia et vanas humanarum formidines mentium securus audit et dicit:
'non ulla laborum, o virgo, nova mi facies inopinave surgit; omnia praecepi atque animo mecum ipse peregi. Tu hodie ista denuntias: ego semper denuntiavi mihi et hominem paravi ad humana. ' [34] Praecogitati mali mollis ictus venit. At stultis et fortunae credentibus omnis videtur nova rerum et inopinata facies; magna autem pars est apud inperitos mali novitas. Hoc ut scias, ea quae putaverant aspera fortius, cum adsuevere, patiuntur. [35] Ideo sapiens adsuescit futuris malis, et quae alii diu patiendo levia faciunt hic levia facit diu cogitando. Audimus aliquando voces inperitorum dicentium 'sciebam hoc mihi restare': sapiens scit sibi omnia restare; quidquid factum est, dicit 'sciebam'. Vale.


LXXVII. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

30 Questo, dunque, è l'unico bene e lo avverte non soltanto l'animo perfetto, ma anche l'animo generoso e di indole buona: gli altri beni sono futili e instabili. Perciò il loro possesso non dà serenità; anche se la fortuna propizia li ha concentrati in un solo individuo, pesano su chi li possiede, lo opprimono sempre, a volte lo ingannano. 31 Nessuno di questi dignitari che vedi è felice, non più di quanto lo siano gli attori ai quali il copione assegna lo scettro e il manto sulla scena: in presenza del pubblico avanzano fieri e alti sui coturni, ma appena escono, se li tolgono e ritornano alla loro statura. Non è grande nessuno di quegli uomini che le ricchezze e gli onori mettono in una condizione privilegiata. E perché, allora, sembra grande? Perché lo misuri insieme al piedistallo. Un nano, anche se sta su un monte, non è alto; un gigante mantiene la sua altezza anche in un fosso. 32 Fatalmente commettiamo questo errore: non stimiamo nessuno per quello che è: gli aggiungiamo anche tutti gli orpelli. Ma se vuoi fare una valutazione esatta di un uomo e sapere com'è veramente, esaminalo spoglio di tutto; deponga il patrimonio, deponga le cariche e gli altri inganni della fortuna, si spogli anche del corpo: guarda alla qualità e alla grandezza della sua anima, se è grande per beni propri o estranei. 33 Stimalo felice, se vede balenare lame davanti ai suoi occhi e non li abbassa né gli importa di rendere l'anima dalla bocca o dalla gola; se minacce di tortura gli vengono dalla sventura o dalla violenza di un potente, se è condannato al carcere o all'esilio o è messo di fronte a circostanze che riempiono di vano terrore l'animo degli uomini e non trema, ma esclama: o vergine, nessuna pena mi giunge nuova o inaspettata; tutto ho previsto, tutto ho considerato nell'animo mio. "Tu oggi mi annunci queste disgrazie: io le ho sempre annunciate a me stesso e come uomo mi sono preparato al destino umano. " 34 Non è duro il colpo inferto da una disgrazia prevista. Ma se uno è sciocco e si affida alla sorte, ogni avvenimento gli sembra nuovo e inaspettato; per gli ignoranti gran parte del male è rappresentato dalla novità. Sappi questo: le disgrazie che sembravano loro intollerabili, le sopportano con più coraggio quando ci hanno fatto l'abitudine. 35 Perciò il saggio si abitua ai mali futuri e, mentre per gli altri diventano sopportabili dopo una lunga sofferenza, egli li rende tali con una lunga meditazione. Certe volte sentiamo dire da un ignorante: "Questo me lo aspettavo"; il saggio si aspetta tutto; qualunque cosa gli capiti, dice: "Me l'aspettavo. " Stammi bene.


[1] Subito nobis hodie Alexandrinae naves apparuerunt, quae praemitti solent et nuntiare secuturae classis adventum: tabellarias vocant. Gratus illarum Campaniae aspectus est: omnis in pilis Puteolorum turba consistit et ex ipso genere velorum Alexandrinas quamvis in magna turba navium intellegit; solis enim licet siparum intendere, quod in alto omnes habent naves. [2] Nulla enim res aeque adiuvat cursum quam summa pars veli; illinc maxime navis urgetur. Itaque quotiens ventus increbruit maiorque est quam expedit, antemna summittitur: minus habet virium flatus ex humili. Cum intravere Capreas et promunturium ex quo alta procelloso speculatur vertice Pallas, ceterae velo iubentur esse contentae: siparum Alexandrinarum insigne [indicium] est. [3] In hoc omnium discursu properantium ad litus magnam ex pigritia mea sensi voluptatem, quod epistulas meorum accepturus non properavi scire quis illic esset rerum mearum status, quid adferrent: olim iam nec perit quicquam mihi nec adquiritur. Hoc, etiam si senex non essem, fuerat sentiendum, nunc vero multo magis: quantulumcumque haberem, tamen plus iam mihi superesset viatici quam viae, praesertim cum eam viam simus ingressi quam peragere non est necesse. [4] Iter inperfectum erit si in media parte aut citra petitum locum steteris: vita non est inperfecta si honesta est; ubicumque desines, si bene desines, tota est. Saepe autem et fortiter desinendum est et non ex maximis causis; nam nec eae maximae sunt quae nos tenent.
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1 Oggi sono comparse improvvisamente le navi alessandrine, che di solito precedono la flotta e ne preannunciano l'arrivo: si chiamano "navi staffetta". In Campania le vedono arrivare volentieri: tutta la popolazione di Pozzuoli si accalca sul molo e anche in mezzo a tante navi riconosce quelle alessandrine dal tipo di vele: solo a esse è consentito spiegare la vela di gabbia che tutte le navi alzano in alto mare. 2 Non c'è niente che favorisca la velocità della nave quanto la parte alta della velatura; è da qui che la nave riceve la spinta maggiore. Perciò quando il vento cresce ed è più forte del dovuto, l'antenna viene abbassata: in basso il soffio ha meno forza. Quando arrivano in prossimità di Capri e del promontorio da cui Pallade su una cima tempestosa guarda dall'alto, le altre navi devono ridurre la velatura: la vela di gabbia è il segno distintivo delle navi alessandrine. 3 Mentre tutti si precipitavano alla spiaggia, ho tratto un enorme piacere dalla mia pigrizia: dovevo ricevere lettere dai miei amministratori e non mi affrettavo per conoscere la situazione dei miei affari laggiù e che notizie mi portassero: già da tempo per me non ci sono né perdite né guadagni. Avrei dovuto pensarla così anche se non fossi vecchio e quindi ancor più adesso: per quanto poco io abbia, sono provviste superiori al cammino che mi rimane, soprattutto perché ho imboccato una via che non è necessario percorrere fino in fondo. 4 Un viaggio è incompiuto se ci si ferma a mezza strada o prima del punto stabilito; la vita non è incompiuta, se è virtuosa. Dovunque la concludi, se la concludi bene, è completa. Spesso poi bisogna farla finita con coraggio per cause che non sono tra le più importanti: del resto non sono importantissimi neppure i motivi che ci tengono in vita.


[5] Tullius Marcellinus, quem optime noveras, adulescens quietus et cito senex, morbo et non insanabili correptus sed longo et molesto et multa imperante, coepit deliberare de morte. Convocavit complures amicos. Unusquisque aut, quia timidus erat, id illi suadebat quod sibi suasisset, aut, quia adulator et blandus, id consilium dabat quod deliberanti gratius fore suspicabatur. [6] Amicus noster Stoicus, homo egregius et, ut verbis illum quibus laudari dignus est laudem, vir fortis ac strenuus, videtur mihi optime illum cohortatus. Sic enim coepit: 'noli, mi Marcelline, torqueri tamquam de re magna deliberes. Non est res magna vivere: omnes servi tui vivunt, omnia animalia: magnum est honeste mori, prudenter, fortiter. Cogita quamdiu iam idem facias: cibus, somnus, libido -- per hunc circulum curritur; mori velle non tantum prudens aut fortis aut miser, etiam fastidiosus potest. ' [7] Non opus erat suasore illi sed adiutore: servi parere nolebant. Primum detraxit illis metum et indicavit tunc familiam periculum adire cum incertum esset an mors domini voluntaria fuisset; alioqui tam mali exempli esse occidere dominum quam prohibere. [8] Deinde ipsum Marcellinum admonuit non esse inhumanum, quemadmodum cena peracta reliquiae circumstantibus dividantur, sic peracta vita aliquid porrigi iis qui totius vitae ministri fuissent. Erat Marcellinus facilis animi et liberalis etiam cum de suo fieret; minutas itaque summulas distribuit flentibus servis et illos ultro consolatus est. [9] Non fuit illi opus ferro, non sanguine: triduo abstinuit et in ipso cubiculo poni tabernaculum iussit. Solium deinde inlatum est, in quo diu iacuit et calda subinde suffusa paulatim defecit, ut aiebat, non sine quadam voluptate, quam adferre solet lenis dissolutio non inexperta nobis, quos aliquando liquit animus.


5 Tullio Marcellino, che tu conoscevi molto bene, un ragazzo tranquillo e invecchiato di colpo, colpito da una malattia non inguaribile, ma lunga e fastidiosa e che esigeva molte cure, cominciò a pensare al suicidio. Riunì intorno a sé numerosi amici. Ognuno, o perché era vile, gli consigliava quello che avrebbe fatto egli stesso, o perché era compiacente e adulatore, gli dava il consiglio che supponeva a lui più gradito. 6 Uno stoico mio amico, una personalità fuori dal comune e, per lodarlo con parole degne di lui, un individuo forte e coraggioso, gli rivolse, a mio parere, le parole più opportune: "Mio caro Marcellino, non tormentarti, " gli disse, "come se dovessi prendere una decisione fondamentale; vivere non è poi una gran cosa: tutti i tuoi schiavi, tutte le bestie vivono: l'importante è morire con dignità, saggezza e coraggio. Pensa da quanto tempo fai sempre le stesse cose: mangi, dormi, fai l'amore. È un circolo vizioso. Desiderare la morte non è solo un segno di saggezza o di coraggio o di infelicità, ma anche di nausea. " 7 Marcellino non aveva bisogno di uno che lo convincesse, ma di uno che lo aiutasse. I servi si rifiutavano di obbedire. Lo stoico intanto li tranquillizzò e mostrò che la servitù si sarebbe trovata in pericolo se fossero nati dubbi sul suicidio del padrone; del resto non era un atto esemplare tanto uccidere il padrone, quanto impedirgli di uccidersi. 8 Allo stesso Marcellino ricordò poi, che sarebbe stato un bel gesto offrire alla fine della vita qualcosa alle persone che per tutta la vita lo avevano servito, come, finita la cena, si dividono gli avanzi tra gli schiavi presenti. Marcellino era generoso e liberale, disposto a dare anche del suo; distribuì così piccole somme tra i servi che piangevano e per giunta cercò di consolarli. 9 Non ebbe bisogno di un'arma o di una morte cruenta: non mangiò per tre giorni e comandò che nella stanza da letto mettessero una tenda. Poi fu portata una tinozza: vi giacque a lungo e a poco a poco mentre versavano l'acqua calda, gli vennero meno le forze, come diceva, non senza un suo piacere, il piacere tipico di quel lieve dissolversi ben noto a me che certe volte perdo i sensi.


[10] In fabellam excessi non ingratam tibi; exitum enim amici tui cognosces non difficilem nec miserum. Quamvis enim mortem sibi consciverit, tamen mollissime excessit et vita elapsus est. Sed ne inutilis quidem haec fabella fuerit; saepe enim talia exempla necessitas exigit. Saepe debemus mori nec volumus, morimur nec volumus. [11] Nemo tam inperitus est ut nesciat quandoque moriendum; tamen cum prope accessit, tergiversatur, tremit, plorat. Nonne tibi videtur stultissimus omnium qui flevit quod ante annos mille non vixerat? aeque stultus est qui flet quod post annos mille non vivet. Haec paria sunt: non eris nec fuisti; utrumque tempus alienum est. [12] In hoc punctum coniectus es, quod ut extendas, quousque extendes? Quid fles? quid optas? perdis operam. Desine fata deum flecti sperare precando. Rata et fixa sunt et magna atque aeterna necessitate ducuntur: eo ibis quo omnia eunt. Quid tibi novi est? Ad hanc legem natus es; hoc patri tuo accidit, hoc matri, hoc maioribus, hoc omnibus ante te, hoc omnibus post te. Series invicta et nulla mutabilis ope inligavit ac trahit cuncta. [13] Quantus te populus moriturorum sequetur, quantus comitabitur! Fortior, ut opinor, esses, si multa milia tibi commorerentur; atqui multa milia et hominum et animalium hoc ipso momento quo tu mori dubitas animam variis generibus emittunt. Tu autem non putabas te aliquando ad id perventurum ad quod semper ibas? Nullum sine exitu iter est.
[14] Exempla nunc magnorum virorum me tibi iudicas relaturum? puerorum referam. Lacon ille memoriae traditur, inpubis adhuc, qui captus clamabat 'non serviam' sua illa Dorica lingua, et verbis fidem inposuit: ut primum iussus est fungi servili et contumelioso ministerio (adferre enim vas obscenum iubebatur), inlisum parieti caput rupit. [15] Tam prope libertas est: et servit aliquis? Ita non sic perire filium tuum malles quam per inertiam senem fieri? Quid ergo est cur perturberis, si mori fortiter etiam puerile est? Puta nolle te sequi: duceris. Fac tui iuris quod alieni est. Non sumes pueri spiritum, ut dicas 'non servio'? Infelix, servis hominibus, servis rebus, servis vitae; nam vita, si moriendi virtus abest, servitus est. [16] Ecquid habes propter quod expectes? voluptates ipsas quae te morantur ac retinent consumpsisti: nulla tibi nova est, nulla non iam odiosa ipsa satietate. Quis sit vini, quis mulsi sapor scis: nihil interest centum per vesicam tuam an mille amphorae transeant: saccus es. Quid sapiat ostreum, quid mullus optime nosti: nihil tibi luxuria tua in futuros annos intactum reservavit. Atqui haec sunt a quibus invitus divelleris. [17] Quid est aliud quod tibi eripi doleas? Amicos? Scis enim amicus esse? Patriam? tanti enim illam putas ut tardius cenes? Solem? quem, si posses, extingueres: quid enim umquam fecisti luce dignum? Confitere non curiae te, non fori, non ipsius rerum naturae desiderio tardiorem ad moriendum fieri: invitus relinquis macellum, in quo nihil reliquisti. [18] Mortem times: at quomodo illam media boletatione contemnis! Vivere vis: scis enim? Mori times: quid porro? ista vita non mors est? C. Caesar, cum illum transeuntem per Latinam viam unus ex custodiarum agmine demissa usque in pectus vetere barba rogaret mortem, 'nunc enim' inquit 'vivis?' Hoc istis respondendum est quibus succursura mors est: 'mori times: nunc enim vivis?' [19] 'Sed egò inquit 'vivere volo, qui multa honeste facio; invitus relinquo officia vitae, quibus fideliter et industrie fungor. ' Quid? tu nescis unum esse ex vitae officiis et mori? Nullum officium relinquis; non enim certus numerus quem debeas explere finitur. [20] Nulla vita est non brevis; nam si ad naturam rerum respexeris, etiam Nestoris et Sattiae brevis est, quae inscribi monumento suo iussit annis se nonaginta novem vixisse. Vides aliquem gloriari senectute longa: quis illam ferre potuisset si contigisset centesimum implere? Quomodo fabula, sic vita: non quam diu, sed quam bene acta sit, refert. Nihil ad rem pertinet quo loco desinas. Quocumque voles desine: tantum bonam clausulam inpone. Vale.


10 Mi sono dilungato in una narrazione che certo non ti è sgradita; ti renderai ora conto che la morte del tuo amico è stata facile e priva di sofferenza. È vero che si è dato volontariamente la morte, ma se ne è andato dolcemente, quasi scivolando dalla vita. Non ti avrò certo raccontato questo inutilmente; è spesso la necessità a esigere modelli del genere. Molte volte dovremmo morire e non vogliamo, oppure moriamo e non vogliamo. 11 Nessuno è tanto ignorante da non sapere che un giorno o l'altro dovrà morire; eppure, quando si avvicina l'ora, tergiversa, trema, supplica. Secondo te non sarebbe completamente stupido uno che piangesse per non essere vissuto mille anni prima? Altrettanto stupido è uno che piange perché non sarà vivo fra mille anni. È proprio la stessa cosa: in passato non c'eri, non ci sarai in futuro; futuro e passato non ci appartengono. 12 Sei stato scaraventato in questo punto del tempo: allungalo pure; fin dove ti riuscirà di allungarlo? Cosa piangi a fare? Cos'è che vuoi? Fatica sprecata. Non sperare che per le tue preghiere mutino i disegni divini. Sono stati sanciti, sono immutabili, li governa una potente ed eterna necessità: andrai là dove vanno tutti gli esseri. Cos'è che ti sembra nuovo? Tu sei nato sotto questa legge; così è stato per tuo padre, tua madre, i tuoi avi, per tutte le generazioni passate e sarà così per quelle future. Una successione ineluttabile, che nessuna forza può infrangere, vincola e trascina ogni cosa. 13 Che folla di uomini destinati a morire verrà dopo di te, che folla si accompagna a te! Saresti più forte, penso, se insieme a te morissero molte migliaia di individui: eppure, nel preciso momento in cui tu esiti a morire, molte migliaia di uomini e di animali in maniere diverse esalano l'ultimo respiro. Ma non pensavi che prima o poi saresti arrivato alla meta del tuo cammino? Ogni viaggio ha una sua fine. 14 Tu credi che ora mi rifarò a esempi di grandi uomini? No, parlerò di ragazzi. È famoso quel ragazzo spartano ancora imberbe che, fatto prigioniero, gridava nel suo dialetto dorico: "Non sarò schiavo mai"; e mantenne fede alle sue parole: quando gli ordinarono il primo lavoro umiliante e servile, (portare un vaso da notte), si fracassò la testa sbattendola contro la parete. 15 La libertà è così vicina: e c'è chi vive schiavo? Preferiresti che tuo figlio morisse così, o che diventasse vecchio nell'inerzia? Perché dunque turbarti, se anche un fanciullo può morire con coraggio? Metti caso che tu non voglia seguire il destino comune: sarai costretto. Riduci in tuo dominio ciò che dipende da altri. Non imiterai il coraggio di un fanciullo per affermare: "No, non sarò un servo"? Infelice, sei schiavo degli uomini, delle cose, della vita; anche la vita, se manca il coraggio di morire, è una schiavitù. 16 Hai davvero buoni motivi per aspettare? Anche i piaceri, che ti bloccano e ti trattengono, li hai esauriti: non ce n'è nessuno nuovo per te; nessuno che non ti disgusti ormai per la troppa sazietà. Conosci il sapore del vino puro, del vino col miele, non c'è differenza se per la tua vescica ne passano cento o mille anfore: sei solo un filtro. Conosci benissimo il gusto delle ostriche e delle triglie: la tua mollezza non ti ha lasciato nulla di ignoto da godere per gli anni a venire. Eppure sono queste le cose da cui ti stacchi a malincuore. 17 C'è dell'altro che ti dispiace se ti viene strappato? Gli amici? Ma sai essere un vero amico? La patria? Ne fai conto tanto da ritardare la cena? Il sole? Ma se potessi, lo spegneresti! C'è qualche tua azione degna della luce? Confessalo: dalla morte non ti trattengono la politica o gli affari o l'amore per la natura: tu lasci malvolentieri un mercato di viveri, in cui non hai lasciato nessun prodotto. 18 Hai paura della morte: eppure come la disprezzi per una mangiata di funghi! Vuoi vivere: ma ne sei capace? Hai paura della morte: perché? Questa esistenza non è morte? Mentre Gaio Cesare passava per la via Latina, uno dei prigionieri, un vecchio con la barba lunga fino al petto, lo supplicò: "Fammi uccidere!" Gli rispose: "Perché, adesso tu vivi?" Ecco la risposta da dare a quegli individui per i quali la morte sarebbe un rimedio: "Hai paura di morire, perché adesso vivi?" 19 "Ma, " può rispondere, "io voglio vivere, compio tante nobili azioni; non ho intenzione di venir meno ai doveri dell'esistenza, doveri che adempio con probità e zelo. " Perché? Ignori che uno dei doveri della vita è anche morire? Tu non trascuri nessun obbligo; non hai un numero definito di doveri da compiere. 20 Ogni vita è breve; se guardi alla natura delle cose, è breve anche l'esistenza di Nestore e di Sattia, che ha voluto scritto sulla sua tomba di essere vissuta novantanove anni. Vedi: c'è chi si vanta di una lunga vecchiaia; chi l'avrebbe potuta sopportare se fosse arrivata a cent'anni? La vita è come un dramma; non conta quanto è lunga, ma se viene rappresentata bene. Non importa dove finisci. Finisci dove vuoi, basta che tu chiuda bene. Stammi bene.


LXXVIII. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] Vexari te destillationibus crebris ac febriculis, quae longas destillationes et in consuetudinem adductas sequuntur, eo molestius mihi est quia expertus sum hoc genus valetudinis, quod inter initia contempsi -- poterat adhuc adulescentia iniurias ferre et se adversus morbos contumaciter gerere -- deinde succubui et eo perductus sum ut ipse destillarem, ad summam maciem deductus. [2] Saepe impetum cepi abrumpendae vitae: patris me indulgentissimi senectus retinuit. Cogitavi enim non quam fortiter ego mori possem, sed quam ille fortiter desiderare non posset. Itaque imperavi mihi ut viverem; aliquando enim et vivere fortiter facere est. [3] Quae mihi tunc fuerint solacio dicam, si prius hoc dixero, haec ipsa quibus adquiescebam medicinae vim habuisse; in remedium cedunt honesta solacia, et quidquid animum erexit etiam corpori prodest. Studia mihi nostra saluti fuerunt; philosophiae acceptum fero quod surrexi, quod convalui; illi vitam debeo et nihil illi minus debeo. [4] Multum autem mihi contulerunt ad bonam valetudinem amici, quorum adhortationibus, vigiliis, sermonibus adlevabar. Nihil aeque, Lucili, virorum optime, aegrum reficit atque adiuvat quam amicorum adfectus, nihil aeque expectationem mortis ac metum subripit: non iudicabam me, cum illos superstites relinquerem, mori. Putabam, inquam, me victurum non cum illis, sed per illos; non effundere mihi spiritum videbar, sed tradere. Haec mihi dederunt voluntatem adiuvandi me et patiendi omne tormentum; alioqui miserrimum est, cum animum moriendi proieceris, non habere vivendi. [5] Ad haec ergo remedia te confer. Medicus tibi quantum ambules, quantum exercearis monstrabit; ne indulgeas otio, ad quod vergit iners valetudo; ut legas clarius et spiritum, cuius iter ac receptaculum laborat, exerceas; ut naviges et viscera molli iactatione concutias; quibus cibis utaris, vinum quando virium causa advoces, quando intermittas ne inritet et exasperet tussim. Ego tibi illud praecipio quod non tantum huius morbi sed totius vitae remedium est: contemne mortem. Nihil triste est cum huius metum effugimus.
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1 Ti tormentano continuamente catarro e febbriciattole, inevitabile conseguenza di un catarro cronico e di vecchia data; mi dispiace tanto più perché ci sono passato anch'io per questo genere di malattia: all'inizio non ci feci caso, ero giovane e potevo ancòra sopportare i danni di un male e comportarmi con una certa arroganza nei suoi confronti; poi, dovetti soccombere, e mi ridussi a essere tutto catarro e diventai uno scheletro. 2 Tante volte mi prese la voglia di farla finita: ma mi trattenne la vecchiaia del mio amorevolissimo padre. Pensai non come potevo morire da forte, ma come mio padre non avesse la forza di sopportare la mia scomparsa. Perciò mi imposi di vivere; talvolta anche vivere è un atto di coraggio. 3 Ti dirò che cosa mi diede sollievo; ma prima voglio dirti che quanto mi confortava ebbe per me l'efficacia di una medicina; un conforto onesto diventa una medicina e, se una cosa solleva l'anima, giova anche al corpo. Gli studi furono la mia salvezza. È grazie alla filosofia se mi sono risollevato, se sono guarito; alla filosofia sono debitore della vita, ma questo è il debito più piccolo che ho con lei. 4 Anche gli amici contribuirono molto alla mia guarigione; i loro consigli, le veglie, le conversazioni mi erano di sollievo. Niente, mio ottimo Lucilio, rianima un ammalato e lo sostiene quanto l'affetto degli amici, niente serve tanto a ingannare l'attesa e il timore della morte: non ritenevo di morire, se rimanevano in vita loro. Pensavo, voglio dire, che sarei vissuto non con loro, ma attraverso loro; non mi sembrava di esalare l'anima, ma di trasmetterla. Tutto questo mi diede la volontà di farmi forza e di sopportare ogni tormento; altrimenti è ben triste cosa non avere il coraggio di vivere e aver buttato via il coraggio di morire. 5 Questi sono i farmaci da prendere: il medico ti prescriverà quante passeggiate o quanto moto devi fare; ti raccomanderà di non abbandonarti all'ozio cui si tende quando una malattia costringe all'inattività; di leggere ad alta voce e di esercitare il fiato perché vie respiratorie e polmoni lavorano male; di andare in barca per smuovere le viscere con quel dolce ondeggiare; ti dirà che cosa devi mangiare, quando devi bere vino per darti forza, quando devi astenertene per non provocare e inasprire la tosse. Io ti prescrivo un rimedio adatto non solo a questa malattia, ma a tutta l'esistenza: il disprezzo della morte. Non c'è più nulla di triste, se ci sottraiamo alla paura della morte.


[6] Tria haec in omni morbo gravia sunt: metus mortis, dolor corporis, intermissio voluptatum. De morte satis dictum est: hoc unum dicam, non morbi hunc esse sed naturae metum. Multorum mortem distulit morbus et saluti illis fuit videri perire. Morieris, non quia aegrotas, sed quia vivis. Ista te res et sanatum manet; cum convalueris, non mortem sed valetudinem effugeris. [7] Ad illud nunc proprium incommodum revertamur: magnos cruciatus habet morbus, sed hos tolerabiles intervalla faciunt. Nam summi doloris intentio invenit finem; nemo potest valde dolere et diu; sic nos amantissima nostri natura disposuit ut dolorem aut tolerabilem aut brevem faceret. [8] Maximi dolores consistunt in macerrimis corporis partibus: nervi articulique et quidquid aliud exile est acerrime saevit cum in arto vitia concepit. Sed cito hae partes obstupescunt et ipso dolore sensum doloris amittunt, sive quia spiritus naturali prohibitus cursu et mutatus in peius vim suam qua viget admonetque nos perdit, sive quia corruptus umor, cum desiit habere quo confluat, ipse se elidit et iis quae nimis implevit excutit sensum. [9] Sic podagra et cheragra et omnis vertebrarum dolor nervorumque interquiescit cum illa quae torquebat hebetavit; omnium istorum prima verminatio vexat, impetus mora extinguitur et finis dolendi est optorpuisse. Dentium, oculorum, aurium dolor ob hoc ipsum acutissimus est quod inter angusta corporis nascitur, non minus, mehercule, quam capitis ipsius; sed si incitatior est, in alienationem soporemque convertitur. [10] Hoc itaque solacium vasti doloris est, quod necesse est desinas illum sentire si nimis senseris. Illud autem est quod inperitos in vexatione corporis male habet: non adsueverunt animo esse contenti; multum illis cum corpore fuit. Ideo vir magnus ac prudens animum diducit a corpore et multum cum meliore ac divina parte versatur, cum hac querula et fragili quantum necesse est. [11] 'Sed molestum est' inquit 'carere adsuetis voluptatibus, abstinere cibo, sitire, esurire. ' Haec prima abstinentia gravia sunt, deinde cupiditas relanguescit ipsis per [se] quae cupimus fatigatis ac deficientibus; inde morosus est stomachus, inde quibus fuit aviditas cibi odium est. Desideria ipsa moriuntur; non est autem acerbum carere eo quod cupere desieris. [12] Adice quod nullus non intermittitur dolor aut certe remittitur. Adice quod licet cavere venturum et obsistere inminenti remediis; nullus enim non signa praemittit, utique qui ex solito revertitur. Tolerabilis est morbi patientia, si contempseris id quod extremum minatur.


6 In ogni malattia ci sono tre cose gravi: il timore della morte, il dolore fisico, l'interruzione dei piaceri. Della morte si è detto abbastanza, aggiungerò solo questo: è un timore legato non alla malattia, ma alla nostra natura. È successo a tanta gente che una malattia ne allontanasse la morte, e la sensazione di morire fu per loro salutare. Morirai non perché sei ammalato, ma perché vivi. La morte ti attende anche dopo la guarigione; se guarirai, non sarai sfuggito alla morte, ma alla malattia. 7 Torniamo ora ai disagi veri e propri: una malattia provoca forti sofferenze, ma a intervalli che le rendono tollerabili. Un dolore quando è al massimo dell'intensità non dura; nessuno può soffrire intensamente e a lungo: la natura, che ci ama molto, ci ha regolato in modo che il dolore fosse o sopportabile o di breve durata. 8 I dolori più acuti si localizzano nei punti più magri del corpo; i nervi, le giunture e le altre parti più scarne ci fanno soffrire terribilmente quando il male si annida nella loro superficie limitata. Queste parti, però si intorpidiscono presto e l'intensità stessa del dolore le rende insensibili, primo perché lo spirito vitale è impedito nelle sue attività naturali e si deteriora: perde la forza da cui trae vigore e con cui ci stimola; secondo perché gli umori corrotti, quando non hanno più uno sbocco, si neutralizzano da sé e privano di sensibilità quelle parti che hanno riempito in maniera eccessiva. 9 Così la gotta che colpisce mani e piedi e tutti i dolori delle vertebre e dei nervi si calmano quando ottundono le parti che tormentavano; le prime fitte di tutte queste malattie sono lancinanti, poi, se durano, finisce la fase acuta e al dolore subentra l'intorpidimento. Il mal di denti, di occhi, di orecchie è più acuto perché si sviluppa in organi molto piccoli, e lo stesso è, perbacco, per il mal di testa; se, però è troppo violento, provoca delirio e torpore. 10 Perciò un dolore intenso porta questo sollievo: se lo si sente troppo, si finisce necessariamente per non sentirlo più. Ma c'è una cosa che tormenta gli ignoranti nelle sofferenze fisiche: non sono abituati a essere paghi dello spirito; attribuiscono molta importanza al corpo. Perciò l'uomo magnanimo e saggio separa l'anima dal corpo e con la parte migliore di sé, di origine divina, si intrattiene a lungo, con quella corporea lamentosa e fragile, invece, solo lo stretto necessario. 11 "Ma, " si obietta, "è fastidioso non godere dei consueti piaceri, astenersi dal cibo, soffrire la sete, la fame. " In un primo momento queste privazioni sono gravose, poi il desiderio comincia ad attenuarsi proprio per la spossatezza e l'indebolimento degli organi del desiderio; lo stomaco diventa schifiltoso e all'avidità di cibo subentra la nausea. Anche le voglie si spengono e allora non è duro rinunciare a ciò che non si desidera. 12 Aggiungi che ogni dolore a tratti si placa o, almeno, diminuisce. Inoltre, è possibile prevenirlo e contrastarlo con le medicine; ogni tipo di sofferenza presenta chiari sintomi, specie se ritorna spesso. È, dunque, possibile sopportare la malattia se ne disprezzi le estreme conseguenze.


[13] Noli mala tua facere tibi ipse graviora et te querelis onerare: levis est dolor si nihil illi opinio adiecerit. Contra si exhortari te coeperis ac dicere 'nihil est aut certe exiguum est; duremus; iam desinet', levem illum, dum putas, facies. Omnia ex opinione suspensa sunt; non ambitio tantum ad illam respicit et luxuria et avaritia: ad opinionem dolemus. [14] Tam miser est quisque quam credidit. Detrahendas praeteritorum dolorum conquestiones puto et illa verba: 'nulli umquam fuit peius. Quos cruciatus, quanta mala pertuli! Nemo me surrecturum putavit. Quotiens deploratus sum a meis, quotiens a medicis relictus! In eculeum inpositi non sic distrahuntur. ' Etiam si sunt vera ista, transierunt: quid iuvat praeteritos dolores retractare et miserum esse quia fueris? Quid quod nemo non multum malis suis adicit et sibi ipse mentitur? Deinde quod acerbum fuit ferre, tulisse iucundum est: naturale est mali sui fine gaudere. Circumcidenda ergo duo sunt, et futuri timor et veteris incommodi memoria: hoc ad me iam non pertinet, illud nondum. [15] In ipsis positus difficultatibus dicat, forsan et haec olim meminisse iuvabit. Toto contra ille pugnet animo; vincetur si cesserit, vincet si se contra dolorem suum intenderit: nunc hoc plerique faciunt, adtrahunt in se ruinam cui obstandum est. Istud quod premit, quod inpendet, quod urguet, si subducere te coeperis, sequetur et gravius incumbet; si contra steteris et obniti volueris, repelletur. [16] Athletae quantum plagarum ore, quantum toto corpore excipiunt! ferunt tamen omne tormentum gloriae cupiditate nec tantum quia pugnant ista patiuntur, sed ut pugnent: exercitatio ipsa tormentum est. Nos quoque evincamus omnia, quorum praemium non corona nec palma est nec tubicen praedicationi nominis nostri silentium faciens, sed virtus et firmitas animi et pax in ceterum parta, si semel in aliquo certamine debellata fortuna est. 'Dolorem gravem sentio. ' [17] Quid ergo? non sentis si illum muliebriter tuleris? Quemadmodum perniciosior est hostis fugientibus, sic omne fortuitum incommodum magis instat cedenti et averso. 'Sed grave est. ' Quid? nos ad hoc fortes sumus, ut levia portemus? Utrum vis longum esse morbum an concitatum et brevem? Si longus est, habet intercapedinem, dat refectioni locum, multum temporis donat, necesse est, ut exsurgat, et desinat: brevis morbus ac praeceps alterutrum faciet, aut extinguetur aut extinguet. Quid autem interest, non sit an non sim? in utroque finis dolendi est. [18] Illud quoque proderit, ad alias cogitationes avertere animum et a dolore discedere. Cogita quid honeste, quid fortiter feceris; bonas partes tecum ipse tracta; memoriam in ea quae maxime miratus es sparge; tunc tibi fortissimus quisque et victor doloris occurrat: ille qui dum varices exsecandas praeberet legere librum perseveravit, ille qui non desiit ridere cum hoc ipsum irati tortores omnia instrumenta crudelitatis suae experirentur. Non vincetur dolor ratione, qui victus est risu? [19] Quidquid vis nunc licet dicas, destillationes et vim continuae tussis egerentem viscerum partes et febrem praecordia ipsa torrentem et sitim et artus in diversum articulis exeuntibus tortos: plus est flamma et eculeus et lamina et vulneribus ipsis intumescentibus quod illa renovaret et altius urgueret inpressum. Inter haec tamen aliquis non gemuit. Parum est: non rogavit. Parum est: non respondit. Parum est: risit et quidem ex animo. Vis tu post hoc dolorem deridere?


13 Non renderti più gravosi i tuoi mali, non opprimerti con i lamenti: il dolore è leggero se non lo accresci con la tua suggestione. Se comincerai invece a farti coraggio e a dirti: "Non è niente o almeno è cosa da poco; resistiamo, sta per finire", con questi pensieri lo renderai leggero. Tutto dipende dalla suggestione; e non ne sono soggette soltanto l'ambizione, la lussuria, l'avidità: soffriamo per suggestione. 14 Ognuno è infelice quanto ritiene di esserlo. Ma evitiamo, io la penso così, di lamentarci per i dolori passati dicendo: "A nessuno è mai capitato di peggio. Che sofferenze, che mali ho sopportato! Nessuno pensava che mi sarei ripreso. Quante volte i miei mi hanno pianto, quante volte i medici mi hanno dato per spacciato! Nemmeno sotto tortura si soffre tanto. " Anche se questo è vero, ormai è andata: a che serve rivangare i dolori sofferti ed essere infelice ora perché lo sei stato in passato? Tutti ingigantiscono i loro mali e mentono a se stessi! E poi è piacevole che siano finiti quei dolori che è stato duro sopportare: quando il male finisce, è naturale goderne. Due cose, dunque, vanno eliminate: il timore di un nuovo male e il ricordo di quello vecchio; l'uno ancora non mi tocca, l'altro non mi tocca più. 15 Proprio quando uno sta male deve dire: Forse un giorno mi riuscirà gradito anche il ricordo di queste sofferenze. Combatta con tutto se stesso; se si arrende, sarà sconfitto, ma vincerà se lotterà contro il dolore. E invece, la maggior parte della gente attira su di sé le disgrazie a cui dovrebbe opporsi. Il male che ti incalza, che ti sovrasta, che non ti dà tregua, se cercherai di sottrarti, ti inseguirà e ti piomberà addosso più pesantemente; se rimarrai saldo e opporrai resistenza, riuscirai a respingerlo. 16 Quanti colpi prendono gli atleti sulla faccia, su tutto il corpo! E tuttavia sopportano ogni sofferenza per desiderio di gloria, non solo durante i combattimenti, ma anche quando si preparano ai combattimenti: l'allenamento stesso è già sofferenza. Vinciamo anche noi ogni male: il premio non è una corona o una palma o un banditore che impone il silenzio per proclamare il nostro nome, ma la virtù e la fermezza d'animo e la pace conquistata in ogni altro campo, se vinciamo una volta un combattimento con la fortuna. 17 "Sento un dolore lancinante. " E allora? Non lo senti, se ti comporti come una donnetta? Il nemico è più pericoloso per chi fugge; allo stesso modo una disgrazia dovuta al caso preme di più su chi si arrende e volge le spalle. "Ma è lancinante. " E come? Siamo forti solo per portare pesi leggeri? Preferisci una malattia lunga oppure breve e violenta? Se è lunga ha degli intervalli, lascia un pò di respiro, concede molto tempo e necessariamente, come comincia, finisce; una malattia breve e violenta presenta due alternative: o si estingue o estingue. Che differenza c'è se vengo meno io o la malattia? In entrambi i casi finisce la sofferenza. 18 Gioverà anche volgere lo spirito ad altri pensieri e staccarsi dal dolore. Ripensa ai tuoi atti di onestà e di coraggio; considerane gli elementi positivi; ricorda le imprese che più hai ammirato; richiama allora alla memoria tutti gli uomini più forti che hanno sconfitto il dolore: quello che ha continuato a leggere un libro mentre si faceva operare di varici, quello che non ha smesso di sorridere mentre i suoi carnefici, rabbiosi proprio per questo, provavano su di lui tutti gli strumenti della loro crudeltà. Quel dolore che il riso è riuscito a vincere, non lo vincerà la ragione? 19 Ora puoi descrivere quello che vuoi, il catarro e la virulenza di una tosse continua che ti fa vomitare anche le viscere, la febbre che ti brucia il petto, la sete, gli arti storpiati dalla deformazione delle articolazioni: sono, però, peggiori il fuoco, il cavalletto, le piastre roventi, tutto quello che viene cacciato dentro le ferite tumefatte per riaprirle e tormentarle più in profondità. Eppure c'è chi tra queste torture non si è lasciato sfuggire un lamento. Ma questo è poco: non ha implorato. È poco: non ha risposto. È poco: ha riso, e di cuore. Vuoi allora ridertela del dolore dopo questi esempi?


[20] 'Sed nihil' inquit 'agere sinit morbus, qui me omnibus abduxit officiis. ' Corpus tuum valetudo tenet, non et animum. Itaque cursoris moratur pedes, sutoris aut fabri manus inpedit: si animus tibi esse in usu solet, suadebis docebis, audies disces, quaeres recordaberis. Quid porro? nihil agere te credis si temperans aeger sis? ostendes morbum posse superari vel certe sustineri. [21] Est, mihi crede, virtuti etiam in lectulo locus. Non tantum arma et acies dant argumenta alacris animi indomitique terroribus: et in vestimentis vir fortis apparet. Habes quod agas: bene luctare cum morbo. Si nihil te coegerit, si nihil exoraverit, insigne prodis exemplum. O quam magna erat gloriae materia, si spectaremur aegri! ipse te specta, ipse te lauda. [22] Praeterea duo genera sunt voluptatum. Corporales morbus inhibet, non tamen tollit; immo, si verum aestimes, incitat. Magis iuvat bibere sitientem, gratior est esurienti cibus; quidquid ex abstinentia contingit avidius excipitur. Illas vero animi voluptates, quae maiores certioresque sunt, nemo medicus aegro negat. Has quisquis sequitur et bene intellegit omnia sensuum blandimenta contemnit. [23] 'O infelicem aegrum!' Quare? quia non vino nivem diluit? quia non rigorem potionis suae, quam capaci scypho miscuit, renovat fracta insuper glacie? quia non ostrea illi Lucrina in ipsa mensa aperiuntur? quia non circa cenationem eius tumultus cocorum est ipsos cum opsoniis focos transferentium? Hoc enim iam luxuria commenta est: ne quis intepescat cibus, ne quid palato iam calloso parum ferveat, cenam culina prosequitur. [24] 'O infelicem aegrum!' Edet quantum concoquat; non iacebit in conspectu aper ut vilis caro a mensa relegatus, nec in repositorio eius pectora avium (totas enim videre fastidium est) congesta ponentur. Quid tibi mali factum est? cenabis tamquam aeger, immo aliquando tamquam sanus. [25] Sed omnia ista facile perferemus, sorbitionem, aquam calidam, et quidquid aliud intolerabile videtur delicatis et luxu fluentibus magisque animo quam corpore morbidis: tantum mortem desinamus horrere. Desinemus autem, si fines bonorum ac malorum cognoverimus; ita demum nec vita taedio erit nec mors timori. [26] Vitam enim occupare satietas sui non potest tot res varias, magnas, divinas percensentem: in odium illam sui adducere solet iners otium. Rerum naturam peragranti numquam in fastidium veritas veniet: falsa satiabunt. [27] Rursus si mors accedit et vocat, licet inmatura sit, licet mediam praecidat aetatem, perceptus longissimae fructus est. Cognita est illi ex magna parte natura; scit tempore honesta non crescere: iis necesse est videri omnem vitam brevem qui illam voluptatibus vanis et ideo infinitis metiuntur. [28] His te cogitationibus recrea et interim epistulis nostris vaca. Veniet aliquando tempus quod nos iterum iungat ac misceat; quantulumlibet sit illud, longum faciet scientia utendi. Nam, ut Posidonius ait, 'unus dies hominum eruditorum plus patet quam inperitis longissima aetas'. [29] Interim hoc tene, hoc morde: adversis non succumbere, laetis non credere, omnem fortunae licentiam in oculis habere, tamquam quidquid potest facere factura sit. Quidquid expectatum est diu, levius accedit. Vale.


20 "Ma, " si dice, "la malattia non mi permette di far niente, mi ha distolto da tutte le mie occupazioni. " La malattia colpisce il corpo, non lo spirito. Può impedire i piedi del corridore, impacciare le mani del sarto o del fabbro: ma se tu abitualmente ti servi dello spirito, potrai dare consigli e insegnare, ascoltare e imparare, domandare e ricordare. E dunque? Secondo te non fai niente, se, pur essendo infermo, mantieni un comportamento equilibrato? Dimostrerai che un male si può vincere o almeno sopportare. 21 Credimi, anche in un lettuccio c'è posto per la virtù. Prova di un animo ardente, che la paura non riesce a domare, non possono darla solo le armi e le battaglie: l'uomo forte si rivela anche sotto le coperte. Hai qualcosa da fare: combattere valorosamente contro la malattia. Se non c'è cosa a cui potrà costringerti o indurti, darai un esempio insigne. Che straordinaria occasione di gloria ci sarebbe, se gli uomini ci osservassero quando siamo ammalati! Ma tu osservati e lodati da te. 22 Ci sono, poi, due generi di piaceri. La malattia impedisce i piaceri fisici, ma non li elimina; anzi, a ben guardare, li stimola. Se uno ha sete, bere gli piace di più; il cibo è più gradito a chi ha fame; tutto quello che si riceve dopo un periodo di astinenza, si prende con maggiore avidità. Ma i piaceri dell'animo che sono più grandi e più sicuri, nessun medico li nega all'ammalato. Chi tende a essi e li conosce bene, disprezza tutti gli allettamenti dei sensi. 23 "Povero malato!" E perché? Perché non può sciogliere la neve nel vino? Perché non può mantenere fresca la sua bevanda, preparata in una capace coppa, aggiungendovi pezzi di ghiaccio? Perché non gli vengono aperte proprio sulla tavola le ostriche del lago Lucrino? Perché mentre cena non c'è intorno a lui un trambusto di cuochi che insieme alle pietanze portano i fornelli? Ormai la dissolutezza ha escogitato anche questo: per evitare che i cibi diventino tiepidi, che il palato ormai indurito li senta poco caldi, la cucina fa da scorta alla cena. 24 "Povero malato!" Mangerà quanto può digerire: non gli si metterà di fronte un cinghiale, bandito poi dalla mensa come carne poco pregiata, non si ammucchieranno sul piatto da portata petti di uccello (vederli interi darebbe il voltastomaco). Che c'è di male? Mangerai come un malato, anzi una buona volta come una persona sana. 25 Ma tutti questi disagi li sopporteremo volentieri, brodini, acqua calda e tutte quelle altre cose che sembrano intollerabili agli schifiltosi snervati dai piaceri e malati più nell'anima che nel corpo: basta non avere più orrore della morte. E non ne avremo più, se conosceremo i confini del bene e del male; allora soltanto non avremo disgusto della vita, né timore della morte. 26 Non può avere nausea della vita uno che esamini tante questioni, diverse, grandi, divine: chi vive pigramente nell'ozio arriva di solito a odiare la vita. Se uno scruta la natura, la verità non gli verrà mai a nausea: solo le cose false saziano fino al disgusto. 27 E poi, se la morte arriva e lo chiama, anche se è prematura, anche se tronca la sua vita a metà, egli ha già raccolto i frutti di una lunghissima esistenza. Conosce gran parte della natura; sa che la virtù non cresce col passare del tempo: solo a quegli uomini che misurano la vita in base a piaceri vani e perciò senza limiti, ogni vita sembra necessariamente breve. 28 Rinfrancati con questi pensieri e intanto leggi attentamente le mie lettere. Verrà finalmente un tempo in cui ritorneremo a vivere insieme; per quanto breve sia, il saperlo usare lo renderà lungo. Dice Posidonio: "Un solo giorno di un uomo colto è più esteso di una lunghissima esistenza di un uomo ignorante. " 29 Intanto tieni ben ferma questa regola: non soccombere ai casi avversi, non fidarsi di quelli propizi, avere presenti gli arbìtrî della sorte, come se dovesse attuare tutto quanto è in suo potere. Ogni evento che si è aspettato a lungo, giunge più sopportabile. Stammi bene.


LXXIX. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM

 

[1] Expecto epistulas tuas quibus mihi indices circuitus Siciliae totius quid tibi novi ostenderit, et omnia de ipsa Charybdi certiora. Nam Scyllam saxum esse et quidem non terribile navigantibus optime scio: Charybdis an respondeat fabulis perscribi mihi desidero et, si forte observaveris (dignum est autem quod observes), fac nos certiores utrum uno tantum vento agatur in vertices an omnis tempestas aeque mare illud contorqueat, et an verum sit quidquid illo freti turbine abreptum est per multa milia trahi conditum et circa Tauromenitanum litus emergere. [2] Si haec mihi perscripseris, tunc tibi audebo mandare ut in honorem meum Aetnam quoque ascendas, quam consumi et sensim subsidere ex hoc colligunt quidam, quod aliquanto longius navigantibus solebat ostendi. Potest hoc accidere non quia montis altitudo descendit, sed quia ignis evanuit et minus vehemens ac largus effertur, ob eandem causam fumo quoque per diem segniore. Neutrum autem incredibile est, nec montem qui devoretur cotidie minui, nec manere eundem, quia non ipsum exest sed in aliqua inferna valle conceptus exaestuat et aliis pascitur, in ipso monte non alimentum habet sed viam. [3] In Lycia regio notissima est (Hephaestion incolae vocant), foratum pluribus locis solum, quod sine ullo nascentium damno ignis innoxius circumit. Laeta itaque regio est et herbida, nihil flammis adurentibus sed tantum vi remissa ac languida refulgentibus.
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1 Aspetto tue lettere per sapere che novità hai scoperto girando per tutta la Sicilia e avere notizie più sicure su Cariddi. Infatti, so benissimo che Scilla è uno scoglio e non è pericoloso per i naviganti: desidero, invece, che tu mi scriva esattamente se sono vere le leggende su Cariddi e, se ci hai fatto caso, (e certo la cosa merita attenzione), informami se i vortici li provoca un vento in particolare, oppure se tutte le burrasche sconvolgono allo stesso modo quel tratto di mare, e se è vero che ogni relitto strappato via da quel turbinio di correnti viene trascinato sott'acqua per molte miglia ed emerge vicino alla spiaggia di Taormina. 2 Se mi scriverai tutte queste notizie, allora oserò chiederti di salire anche sull'Etna per farmi piacere. Secondo alcuni questo vulcano si sta consumando e abbassando a poco a poco; lo deducono dal fatto che un tempo i naviganti lo scorgevano più da lontano. Questo fenomeno può succedere non perché diminuisce l'altezza del monte, ma perché il fuoco è più debole ed esce con minore violenza e in minore quantità e per lo stesso motivo anche il fumo diventa più tenue durante il giorno. Sono due ipotesi plausibili, sia che il monte si stia consumando e abbassando giorno dopo giorno, sia che rimanga tale e quale, perché il fuoco non lo divora, ma si forma in qualche cavità sotterranea, ribolle ed è nutrito da altre sostanze: nel monte non trova alimento: solo una via d'uscita. 3 In Licia c'è una regione notissima, che gli abitanti chiamano Efestione, dove il terreno presenta numerose buche: il fuoco che le circonda è innocuo e non danneggia la vegetazione. La regione è ridente ed erbosa; le fiamme non bruciano niente, semplicemente brillano di una luce debole e fiacca.


[4] Sed reservemus ista, tunc quaesituri cum tu mihi scripseris quantum ab ipso ore montis nives absint, quas ne aestas quidem solvit; adeo tutae sunt ab igne vicino. Non est autem quod istam curam inputes mihi; morbo enim tuo daturus eras, etiam si nemo mandaret. [5] Quid tibi do ne Aetnam describas in tuo carmine, ne hunc sollemnem omnibus poetis locum adtingas? Quem quominus Ovidius tractaret, nihil obstitit quod iam Vergilius impleverat; ne Severum quidem Cornelium uterque deterruit. Omnibus praeterea feliciter hic locus se dedit, et qui praecesserant non praeripuisse mihi videntur quae dici poterant, sed aperuisse. [6] [Sed] Multum interest utrum ad consumptam materiam an ad subactam accedas: crescit in dies, et inventuris inventa non obstant. Praeterea condicio optima est ultimi: parata verba invenit, quae aliter instructa novam faciem habent. Nec illis manus inicit tamquam alienis; sunt enim publica. [Iurisconsulti negant quicquam publicum usu capi. ] [7] Aut ego te non novi aut Aetna tibi salivam movet; iam cupis grande aliquid et par prioribus scribere. Plus enim sperare modestia tibi tua non permittit, quae tanta in te est ut videaris mihi retracturus ingenii tui vires, si vincendi periculum sit: tanta tibi priorum reverentia est. Ma mettiamo da parte questo argomento per approfondirlo quando mi scriverai a che distanza dal cratere si trova la neve; pur essendo vicina al fuoco, è tanto riparata che non si scioglie nemmeno in estate. Non devi, però addebitarmi la fatica della scalata: anche se nessuno te lo avesse chiesto, l'avresti fatto per soddisfare la tua forte curiosità. 5 Non c'è niente che possa distoglierti dal descrivere l'Etna nel tuo poema e dal toccare questo soggetto abituale per tutti i poeti. Il fatto che Virgilio ne avesse parlato diffusamente non impedì a Ovidio di trattare l'argomento; e Virgilio e Ovidio insieme non distolsero neppure Cornelio Severo. Inoltre questo soggetto si è prestato con successo a tutti, e gli scrittori precedenti, secondo me, non hanno portato via agli altri quello che c'era da dire, ma hanno spianato la via. 6 È molto diverso accostarsi a un tema ormai esaurito, oppure a uno su cui hanno lavorato altri: questo si sviluppa giorno per giorno e le immagini create non sono di ostacolo a chi ne vorrà creare di nuove. E poi lo scrittore che arriva per ultimo è nella condizione ottimale: trova le parole pronte; basta disporle diversamente e acquistano una fisionomia nuova. Il suo non è un furto: appartengono a tutti. 7 O io non ti conosco o l'Etna ti fa venire l'acquolina in bocca; e già desideri scrivere qualcosa di grande e allo stesso livello delle opere precedenti. La tua modestia non ti fa sperare di più: è tale che, secondo me, saresti pronto a trattenere le forze del tuo ingegno se ci fosse pericolo di superare gli altri: tanto è il rispetto che nutri per gli scrittori precedenti.


[8] Inter cetera hoc habet boni sapientia: nemo ab altero potest vinci nisi dum ascenditur. Cum ad summum perveneris, paria sunt; non est incremento locus, statur. Numquid sol magnitudini suae adicit? numquid ultra quam solet luna procedit? Maria non crescunt; mundus eundem habitum ac modum servat. [9] Extollere se quae iustam magnitudinem implevere non possunt: quicumque fuerint sapientes, pares erunt et aequales. Habebit unusquisque ex iis proprias dotes: alius erit affabilior, alius expeditior, alius promptior in eloquendo, alius facundior: illud de quo agitur, quod beatum facit, aequalest in omnibus. [10] An Aetna tua possit sublabi et in se ruere, an hoc excelsum cacumen et conspicuum per vasti maris spatia detrahat adsidua vis ignium, nescio: virtutem non flamma, non ruina inferius adducet; haec una maiestas deprimi nescit. Nec proferri ultra nec referri potest; sic huius, ut caelestium, stata magnitudo est. Ad hanc nos conemur educere. [11] Iam multum operis effecti est; immo, si verum fateri volo, non multum. Nec enim bonitas est pessimis esse meliorem: quis oculis glorietur qui suspicetur diem? Cui sol per caliginem splendet, licet contentus interim sit effugisse tenebras, adhuc non fruitur bono lucis. [12] Tunc animus noster habebit quod gratuletur sibi cum emissus his tenebris in quibus volutatur non tenui visu clara prospexerit, sed totum diem admiserit et redditus caelo suo fuerit, cum receperit locum quem occupavit sorte nascendi. Sursum illum vocant initia sua; erit autem illic etiam antequam hac custodia exsolvatur, cum vitia disiecerit purusque ac levis in cogitationes divinas emicuerit.


8 La saggezza ha, oltre al resto, anche questo di buono: uno può superare un altro solo durante la salita. Arrivati in cima, si è tutti uguali; non c'è possibilità di avanzare, si sta fermi. Il sole aumenta forse la sua grandezza? E la luna percorre un'orbita più lunga di quella solita? I mari non crescono; l'universo conserva sempre lo stesso aspetto e la stessa estensione. 9 Le cose che hanno raggiunto le dovute dimensioni non possono ingrandirsi: tutti coloro che raggiungeranno la saggezza saranno uguali e alla pari. Ciascuno di loro avrà doti sue proprie: uno sarà più affabile, uno più pronto, uno più spedito nel parlare, uno più eloquente: la virtù, di cui si discute e che rende felici, è uguale in tutti. 10 Non so se il tuo Etna possa crollare e precipitare su se stesso o se l'azione violenta e continua del fuoco possa corrodere questa alta vetta, visibile su un largo tratto di mare: ma né le fiamme, né un crollo possono trascinare in basso la virtù; è l'unica dignità che non conosce diminuzioni. Non può avanzare e nemmeno indietreggiare; la sua grandezza è fissa come quella dei corpi celesti. Cerchiamo di innalzarci fino a essa. 11 Si è fatto già molto; anzi, a dire il vero, non molto. La bontà non consiste nell'essere migliori dei peggiori: chi potrebbe vantarsi della propria vista, se scorge appena la luce del giorno? Se uno vede splendere il sole attraverso una fitta nebbia, benché sia lieto di essere per il momento sfuggito alle tenebre, non gode ancora del bene della luce. 12 Allora l'anima nostra potrà congratularsi con se stessa quando, uscita dalle tenebre in cui è avvolta, scorgerà la luce, non con vista debole, ma accoglierà tutto lo splendore del giorno e sarà restituita al suo cielo, quando riprenderà il posto assegnatole dalla sorte al momento della nascita. Le sue origini la chiamano in alto e ci arriverà anche prima di liberarsi dalla prigionia del corpo, se disperderà i vizi, e pura e leggera si innalzerà a pensieri divini.


[13] Hoc nos agere, Lucili carissime, in hoc ire impetu toto, licet pauci sciant, licet nemo, iuvat. Gloria umbra virtutis est: etiam invitam comitabitur. Sed quemadmodum aliquando umbra antecedit, aliquando sequitur vel a tergo est, ita gloria aliquando ante nos est visendamque se praebet, aliquando in averso est maiorque quo serior, ubi invidia secessit. [14] Quamdiu videbatur furere Democritus! Vix recepit Socraten fama. Quamdiu Catonem civitas ignoravit! respuit nec intellexit nisi cum perdidit. Rutili innocentia ac virtus lateret, nisi accepisset iniuriam: dum violatur, effulsit. Numquid non sorti suae gratias egit et exilium suum complexus est? De his loquor quos inlustravit fortuna dum vexat: quam multorum profectus in notitiam evasere post ipsos! quam multos fama non excepit sed eruit! [15] Vides Epicurum quantopere non tantum eruditiores sed haec quoque inperitorum turba miretur: hic ignotus ipsis Athenis fuit, circa quas delituerat. Multis itaque iam annis Metrodoro suo superstes in quadam epistula, cum amicitiam suam et Metrodori grata commemoratione cecinisset, hoc novissime adiecit, nihil sibi et Metrodoro inter bona tanta nocuisse quod ipsos illa nobilis Graecia non ignotos solum habuisset sed paene inauditos. [16] Numquid ergo non postea quam esse desierat inventus est? numquid non opinio eius enituit? Hoc Metrodorus quoque in quadam epistula confitetur, se et Epicurum non satis enotuisse; sed post se et Epicurum magnum paratumque nomen habituros qui voluissent per eadem ire vestigia. [17] Nulla virtus latet, et latuisse non ipsius est damnum: veniet qui conditam et saeculi sui malignitate conpressam dies publicet. Paucis natus est qui populum aetatis suae cogitat. Multa annorum milia, multa populorum supervenient: ad illa respice. Etiam si omnibus tecum viventibus silentium livor indixerit, venient qui sine offensa, sine gratia iudicent. Si quod est pretium virtutis ex fama, nec hoc interit. Ad nos quidem nihil pertinebit posterorum sermo; tamen etiam non sentientes colet ac frequentabit. [18] Nulli non virtus et vivo et mortuo rettulit gratiam, si modo illam bona secutus est fide, si se non exornavit et pinxit, sed idem fuit sive ex denuntiato videbatur sive inparatus ac subito. Nihil simulatio proficit; paucis inponit leviter extrinsecus inducta facies: veritas in omnem partem sui eadem est. Quae decipiunt nihil habent solidi. Tenue est mendacium: perlucet si diligenter inspexeris. Vale.


13 È bello, mio carissimo Lucilio, perseguire questo scopo, e tendervi con tutto il nostro slancio, anche se pochi, o nessuno, sono in grado di farlo. La gloria è l'ombra della virtù: la seguirà anche contro il suo volere. Ma come l'ombra a volte precede, a volte segue, oppure è alle spalle, così certe volte la gloria è davanti a noi, visibile, certe altre è dietro ed è più grande quanto più tardi arriva, una volta scomparsa l'invidia. 14 Per quanto tempo Democrito fu considerato pazzo! A fatica Socrate divenne famoso! Per quanto tempo i concittadini ignorarono Catone! Lo respinsero e ne compresero il valore solo dopo la sua morte. L'integrità e la virtù di Rutilio non sarebbero emerse se non avessero subìto un'ingiustizia: l'oltraggio le fece risplendere. Non fu forse grato alla sua sorte e non accettò volentieri l'esilio? Parlo di uomini che la fortuna ha reso celebri mentre ne subivano le angherie: ma di quanti vennero alla luce i meriti solo dopo la morte! Quanti la fama non accolse subito, ma li trasse poi fuori dall'oblio! 15 Vedi quanto è ammirato Epicuro non solo dai più dotti, ma anche dalla massa degli ignoranti! Eppure egli che viveva in disparte nei dintorni di Atene, in Atene stessa era sconosciuto. Molti anni dopo che Metrodoro era morto, celebrò in una lettera con un ricordo grato la sua amicizia con lui; alla fine aggiunse che, fra i tanti beni di cui avevano goduto, né per sé, né per Metrodoro era stato un danno che la celebre Grecia non solo non li avesse conosciuti, ma quasi non li avesse sentiti nominare. 16 Non fu scoperto forse dopo la sua morte? Non rifulse la sua fama? Anche Metrodoro in una lettera confessa che lui ed Epicuro non erano abbastanza noti, ma che dopo di loro avrebbero ottenuto grande e immediata fama gli uomini che avessero voluto calcare le loro stesse orme. 17 La virtù non rimane mai sconosciuta e l'essere stata sconosciuta non la danneggia: verrà il giorno che la riporterà alla luce dalle tenebre in cui era stata seppellita e compressa dall'invidia dei contemporanei. Chi si dà pensiero degli uomini del suo tempo, è nato per pochi. Seguiranno migliaia di anni, migliaia di generazioni: guarda a loro. Anche se l'invidia ridurrà al silenzio tutti i tuoi contemporanei, verranno i posteri a giudicarti senza risentimenti o compiacenze. Se dalla fama deriva un premio alla virtù, neppure questo andrà perduto. Non ci toccherà quello che i posteri diranno di noi; tuttavia ci onoreranno e ci celebreranno anche se non potremo sentirli. 18 La virtù ricompensa tutti o da vivi o da morti, purché la seguiamo con lealtà, senza fregiarcene o adornarcene, ma rimanendo sempre gli stessi, sia che sappiamo di essere visti, sia che veniamo colti di sorpresa, impreparati. Fingere non serve; una maschera superficiale può ingannare solo pochi: la verità è uguale in ogni sua parte. L'inganno non ha solide basi. La menzogna è uno schermo sottile: se guardi con attenzione, è trasparente. Stammi bene.


LXXX. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] Hodierno die non tantum meo beneficio mihi vaco sed spectaculi, quod omnes molestos ad sphaeromachian avocavit. Nemo inrumpet, nemo cogitationem meam inpediet, quae hac ipsa fiducia procedit audacius. Non crepabit subinde ostium, non adlevabitur velum: licebit tuto vadere, quod magis necessarium est per se eunti et suam sequenti viam. Non ergo sequor priores? facio, sed permitto mihi et invenire aliquid et mutare et relinquere; non servio illis, sed assentior.
[2] Magnum tamen verbum dixi, qui mihi silentium promittebam et sine interpellatore secretum: ecce ingens clamor ex stadio perfertur et me non excutit mihi, sed in huius ipsius rei contemplationem transfert. Cogito mecum quam multi corpora exerceant, ingenia quam pauci; quantus ad spectaculum non fidele et lusorium fiat concursus, quanta sit circa artes bonas solitudo; quam inbecilli animo sint quorum lacertos umerosque miramur. [3] Illud maxime revolvo mecum: si corpus perduci exercitatione ad hanc patientiam potest qua et pugnos pariter et calces non unius hominis ferat, qua solem ardentissimum in ferventissimo pulvere sustinens aliquis et sanguine suo madens diem ducat, quanto facilius animus conroborari possit ut fortunae ictus invictus excipiat, ut proiectus, ut conculcatus exsurgat. Corpus enim multis eget rebus ut valeat: animus ex se crescit, se ipse alit, se exercet. Illis multo cibo, multa potione opus est, multo oleo, longa denique opera: tibi continget virtus sine apparatu, sine inpensa. Quidquid facere te potest bonum tecum est. [4] Quid tibi opus est ut sis bonus? velle. Quid autem melius potes velle quam eripere te huic servituti quae omnes premit, quam mancipia quoque condicionis extremae et in his sordibus nata omni modo exuere conantur? Peculium suum, quod comparaverunt ventre fraudato, pro capite numerant: tu non concupisces quanticumque ad libertatem pervenire, qui te in illa putas natum? [5] Quid ad arcam tuam respicis? emi non potest. Itaque in tabellas vanum coicitur nomen libertatis, quam nec qui emerunt habent nec qui vendiderunt: tibi des oportet istud bonum, a te petas. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. [6] Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. [7] Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat. Ille qui in scaena latus incedit et haec resupinus dicit,
en impero Argis; regna mihi liquit Pelops, qua ponto ab Helles atque ab Ionio mari urguetur Isthmos, servus est, quinque modios accipit et quinque denarios
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1 Oggi sono libero: non tanto per merito mio, ma di uno spettacolo di pugilato che ha fatto da richiamo a tutti gli scocciatori. Nessuno farà irruzione a casa mia, nessuno verrà a interrompere le mie riflessioni, che, proprio fidando in questo, procedono più ardite. La porta non cigolerà improvvisamente, nessuno alzerà la tenda della mia stanza: potrò procedere in tutta tranquillità, e questo è necessario soprattutto per chi cammina da solo e percorre una sua strada. Non seguo, dunque, le orme dei miei predecessori? Sì, ma mi permetto di trovare, di cambiare, di tralasciare qualcosa; condivido le loro idee, senza, però esserne schiavo. 2 Ho parlato troppo, tuttavia, quando mi ripromettevo silenzio e solitudine senza scocciatori: ecco, alte grida arrivano dallo stadio: non mi distolgono dai miei pensieri, ma mi portano a esaminare proprio questo fatto. Penso tra me e me quanti sono gli uomini che esercitano il corpo e quanto pochi quelli che esercitano la mente; quanta gente accorre a un passatempo inconsistente e vano, e che deserto intorno alle scienze; che animo debole hanno quegli atleti di cui ammiriamo i muscoli e le spalle. 3 E soprattutto penso a questo: se con l'esercizio il corpo può arrivare a sopportare pugni e calci, e non di un uomo solo, se un individuo può passare un giorno intero sotto un sole a picco nella polvere rovente, perdendo sangue, quanto sarebbe più facile rinforzare l'animo in modo che riceva senza piegarsi i colpi della fortuna, che si risollevi anche atterrato e calpestato. Il corpo ha bisogno di molte cose per star bene: l'animo cresce da sé, alimenta ed esercita se stesso. Gli atleti hanno bisogno di molto cibo, molte bevande, molto olio e, infine, di un lungo esercizio: tu, invece, raggiungerai la virtù senza preparativi, senza spesa. Tutto quello che può renderti virtuoso lo hai con te. 4 Di che cosa hai bisogno per diventare virtuoso? Della volontà. Ma che cosa puoi volere di meglio che sottrarti a questa schiavitù che opprime tutti, che persino gli schiavi di infimo stato, nati in questa abiezione, tentano in ogni modo di scuotersi di dosso? Loro, per avere la libertà, sborsano quei risparmi che hanno accumulato privandosi del cibo: e tu, che ritieni di essere nato libero, non desidererai raggiungere a ogni costo la libertà? 5 Perché guardi la cassaforte? La libertà non puoi comprarla. Perciò è inutile scrivere sui documenti la parola libertà: non si può comprarla, né venderla: questo bene te lo devi donare tu stesso, devi chiederlo a te stesso. Liberati prima di tutto dalla paura della morte, che ci impone il suo giogo, e poi dalla paura della povertà. 6 Nella povertà non c'è niente di male; per rendertene conto confronta tra loro il volto dei poveri e quello dei ricchi: il povero ride più spesso e più di cuore, non ha nessuna preoccupazione nel suo intimo e, anche se gli capita qualche cruccio, passa come una nube leggera: ma l'allegria di quegli uomini che vengono definiti felici è simulata oppure gravata e corrotta da un'intima tristezza, ed è tanto più penosa perché certe volte non possono mostrare apertamente la loro infelicità, ma devono fingersi lieti anche se gli affanni rodono loro il cuore. 7 Dovrei servirmi più spesso di questo esempio, perché esprime, più efficacemente di qualsiasi altro, questa farsa della vita umana, dove ci viene assegnata una parte che recitiamo male. L'attore che avanza impettito sulla scena e a testa alta recita queste battute: Ecco comando su Argo; Pelope mi lasciò in eredità quei luoghi dove l'Istmo è battuto dall'Ellesponto e dal mare Ionio, è uno schiavo, la sua paga è di cinque moggi di farina e cinque denari
[8] Ille qui superbus atque inpotens et fiducia virium tumidus ait, quod nisi quieris, Menelae, hac dextra occides, diurnum accipit, in centunculo dormit. Idem de istis licet omnibus dicas quos supra capita hominum supraque turbam delicatos lectica suspendit: omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris. [9] Equum empturus solvi iubes stratum, detrahis vestimenta venalibus ne qua vitia corporis lateant: hominem involutum aestimas? Mangones quidquid est quod displiceat, id aliquo lenocinio abscondunt, itaque ementibus ornamenta ipsa suspecta sunt: sive crus alligatum sive brachium aspiceres, nudari iuberes et ipsum tibi corpus ostendi. [10] Vides illum Scythiae Sarmatiaeve regem insigni capitis decorum? Si vis illum aestimare totumque scire qualis sit, fasciam solve: multum mali sub illa latet. Quid de aliis loquor? si perpendere te voles, sepone pecuniam, domum, dignitatem, intus te ipse considera: nunc qualis sis aliis credis. Vale.


8 Quell'altro che superbo e tracotante, fiduciosamente orgoglioso della sua potenza, dice: Se non stai quieto, Menelao, perirai per mia mano, è pagato a giornata e dorme su un pagliericcio. Lo stesso si può dire di tutti questi effeminati che in lettiga avanzano sopra una folla di teste: la loro felicità è una commedia. Se li spogli, li disprezzerai. 9 Quando compri un cavallo vuoi che gli tolgano la gualdrappa: gli schiavi messi in vendita li fai svestire perché non nascondano qualche difetto fisico: e giudichi un uomo tutto paludato? I mercanti di schiavi cercano di nascondere le anomalie con qualche espediente, perciò chi compra diffida proprio delle bardature: se vedessi un braccio o una gamba bendati, li faresti scoprire e mettere a nudo. 10 Vedi quel re di Scizia o di Sarmazia col capo splendidamente adorno di una corona? Se vuoi giudicarlo e sapere com'è veramente, levagli il diadema: sotto si nascondono molte magagne. Ma perché parlo degli altri? Se vuoi valutare te stesso, metti da parte il denaro, la casa, la tua posizione, esaminati nell'intimo: ora ti affidi al giudizio degli altri. Stammi bene.

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