SENECA - Lettere a Lucilio Libro VIII Testo latino e traduzione

L. ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM VIII
LETTERE A LUCILIO DI SENECA VIII
Opera integrale tradotta - testo latino e relativa traduzione

LIBER OCTAVUS - LIBRO OTTAVO
LIBRO VIII - LXX. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Post longum intervallum Pompeios tuos vidi. In conspectum adulescentiae meae reductus sum; quidquid illic iuvenis feceram videbar mihi facere adhuc posse et paulo ante fecisse. [2] Praenavigavimus, Lucili, vitam et quemadmodum in mari, ut ait Vergilius noster, terraeque urbesque recedunt, sic in hoc cursu rapidissimi temporis primum pueritiam abscondimus, deinde adulescentiam, deinde quidquid est illud inter iuvenem et senem medium, in utriusque confinio positum, deinde ipsius senectutis optimos annos; novissime incipit ostendi publicus finis generis humani. [3] Scopulum esse illum putamus dementissimi: portus est, aliquando petendus, numquam recusandus, in quem si quis intra primos annos delatus est, non magis queri debet quam qui cito navigavit. Alium enim, ut scis, venti segnes ludunt ac detinent et tranquillitatis lentissimae taedio lassant, alium pertinax flatus celerrime perfert. [4] Idem evenire nobis puta: alios vita velocissime adduxit quo veniendum erat etiam cunctantibus, alios maceravit et coxit. Quae, ut scis, non semper retinenda est; non enim vivere bonum est, sed bene vivere. Itaque sapiens vivet quantum debet, non quantum potest. [5] Videbit ubi victurus sit, cum quibus, quomodo, quid acturus. Cogitat semper qualia vita, non quanta sit. [sit] Si multa occurrunt molesta et tranquillitatem turbantia, emittit se; nec hoc tantum in necessitate ultima facit, sed cum primum illi coepit suspecta esse fortuna, diligenter circumspicit numquid illic desinendum sit. Nihil existimat sua referre, faciat finem an accipiat, tardius fiat an citius: non tamquam de magno detrimento timet; nemo multum ex stilicidio potest perdere. [6] Citius mori aut tardius ad rem non pertinet, bene mori aut male ad rem pertinet; bene autem mori est effugere male vivendi periculum. Itaque effeminatissimam vocem illius Rhodii existimo, qui cum in caveam coniectus esset a tyranno et tamquam ferum aliquod animal aleretur, suadenti cuidam ut abstineret cibo, 'omnia' inquit 'homini, dum vivit, speranda sunt'. [7] Ut sit hoc verum, non omni pretio vita emenda est. Quaedam licet magna, licet certa sint, tamen ad illa turpi infirmitatis confessione non veniam: ego cogitem in eo qui vivit omnia posse fortunam, potius quam cogitem in eo qui scit mori nil posse fortunam?
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1 Ho rivisto la tua Pompei dopo molto tempo. Mi ha riportato indietro alla mia giovinezza; mi sembrava di poter ripetere tutte le mie giovanili imprese compiute là, e che fossero recenti. 2 Navigando, Lucilio, ci siamo lasciati alle spalle la vita e come in mare si allontanano paesi e città,scrive il nostro Virgilio, così in questa corsa rapidissima del tempo ci siamo lasciati dietro prima la fanciullezza, poi l'adolescenza, poi tra giovinezza e vecchiaia quell'età che confina con entrambe, poi gli anni migliori della vecchiaia; ora in ultimo comincia a mostrarsi quella che è la fine comune di tutti gli uomini. 3 A noi, nella nostra immensa stupidità, appare come uno scoglio: e invece, è un porto: non lo si deve mai evitare, anzi talvolta bisogna cercarlo, e se uno ci arriva nei primi anni della vita, non se ne lamenti, come non si lamenta chi ha portato a termine con rapidità la sua traversata per mare. Uno, lo sai, è trattenuto da venti deboli che si prendono gioco di lui e lo stancano con una bonaccia tenace ed esasperante; un altro, invece, un soffio costante lo trasporta a gran velocità. 4 Pensa che per noi è lo stesso: alcuni la vita li porta molto rapidamente a quella meta, che, anche temporeggiando, dovevano raggiungere, altri li snerva e li fiacca. Non sempre, lo sai, la vita va conservata: il bene non consiste nel vivere, ma nel vivere bene. Perciò il saggio vivrà non quanto può ma quanto deve. 5 E considererà dove vivere, con chi, in che modo, e quale attività svolgere. Egli bada sempre alla qualità, non alla lunghezza della vita. Se le avversità che gli si presentano sono tante e turbano la sua serenità, si libera e non aspetta di trovarsi alle strette: non appena comincia a sospettare della sorte, considera seriamente se non sia il momento di farla finita. Non ritiene importante cercare la morte o accoglierla, morire prima o poi: non teme la morte come un grave danno: uno stillicidio non causa a nessuno grandi perdite. 6 Non importa morire presto o tardi, ma morire bene o male; morire bene significa sfuggire al pericolo di vivere male. Giudico, perciò vilissime le parole di quel famoso rodiese, che, gettato dal re in una gabbia e nutrito come una fiera, rispose a uno che gli consigliava di non toccare cibo: "Finché c'è vita, c'è speranza". 7 Se anche fosse vero, non ci si deve comprare la vita a qualunque prezzo. Ammettiamo pure che si offrano beni cospicui e sicuri, io non vorrei ottenerli con una vergognosa professione di viltà: dovrei pensare che la fortuna ha pieni poteri su chi è in vita e non che è impotente contro chi sa morire?
[8] Aliquando tamen, etiam si certa mors instabit et destinatum sibi supplicium sciet, non commodabit poenae suae manum: sibi commodaret. Stultitia est timore mortis mori: venit qui occidat, exspecta. Quid occupas? quare suscipis alienae crudelitatis procurationem? utrum invides carnifici tuo an parcis? [9] Socrates potuit abstinentia finire vitam et inedia potius quam veneno mori; triginta tamen dies in carcere et in exspectatione mortis exegit, non hoc animo tamquam omnia fieri possent, tamquam multas spes tam longum tempus reciperet, sed ut praeberet se legibus, ut fruendum amicis extremum Socraten daret. Quid erat stultius quam mortem contemnere, venenum timere? [10] Scribonia, gravis femina, amita Drusi Libonis fuit, adulescentis tam stolidi quam nobilis, maiora sperantis quam illo saeculo quisquam sperare poterat aut ipse ullo. Cum aeger a senatu in lectica relatus esset non sane frequentibus exsequis - omnes enim necessarii deseruerant impie iam non reum sed funus -, habere coepit consilium utrum conscisceret mortem an exspectaret. Cui Scribonia 'quid te' inquit 'delectat alienum negotium agere?' Non persuasit illi: manus sibi attulit, nec sine causa. Nam post diem tertium aut quartum inimici moriturus arbitrio si vivit, alienum negotium agit.
8 A volte, tuttavia, il saggio, anche se lo minaccia una morte sicura e sa di essere destinato alla pena capitale, non presterà la mano al suo supplizio: farebbe un piacere a se stesso. Morire per paura della morte è da insensati: il boia viene, aspettalo. Perché vuoi precederlo? Perché ti fai carico della crudeltà altrui? Invidi il tuo carnefice, oppure ne hai compassione? 9 Socrate avrebbe potuto mettere fine alla sua vita col digiuno e morire di fame invece che di veleno; eppure stette in carcere trenta giorni aspettando la morte: non pensava che ogni esito era possibile e che un periodo di tempo tanto lungo consentiva molte speranze; voleva mostrarsi obbediente alle leggi e offrire agli amici la possibilità di trarre profitto dai suoi ultimi giorni. Disprezzare la morte, ma temere il veleno non sarebbe stato l'atteggiamento più insensato? 10 Scribonia, donna austera, era zia materna di Druso Libone, un giovane nobile, ma scriteriato, che nutriva speranze irrealizzabili per chiunque in quell'epoca o per lui stesso in ogni altra. Egli, malato, venne ricondotto dal senato in lettiga; non lo accompagnavano in molti: tutti i congiunti lo avevano piantato in asso senza nessuna compassione: ormai era più un cadavere che un imputato. Cominciò a riflettere se dovesse darsi la morte o aspettarla. Gli disse Scribonia: "Che gioia ti dà sbrigare una faccenda che tocca ad altri?" Non lo persuase: egli si suicidò e a ragione. Se uno è destinato a morire entro tre o quattro giorni ad arbitrio del suo nemico, se vive, sbriga proprio una faccenda d'altri.
[11] Non possis itaque de re in universum pronuntiare, cum mortem vis externa denuntiat, occupanda sit an exspectanda; multa enim sunt quae in utramque partem trahere possunt. Si altera mors cum tormento, altera simplex et facilis est, quidni huic inicienda sit manus? Quemadmodum navem eligam navigaturus et domum habitaturus, sic mortem exiturus e vita. [12] Praeterea quemadmodum non utique melior est longior vita, sic peior est utique mors longior. In nulla re magis quam in morte morem animo gerere debemus. Exeat qua impetum cepit: sive ferrum appetit sive laqueum sive aliquam potionem venas occupantem, pergat et vincula servitutis abrumpat. Vitam et aliis approbare quisque debet, mortem sibi: optima est quae placet. [13] Stulte haec cogitantur: 'aliquis dicet me parum fortiter fecisse, aliquis nimis temere, aliquis fuisse aliquod genus mortis animosius'. Vis tu cogitare id in manibus esse consilium ad quod fama non pertinet! Hoc unum intuere, ut te fortunae quam celerrime eripias; alioquin aderunt qui de facto tuo male existiment.
11 Quando una forza esterna minaccia la morte, si deve aspettare o prevenirla? Non si può stabilire una regola generale; molte sono le circostanze che possono fare propendere per l'una o per l'altra decisione. Se l'alternativa è una morte fra atroci sofferenze oppure una morte naturale e facile, perché non approfittare di quest'ultima? Come scelgo la nave, se devo andare per mare, e la casa in cui vivere, così sceglierò la morte quando dovrò lasciare questa vita. 12 E poi, una vita più lunga non è necessariamente migliore, ma una morte attesa più a lungo è senz'altro peggiore. In nessuna cosa più che nella morte siamo tenuti ad obbedire alla volontà dell'anima. Esca per quella strada che ha preso di slancio: sia che cerchi una spada o un cappio o un veleno che scorre nelle vene, avanzi decisa e spezzi le catene della sua schiavitù. La vita ognuno di noi deve renderla accettabile anche agli altri, la morte solo a se stesso: quella che riesce gradita è la migliore. 13 È insensato pensare: "Qualcuno dirà che ho agito da vigliacco, qualcuno con troppa sconsideratezza, qualcun altro che c'era un genere di morte più eroico." Vuoi convincerti che si tratta di una decisione in cui non bisogna tenere conto dell'opinione altrui! Bada a una sola cosa: a sottrarti nel modo più rapido al capriccio della sorte; del resto ci sarà sempre qualcuno pronto a criticare il tuo gesto.
[14] Invenies etiam professos sapientiam qui vim afferendam vitae suae negent et nefas iudicent ipsum interemptorem sui fieri: exspectandum esse exitum quem natura decrevit. Hoc qui dicit non videt se libertatis viam cludere: nihil melius aeterna lex fecit quam quod unum introitum nobis ad vitam dedit, exitus multos. [15] Ego exspectem vel morbi crudelitatem vel hominis, cum possim per media exire tormenta et adversa discutere ? Hoc est unum cur de vita non possimus queri: neminem tenet. Bono loco res humanae sunt, quod nemo nisi vitio suo miser est. Placet? vive: non placet? licet eo reverti unde venisti. [16] Ut dolorem capitis levares, sanguinem saepe misisti; ad extenuandum corpus vena percutitur. Non opus est vasto vulnere dividere praecordia: scalpello aperitur ad illam magnam libertatem via et puncto securitas constat. Quid ergo est quod nos facit pigros inertesque? Nemo nostrum cogitat quandoque sibi ex hoc domicilio exeundum; sic veteres inquilinos indulgentia loci et consuetudo etiam inter iniurias detinet. [17] Vis adversus hoc corpus liber esse? tamquam migraturus habita. Propone tibi quandoque hoc contubernio carendum: fortior eris ad necessitatem exeundi. Sed quemadmodum suus finis veniet in mentem omnia sine fine concupiscentibus? [18] Nullius rei meditatio tam necessaria est; alia enim fortasse exercentur in supervacuum. Adversus paupertatem praeparatus est animus: permansere divitiae. Ad contemptum nos doloris armavimus: numquam a nobis exegit huius virtutis experimentum integri ac sani felicitas corporis. Ut fortiter amissorum desideria pateremur praecepimus nobis: omnis quos amabamus superstites fortuna servavit. [19] Huius unius rei usum qui exigat dies veniet. Non est quod existimes magnis tantum viris hoc robur fuisse quo servitutis humanae claustra perrumperent; non est quod iudices hoc fieri nisi a Catone non posse, qui quam ferro non emiserat animam manu extraxit: vilissimae sortis homines ingenti impetu in tutum evaserunt, cumque e commodo mori non licuisset nec ad arbitrium suum instrumenta mortis eligere, obvia quaeque rapuerunt et quae natura non erant noxia vi sua tela fecerunt. [20] Nuper in ludo bestiariorum unus e Germanis, cum ad matutina spectacula pararetur, secessit ad exonerandum corpus - nullum aliud illi dabatur sine custode secretum; ibi lignum id quod ad emundanda obscena adhaerente spongia positum est totum in gulam farsit et interclusis faucibus spiritum elisit. Hoc fuit morti contumeliam facere. Ita prorsus, parum munde et parum decenter: quid est stultius quam fastidiose mori? [21] O virum fortem, o dignum cui fati daretur electio! Quam fortiter ille gladio usus esset, quam animose in profundam se altitudinem maris aut abscisae rupis immisisset! Undique destitutus invenit quemadmodum et mortem sibi deberet et telum, ut scias ad moriendum nihil aliud in mora esse quam velle. Existimetur de facto hominis acerrimi ut cuique visum erit, dum hoc constet, praeferendam esse spurcissimam mortem servituti mundissimae.
14 Troverai anche uomini che hanno fatto professione di saggezza e sostengono che non si debba fare violenza a se stessi; per loro il suicidio è un delitto: bisogna aspettare il termine fissato dalla natura. Non si accorgono che in questo modo si precludono la via della libertà? Averci dato un solo ingresso alla vita, ma diverse vie di uscita è quanto di meglio abbia stabilito la legge divina. 15 Dovrei aspettare la crudeltà di una malattia o di un uomo, quando posso invece sottrarmi ai tormenti e stroncare le avversità? Ecco l'unico motivo per cui non possiamo lamentarci della vita: non trattiene nessuno. La condizione dell'uomo poggia su buone basi: nessuno è infelice se non per sua colpa. Ti piace vivere? Vivi; se no, puoi tornare da dove sei venuto. 16 Contro il mal di testa sei spesso ricorso a un salasso; si apre una vena per diminuire la pressione del sangue. Non è necessario squarciarsi il petto con una vasta ferita: è sufficiente un bisturi ad aprire la via a quella famosa grande libertà: la serenità dipende da un forellino. Cos'è, allora, che ci rende indolenti e inetti? Prima o poi dovremo lasciare questa dimora, ma nessuno di noi lo pensa. Ci comportiamo come inquilini di vecchia data che l'abitudine e l'attaccamento al posto trattiene anche in mezzo ai disagi. 17 Vuoi essere indipendente dal corpo? Abitalo come se stessi per trasferirti. Tienilo presente: questa convivenza verrà a mancare, prima o poi: sarai più forte di fronte alla necessità di andartene. Ma se uno non ha limiti in tutti i suoi desideri come potrà venirgli in mente il pensiero della propria fine? 18 Non c'è cosa su cui si debba meditare come sulla morte; per altre evenienze ci si esercita forse inutilmente. Lo spirito si è preparato alla povertà: e invece, siamo rimasti ricchi. Ci siamo armati per disprezzare il dolore: e invece, il nostro corpo si è mantenuto fortunatamente integro e sano e non ha mai richiesto che mettessimo alla prova questa virtù. Ci siamo preparati a sopportare da forti il rimpianto di cari perduti; e invece, il destino ha tenuto in vita tutti quelli che amavamo. 19 La meditazione della morte è l'unica che un giorno dovrà essere messa in pratica. Non pensare che solo i grandi uomini abbiano avuto la forza di spezzare le catene della schiavitù umana; Catone strappò con le sue mani l'anima che non era riuscito a gittar fuori con la spada; non credere che possa farlo lui solo: uomini di infima condizione sociale si sono messi in salvo con straordinario impeto e, non potendo morire a loro agio e nemmeno scegliere il mezzo che volevano per darsi la morte, hanno afferrato quello che capitava sotto mano e con la loro violenza hanno tramutato in armi oggetti di per sé innocui. 20 Non molto tempo fa, durante i combattimenti tra gladiatori e bestie feroci, uno dei Germani, mentre si preparava per gli spettacoli del mattino, si appartò per evacuare gli intestini. Era l'unico momento in cui gli fosse concesso stare solo senza essere sorvegliato: lì c'era un bastone con attaccata una spugna per pulire gli escrementi: se lo cacciò in gola e morì soffocato. Uno sfregio alla morte. Proprio così, in maniera immonda e indecente: fare gli schizzinosi davanti alla morte è la cosa più stupida. 21 Che uomo forte, degno di poter scegliere il proprio destino! Con quanta fermezza avrebbe usato la spada, con quanto coraggio si sarebbe gettato negli abissi del mare o in un burrone. Era privo di ogni mezzo, eppure trovò il modo e l'arma per uccidersi; la mancanza di volontà è il solo ostacolo alla morte: egli ce lo dimostra. Ognuno giudichi come crede l'azione di quest'uomo indomito, ma sia chiaro: alla schiavitù più pulita è preferibile la morte più sozza.
[22] Quoniam coepi sordidis exemplis uti, perseverabo; plus enim a se quisque exiget, si viderit hanc rem etiam a contemptissimis posse contemni. Catones Scipionesque et alios quos audire cum admiratione consuevimus supra imitationem positos putamus: iam ego istam virtutem habere tam multa exempla in ludo bestiario quam in ducibus belli civilis ostendam. [23] Cum adveheretur nuper inter custodias quidam ad matutinum spectaculum missus, tamquam somno premente nutaret, caput usque eo demisit donec radiis insereret, et tamdiu se in sedili suo tenuit donec cervicem circumactu rotae frangeret; eodem vehiculo quo ad poenam ferebatur effugit. [24] Nihil obstat erumpere et exire cupienti: in aperto nos natura custodit. Cui permittit necessitas sua, circumspiciat exitum mollem; cui ad manum plura sunt per quae sese asserat, is dilectum agat et qua potissimum liberetur consideret: cui difficilis occasio est, is proximam quamque pro optima arripiat, sit licet inaudita, sit nova. Non deerit ad mortem ingenium cui non defuerit animus. [25] Vides quemadmodum extrema quoque mancipia, ubi illis stimulos adegit dolor, excitentur et intentissimas custodias fallant? Ille vir magnus est qui mortem sibi non tantum imperavit sed invenit. Ex eodem tibi munere plura exempla promisi. [26] Secundo naumachiae spectaculo unus e barbaris lanceam quam in adversarios acceperat totam iugulo suo mersit. 'Quare, quare' inquit 'non omne tormentum, omne ludibrium iamdudum effugio? quare ego mortem armatus exspecto?' Tanto hoc speciosius spectaculum fuit quanto honestius mori discunt homines quam occidere. [27] Quid ergo? quod animi perditi quoque noxiosi habent non habebunt illi quos adversus hos casus instruxit longa meditatio et magistra rerum omnium ratio? Illa nos docet fati varios esse accessus, finem eundem, nihil autem interesse unde incipiat quod venit. [28] Eadem illa ratio monet ut si licet moriaris quemadmodum potes, et quidquid obvenerit ad vim afferendam tibi invadas. Iniuriosum est rapto vivere, at contra pulcherrimum mori rapto. Vale.
22 Visto che ho cominciato con esempi sordidi, continuerò così: esigeremo di più da noi stessi, vedendo che la morte può essere disprezzata anche dagli uomini più disprezzati. Catone, Scipione e altri, i cui nomi sono abitualmente oggetto di ammirazione, li giudichiamo inimitabili: ma io ti dimostrerò che esempi di questa virtù tra i gladiatori ce ne sono quanti tra i capi della guerra civile. 23 Una mattina, poco tempo fa, un gladiatore mentre veniva trasportato sotto scorta allo spettacolo, come se gli ciondolasse la testa per il sonno, la piegò fino a infilarla tra i raggi di una ruota e rimase fermo al suo posto finché questa girando non gli spezzò l'osso del collo; con lo stesso mezzo che lo portava al supplizio vi si sottrasse. 24 Se uno vuole spezzare le catene e fuggire, non ci sono ostacoli: la natura ci custodisce in un carcere aperto. Quando le circostanze lo permettono, si cerchi una via di uscita agevole; se poi uno ha a portata di mano più possibilità di affrancarsi, faccia la sua scelta e consideri il modo migliore di liberarsi. Mancano le occasioni? Allora afferri la prima che gli capita come se fosse la migliore, anche se è strana e insolita. A chi non manca il coraggio non mancherà una strada ingegnosa verso la morte. 25 Non vedi che anche gli schiavi più umili, quando li pungola la sofferenza, prendono coraggio ed eludono anche la più stretta sorveglianza? L'uomo che non solo decide di morire, ma trova anche il modo di farlo, è grande. Ti ho promesso più esempi dello stesso genere. 26 Durante il secondo spettacolo di naumachia un barbaro si cacciò in gola tutta quanta la lancia che impugnava per combattere gli avversari. "Ma perché, perché?" disse, "non sfuggo subito a ogni tormento, a ogni umiliazione? Ho in mano un'arma, perché aspetto la morte?" Questo spettacolo fu tanto più bello quanto è più onorevole che gli uomini imparino a morire e non a uccidere. 27 E allora? Persino degli sciagurati, dei delinquenti hanno questo coraggio: e non lo avrà chi a questa evenienza è preparato da una lunga meditazione e dalla ragione, maestra di vita? Essa ci insegna che gli accessi alla morte sono numerosi, ma il punto di arrivo è lo stesso; non importa da dove cominci una cosa che arriva senz'altro. 28 La ragione stessa invita a morire, se è consentito, come ci piace, altrimenti come possiamo, e ad afferrare qualunque cosa càpiti per darci la morte. È vergognoso vivere di rapina, morire di rapina, invece, è bellissimo. Stammi bene. 
Libro VIII : LXXI. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Subinde me de rebus singulis consulis, oblitus vasto nos mari dividi. Cum magna pars consilii sit in tempore, necesse est evenire ut de quibusdam rebus tunc ad te perferatur sententia mea cum iam contraria potior est. Consilia enim rebus aptantur; res nostrae feruntur, immo volvuntur; ergo consilium nasci sub diem debet. Et hoc quoque nimis tardum est: sub manu, quod aiunt, nascatur. Quemadmodum autem inveniatur ostendam. [2] Quotiens quid fugiendum sit aut quid petendum voles scire, ad summum bonum, propositum totius vitae tuae, respice. Illi enim consentire debet quidquid agimus: non disponet singula, nisi cui iam vitae suae summa proposita est. Nemo, quamvis paratos habeat colores, similitudinem reddet, nisi iam constat quid velit pingere. Ideo peccamus quia de partibus vitae omnes deliberamus, de tota nemo deliberat. [3] Scire debet quid petat ille qui sagittam vult mittere, et tunc derigere ac moderari manu telum: errant consilia nostra, quia non habent quo derigantur; ignoranti quem portum petat nullus suus ventus est. Necesse est multum in vita nostra casus possit, quia vivimus casu. [4] Quibusdam autem evenit ut quaedam scire se nesciant; quemadmodum quaerimus saepe eos cum quibus stamus, ita plerumque finem summi boni ignoramus appositum. Nec multis verbis nec circumitu longo quod sit summum bonum colliges: digito, ut ita dicam, demonstrandum est nec in multa spargendum. Quid enim ad rem pertinet in particulas illud diducere? cum possis dicere 'summum bonum est quod honestum est' et, quod magis admireris, 'unum bonum est quod honestum est, cetera falsa et adulterina bona sunt'. [5] Hoc si persuaseris tibi et virtutem adamaveris - amare enim parum est -, quidquid illa contigerit, id tibi, qualecumque aliis videbitur, faustum felixque erit. Et torqueri, si modo iacueris ipso torquente securior, et aegrotare, si non male dixeris fortunae, si non cesseris morbo, omnia denique quae ceteris videntur mala et mansuescent et in bonum abibunt, si super illa eminueris. Hoc liqueat, nihil esse bonum nisi honestum: et omnia incommoda suo iure bona vocabuntur quae modo virtus honestaverit. [6] Multis videmur maiora promittere quam recipit humana condicio, non immerito; ad corpus enim respiciunt. Revertantur ad animum: iam hominem deo metientur.
Erige te, Lucili virorum optime, et relinque istum ludum litterarium philosophorum qui rem magnificentissimam ad syllabas vocant, qui animum minuta docendo demittunt et conterunt: fies similis illis qui invenerunt ista, non qui docent et id agunt ut philosophia potius difficilis quam magna videatur. [7] Socrates, qui totam philosophiam revocavit ad mores et hanc summam dixit esse sapientiam, bona malaque distinguere, 'sequere' inquit 'illos, si quid apud te habeo auctoritatis, ut sis beatus, et te alicui stultum videri sine. Quisquis volet tibi contumeliam faciat et iniuriam, tu tamen nihil patieris, si modo tecum erit virtus. Si vis inquit 'beatus esse, si fide bona vir bonus, sine contemnat te aliquis.' Hoc nemo praestabit nisi qui omnia prior ipse contempserit, nisi qui omnia bona exaequaverit, quia nec bonum sine honesto est et honestum in omnibus par est.
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1 Sovente mi chiedi consiglio su singoli problemi, dimenticando che ci divide un largo tratto di mare. Ma l'efficacia di un consiglio, in gran parte, consiste nell'essere tempestivo e così, inevitabilmente, il mio parere su certi argomenti ti arriva quando ormai sarebbe preferibile la decisione opposta. I consigli devono aderire alla realtà e la nostra si evolve, anzi precipita: un consiglio, quindi, deve maturare nell'arco di un giorno; anzi, anche così è troppo tardi: deve nascere, come si dice, su due piedi. Ti preciso come ci si arriva. 2 Se vuoi sapere volta per volta che cosa evitare o che cosa ricercare, guarda al sommo bene, il fine supremo di tutta la tua vita. Ogni nostra azione vi si deve accordare: se uno non ha già disposto la propria vita nel suo complesso, non potrà deciderne i particolari. Nessuno, per quanto abbia pronti i colori, può fare un quadro somigliante, se non sa già che cosa vuol dipingere. Noi tutti decidiamo su singoli episodi della nostra vita, non sulla sua totalità e questo è il nostro errore. 3 L'arciere, quando scaglia una freccia, deve sapere qual è il bersaglio e allora soltanto dirigere e regolare il colpo con la mano: i nostri consigli non fanno centro perché non hanno un bersaglio preciso; se uno non sa a quale porto dirigersi, non gli va bene nessun vento. Viviamo a caso e, perciò il caso gioca un ruolo determinante nella nostra esistenza. 4 A certi càpita addirittura di ignorare che posseggono certe nozioni; come spesso andiamo in cerca delle persone che ci sono a fianco, allo stesso modo per lo più ignoriamo che il traguardo del sommo bene è lì davanti a noi. Non occorrono molte parole o lunghe perifrasi per circoscrivere il concetto di sommo bene: si può per così dire, indicarlo con un dito senza spezzettarlo in tanti frammenti. A che serve frazionarlo in particelle, quando puoi dire: "Il sommo bene è l'onestà" e, cosa ancor più straordinaria: "L'unico bene è l'onestà, gli altri sono beni falsi e fittizi." 5 Convincitene e ama appassionatamente la virtù (amarla sarebbe troppo poco): comunque la pensino gli altri, tutto ciò che la virtù toccherà, sarà per te prospero e felice. E la tortura, se sei più tranquillo del tuo carnefice, e l'infermità, se non maledirai la sorte, se non cederai alla malattia, insomma tutto quello che per gli altri rappresenta un male, si mitigherà e si muterà in bene, se ti porrai al di sopra di esso. Ti sia chiaro: l'unico bene è l'onestà e tutte le disgrazie, se la virtù in qualche modo le abbellisce, saranno giustamente chiamate beni. 6 Molti ritengono che promettiamo più di quanto consente la condizione umana, e non a torto; difatti guardano al corpo. Si volgano all'anima: misureranno l'uomo in base al divino. Mira a cose più alte, mio ottimo Lucilio, e abbandona questi giochetti infantili dei filosofi che riducono a sillabe una disciplina stupenda e, insegnando minuzie, scoraggiano e deprimono lo spirito: diventerai simile a chi queste cose le ha scoperte e non a chi le insegna in modo che la filosofia risulti non grande, ma difficile. 7 Socrate, che riconduce tutta la filosofia alla morale e sostiene che la massima saggezza consiste nel distinguere il bene dal male, dice: "Se godo di un po' di credito presso di te, segui le orme di quei grandi uomini e sarai felice; lascia pure che qualcuno ti giudichi uno sciocco. Ti insulti e ti offenda chi vuole: non soffrirai se ti sarà compagna la virtù. Se vuoi essere felice," sostiene, "se vuoi veramente essere uomo di solida moralità, lascia che qualcuno provi disprezzo per te." Nessuno arriverà a questi risultati senza aver prima lui stesso disprezzato ogni cosa, senza aver posto tutti i beni sullo stesso piano. Non esiste bene senza rettitudine e la rettitudine è identica in tutti i beni.
[8] 'Quid ergo? nihil interest inter praeturam Catonis et repulsam? nihil interest utrum Pharsalica acie Cato vincatur an vincat? hoc eius bonum, quo victis partibus non potest vinci, par erat illi bono quo victor rediret in patriam et componeret pacem?' Quidni par sit? eadem enim virtute et mala fortuna vincitur et ordinatur bona; virtus autem non potest maior aut minor fieri: unius staturae est. [9] 'Sed Cn. Pompeius amittet exercitum, sed illud pulcherrimum rei publicae praetextum, optimates, et prima acies Pompeianarum partium, senatus ferens arma, uno proelio profligabuntur et tam magni ruina imperii in totum dissiliet orbem: aliqua pars eius in Aegypto, aliqua in Africa, aliqua in Hispania cadet. Ne hoc quidem miserae rei publicae continget, semel ruere.' [10] Omnia licet fiant: Iubam in regno suo non locorum notitia adiuvet, non popularium pro rege suo virtus obstinatissima, Uticensium quoque fides malis fracta deficiat et Scipionem in Africa nominis sui fortuna destituat: olim provisum est ne quid Cato detrimenti caperet. [11] 'Victus est tamen.' Et hoc numera inter repulsas Catonis: tam magno animo feret aliquid sibi ad victoriam quam ad praeturam obstitisse. Quo die repulsus est lusit, qua nocte periturus fuit legit; eodem loco habuit praetura et vita excidere; omnia quae acciderent ferenda esse persuaserat sibi.
8 "Davvero? Non c'è differenza se Catone diventa pretore o no? Se perde o vince a Farsalo? Non poter essere sconfitto nonostante la sconfitta del suo partito era per lui un bene pari a tornarsene da trionfatore in patria e ristabilire la pace?" Direi di sì. La virtù che vince la cattiva sorte e quella che regola la buona è la stessa; e la virtù non può essere più grande o più piccola. Ha sempre la stessa statura. 9 "Ma Gneo Pompeo perderà l'esercito; ma il più bell'ornamento dello stato, il patriziato, e la prima linea del partito pompeiano, il senato in armi, saranno sconfitti in una sola battaglia e le rovine di un così vasto impero si disperderanno per tutto il mondo: una parte cadrà in Egitto, una in Africa, una in Spagna. A quell'infelice repubblica non toccherà neanche questo: di crollare tutta in una volta." 10 Càpiti pure di tutto: non riesca utile a Giuba nel suo regno la conoscenza del territorio, e nemmeno il valore fermo di un popolo in difesa del suo re; venga a mancare anche la fedeltà degli Uticensi stroncata dalle avversità, e la fortuna, che ha sempre accompagnato il nome di Scipione, lo abbandoni in Africa. Già da un pezzo era stato provveduto che Catone non subisse nessun danno. 11 "Ma tuttavia è stato battuto." Metti in conto anche questo tra gli insuccessi di Catone: sopporterà con la stessa forza d'animo l'aver perso oggi la vittoria, ieri la pretura. Il giorno della sua sconfitta elettorale lo passò giocando a palla; e leggendo la notte in cui doveva morire. Non fece differenza tra perdere la pretura e perdere la vita; era persuaso di dover sopportare con coraggio tutte le avversità.
[12] Quidni ille mutationem rei publicae forti et aequo pateretur animo? quid enim mutationis periculo exceptum? non terra, non caelum, non totus hic rerum omnium contextus, quamvis deo agente ducatur; non semper tenebit hunc ordinem, sed illum ex hoc cursu aliquis dies deiciet. [13] Certis eunt cuncta temporibus: nasci debent, crescere, exstingui. Quaecumque supra nos vides currere et haec quibus innixi atque impositi sumus veluti solidissimis carpentur ac desinent; nulli non senectus sua est. Inaequalibus ista spatiis eodem natura dimittit: quidquid est non erit, nec peribit sed resolvetur. [14] Nobis solvi perire est; proxima enim intuemur, ad ulteriora non prospicit mens hebes et quae se corpori addixerit; alioqui fortius finem sui suorumque pateretur, si speraret, omnia illa, sic vitam mortemque per vices ire et composita dissolvi, dissoluta componi, in hoc opere aeternam artem cuncta temperantis dei verti. [15] Itaque ut M. Cato, cum aevum animo percucurrerit, dicet, 'omne humanum genus, quodque est quodque erit, morte damnatum est; omnes quae usquam rerum potiuntur urbes quaeque alienorum imperiorum magna sunt decora, ubi fuerint aliquando quaeretur et vario exitii genere tollentur: alias destruent bella, alias desidia paxque ad inertiam versa consumet et magnis opibus exitiosa res, luxus. Omnes hos fertiles campos repentini maris inundatio abscondet aut in subitam cavernam considentis soli lapsus abducet. Quid est ergo quare indigner aut doleam, si exiguo momento publica fata praecedo?' [16] Magnus animus deo pareat et quidquid lex universi iubet sine cunctatione patiatur: aut in meliorem emittitur vitam lucidius tranquilliusque inter divina mansurus aut certe sine ullo futurus incommodo, si naturae remiscebitur et revertetur in totum. Non est ergo M. Catonis maius bonum honesta vita quam mors honesta, quoniam non intenditur virtus. Idem esse dicebat Socrates veritatem et virtutem. Quomodo illa non crescit, sic ne virtus quidem: habet numeros suos, plena est.
12 E perché non avrebbe dovuto sopportare serenamente, da forte, il rivolgimento dello stato? Che cosa si sottrae al pericolo di cambiamenti? Non la terra, non il cielo, non l'intero contesto dell'universo, benché sia regolato da dio; non manterrà sempre lo stesso ordine: ma verrà un giorno che ne trasformerà il corso presente. 13 Tutti gli esseri procedono secondo tempi precisi: devono nascere, crescere, morire. I corpi celesti che vedi correre sopra di noi e la terra su cui siamo stati messi e poggiamo come se fosse solidissima, si consumeranno e finiranno; ogni cosa ha la sua vecchiaia. A intervalli che non si corrispondono la natura conduce tutti gli esseri allo stesso punto: ciò che esiste non esisterà più; ma non è destinato a finire: semplicemente si disgregherà. 14 Disgregarsi per noi significa morire; consideriamo solo le cose che abbiamo davanti agli occhi, la nostra mente ottusa e soggetta al corpo non guarda più in là. Ma sopporteremmo con maggior fermezza la morte nostra e dei nostri cari, se sperassimo che, come tutto il resto, la vita e la morte si avvicendano e la materia composta si dissolve e dissolta si ricompone: in quest'opera si svolge l'eterna attività di dio che tutto ordina. 15 E dunque, come M. Catone, riandando al passato, diremo: "È condannato a morte tutto il genere umano, sia presente che futuro; tutte le città che detengono il potere in qualche parte del mondo e quelle che sono lo splendido ornamento di imperi altrui, ci si chiederà un giorno dove si trovavano, e spariranno ciascuna con diversa fine: alcune le distruggeranno le guerre, altre le consumerà l'inerzia e una pace mutatasi in ozio, e la dissolutezza, fatale alle grandi potenze. Un'improvvisa inondazione sommergerà tutte queste fertili pianure o il suolo, sprofondando, le inghiottirà di colpo in una voragine. Perché allora dovrei sdegnarmi o dolermi se precedo di poco il destino comune? 16 Un'anima grande obbedisca a dio e si sottometta senza esitare alle norme della legge universale: o sarà avviata a un'esistenza migliore per vivere una vita più splendida e serena nel mondo divino o almeno sarà immune da ogni molestia, se si riunirà alla natura e ritornerà al tutto. La nobile vita di M. Catone non è un bene più grande della sua nobile morte: la virtù è sempre uguale a se stessa. Socrate diceva che virtù e verità coincidono. La verità non cresce, e nemmeno la virtù: ha tutte le sue parti, è completa.
[17] Non est itaque quod mireris paria esse bona, et quae ex proposito sumenda sunt et quae si ita res tulit. Nam si hanc inaequalitatem receperis ut fortiter torqueri in minoribus bonis numeres, numerabis etiam in malis, et infelicem Socraten dices in carcere, infelicem Catonem vulnera sua animosius quam fecerat retractantem, calamitosissimum omnium Regulum fidei poenas etiam hostibus servatae pendentem. Atqui nemo hoc dicere, ne ex mollissimis quidem, ausus est; negant enim illum esse beatum, sed tamen negant miserum. [18] Academici veteres beatum quidem esse etiam inter hos cruciatus fatentur, sed non ad perfectum nec ad plenum, quod nullo modo potest recipi: nisi beatus est, in summo bono non est. Quod summum bonum est supra se gradum non habet, si modo illi virtus inest, si illam adversa non minuunt, si manet etiam comminuto corpore incolumis: manet autem. Virtutem enim intellego animosam et excelsam, quam incitat quidquid infestat. [19] Hunc animum, quem saepe induunt generosae indolis iuvenes quos alicuius honestae rei pulchritudo percussit, ut omnia fortuita contemnant, profecto sapientia [non] infundet et tradet; persuadebit unum bonum esse quod honestum, hoc nec remitti nec intendi posse, non magis quam regulam qua rectum probari solet flectes. Quidquid ex illa mutaveris iniuria est recti. [20] Idem ergo de virtute dicemus: et haec recta est, flexuram non recipit; [rigidari quidem amplius intendi potest]. Haec de omnibus rebus iudicat, de hac nulla. Si rectior ipsa non potest fieri, ne quae ab illa quidem fiunt alia aliis rectiora sunt; huic enim necesse est respondeant; ita paria sunt.
17 Non c'è, dunque, da stupirsi che i beni siano uguali, sia quelli che bisogna cercare di proposito, sia quelli che ci portano le circostanze. Se ammetterai una disparità tra i beni, e subire da forti la tortura lo giudicherai un bene minore, finirai anche per calcolarlo tra i mali e definirai infelice Socrate in carcere e infelice Catone che riaprì le sue ferite con più coraggio di quello con cui se le era inferte, e più sventurato di tutti Regolo, che pagò il prezzo di un giuramento rispettato anche nei confronti dei nemici. Ma nessuno, neppure l'individuo meno virile, ha osato affermare questo; non dicono che lui sia stato felice, ma neppure che sia stato infelice. 18 I filosofi della antica Accademia ammettono che uno può essere felice anche tra i supplizi, ma non in maniera completa, totale; una tesi assolutamente inaccettabile: se uno non è felice, non possiede il sommo bene. Il sommo bene è al culmine della scala dei valori, purché in esso sia insita la virtù, e non la indeboliscano le avversità e rimanga intatta anche quando il corpo è fatto a pezzi: e tale rimane. Mi riferisco a quella virtù coraggiosa ed eccelsa, che è spronata da qualunque avversità. 19 È la virtù a trasmetterci e a infonderci questo coraggio: spesso lo hanno i giovani di temperamento generoso, colpiti dalla bellezza di una nobile azione al punto da disprezzare tutto ciò che è dovuto al caso; la saggezza è in grado di convincerci che esiste un solo bene e cioè la virtù e che non si può né tenderla, né allentarla, come non si può piegare la riga con cui si controlla se una linea è retta. Qualunque modifica apporti deformi la linea retta. 20 Della virtù possiamo dire lo stesso: anch'essa è retta e non ammette storture: può certo, diventare più rigida, ma ‹non› tendersi maggiormente. È giudice di tutto, ma non ha giudici. E se non può diventare più diritta di quanto è, neppure le azioni che ne derivano conoscono gradi differenziati di dirittura; devono necessariamente corrisponderle e, dunque, sono uguali.
[21] 'Quid ergo?' inquis 'iacere in convivio et torqueri paria sunt?' Hoc mirum videtur tibi? illud licet magis admireris: iacere in convivio malum est, iacere in eculeo bonum est, si illud turpiter, hoc honeste fit. Bona ista aut mala non efficit materia sed virtus; haec ubicumque apparuit, omnia eiusdem mensurae ac pretii sunt. [22] In oculos nunc mihi manus intentat ille qui omnium animum aestimat ex suo, quod dicam paria bona esse honeste iudicantis quod dicam paria bona esse eius qui triumphat et eius qui ante currum vehitur invictus animo. Non putant enim fieri quidquid facere non possunt; ex infirmitate sua ferunt de virtute sententiam. [23] Quid miraris si uri, vulnerari, occidi, alligari iuvat, aliquando etiam libet? Luxurioso frugalitas poena est, pigro supplicii loco labor est, delicatus miseretur industrii, desidioso studere torqueri est: eodem modo haec ad quae omnes imbecilli sumus dura atque intoleranda credimus, obliti quam multis tormentum sit vino carere aut prima luce excitari. Non ista difficilia sunt natura, sed nos fluvidi et enerves. [24] Magno animo de rebus magnis iudicandum est; alioqui videbitur illarum vitium esse quod nostrum est. Sic quaedam rectissima, cum in aquam demissa sunt, speciem curvi praefractique visentibus reddunt. Non tantum quid videas, sed quemadmodum, refert: animus noster ad vera perspicienda caligat. [25] Da mihi adulescentem incorruptum et ingenio vegetum: dicet fortunatiorem sibi videri qui omnia rerum adversarum onera rigida cervice sustollat, qui supra fortunam exstet. Non est mirum in tranquillitate non concuti: illud mirare, ibi extolli aliquem ubi omnes deprimuntur, ibi stare ubi omnes iacent. [26] Quid est in tormentis, quid est in aliis quae adversa appellamus mali? hoc, ut opinor, succidere mentem et incurvari et succumbere. Quorum nihil sapienti viro potest evenire: stat rectus sub quolibet pondere. Nulla illum res minorem facit; nihil illi eorum quae ferenda sunt displicet. Nam quidquid cadere in hominem potest in se cecidisse non queritur. Vires suas novit; scit se esse oneri ferendo. [27] Non educo sapientem ex hominum numero nec dolores ab illo sicut ab aliqua rupe nullum sensum admittente summoveo. Memini ex duabus illum partibus esse compositum: altera est irrationalis, haec mordetur, uritur, dolet; altera rationalis, haec inconcussas opiniones habet, intrepida est et indomita. In hac positum est summum illud hominis bonum. Antequam impleatur, incerta mentis volutatio est; cum vero perfectum est, immota illi stabilitas est. [28] Itaque inchoatus et ad summa procedens cultorque virtutis, etiam si appropinquat perfecto bono sed ei nondum summam manum imposuit, ibit interim cessim et remittet aliquid ex intentione mentis; nondum enim incerta transgressus est, etiam nunc versatur in lubrico. Beatus vero et virtutis exactae tunc se maxime amat cum fortissime expertus est, et metuenda ceteris, si alicuius honesti officii pretia sunt, non tantum fert sed amplexatur multoque audire mavult 'tanto melior' quam 'tanto felicior'.
21 "E allora?" ribatti, "starsene a banchetto ed essere torturati è lo stesso?" Ti stupisci? Di questo dovresti stupirti di più: stare a banchetto è un male, essere sottoposti a tortura è un bene, se lì prevale un atteggiamento vergognoso e qui uno nobile. Non sono le occasioni, ma la virtù a rendere le azioni buone o malvagie; dovunque si mostri, tutto diventa della stessa misura e valore. 22 A questo punto, uno che giudica l'anima di tutti gli altri in base alla sua vorrebbe cavarmi gli occhi perché sostengo che, per chi giudica con onestà, sono pari i beni di chi celebra il trionfo e di chi precede il carro trionfale come prigioniero, ma con animo invitto. Gente come quell'individuo non ritiene possibili azioni che non è in grado di compiere: esprime un giudizio sulla virtù in base alla propria debolezza. 23 Perché ti stupisci se venir bruciati, feriti, uccisi, gettati in catene può essere gradito, anzi addirittura può piacere? Per chi ama il lusso, la frugalità è una pena, per il pigro la fatica è un supplizio, chi è abituato alle mollezze compatisce l'uomo attivo, per l'indolente applicarsi è un tormento. Allo stesso modo ci sembrano gravose e intollerabili quelle azioni che nessuno di noi è in grado di compiere e dimentichiamo per quanta gente è un tormento non avere vino o alzarsi all'alba. Non sono azioni in sé gravose, siamo noi fragili e senza nerbo. 24 Bisogna giudicare le grandi cose con animo grande; altrimenti attribuiremo ad esse il difetto che invece è in noi. Così se guardiamo un pezzo di legno perfettamente diritto, immerso nell'acqua, ci sembra curvo e spezzato. Non ha importanza che cosa guardi, ma come guardi: la nostra mente si ottenebra nello scrutare la verità. 25 Prendi un giovane incorrotto e di intelligenza vivace: dirà che giudica più felice chi sostiene a testa alta tutto il peso delle avversità, chi si erge al di sopra della fortuna. Non c'è niente di strano a non essere scossi quando tutto è tranquillo: ma ti deve meravigliare se uno si solleva quando tutti sono proni, se sta saldo in piedi quando tutti giacciono a terra. 26 Qual è il male nei tormenti e in quelle che definiamo avversità? Questo, a mio parere: lo spirito si lascia abbattere, si piega e soccombe. A un saggio, però questo non potrà mai capitare: rimane diritto sotto qualsiasi peso. Niente lo può diminuire; nessuno dei patimenti che deve subire gli riesce sgradito. Non si lamenta se gli piomba addosso tutto quello che può piombare addosso a un uomo. È consapevole delle sue forze; sa di essere nato per portare un peso. 27 Non faccio del saggio un'eccezione rispetto agli altri uomini, non gli nego il dolore, come se fosse una roccia priva di sensibilità. So bene che egli è formato di due parti; una è irrazionale: sente i tormenti, il fuoco, soffre; l'altra razionale: è salda nelle sue convinzioni, intrepida e indomabile. In questa sta il sommo bene dell'uomo. Finché non raggiunge la sua pienezza, la mente oscilla incerta, ma quando il sommo bene è perfetto, per essa c'è una stabilità incrollabile. 28 Perciò quando uno comincia ad avanzare verso la vetta e pratica la virtù, anche se si avvicina al sommo bene, finché non ne entra in possesso, farà talvolta qualche passo indietro e la sua volontà di arrivare potrà in parte allentarsi: non ha ancòra superato i tratti difficili e si trova su un terreno scivoloso. Ma l'uomo felice che ha raggiunto la piena virtù è tanto più soddisfatto di sé quanto più duramente è stato messo alla prova; quello che gli altri temono, se è il prezzo dovuto per un'azione onorevole, non solo lo sopporta, ma lo abbraccia e preferisce di gran lunga sentirsi dire: "Sei grande", invece che: "Sei fortunato".
[29] Venio nunc illo quo me vocat exspectatio tua. Ne extra rerum naturam vagari virtus nostra videatur, et tremet sapiens et dolebit et expallescet; hi enim omnes corporis sensus sunt. Ubi ergo calamitas, ubi illud malum verum est? illic scilicet, si ista animum detrahunt, si ad confessionem servitutis adducunt, si illi paenitentiam sui faciunt. [30] Sapiens quidem vincit virtute fortunam, at multi professi sapientiam levissimis nonnumquam minis exterriti sunt. Hoc loco nostrum vitium est, qui idem a sapiente exigimus et a proficiente. Suadeo adhuc mihi ista quae laudo, nondum persuadeo; etiam si persuasissem, nondum tam parata haberem aut tam exercitata ut ad omnes casus procurrerent. [31] Quemadmodum lana quosdam colores semel ducit, quosdam nisi saepius macerata et recocta non perbibit, sic alias disciplinas ingenia, cum accepere, protinus praestant: haec, nisi alte descendit et diu sedit et animum non coloravit sed infecit, nihil ex iis quae promiserat praestat. [32] Cito hoc potest tradi et paucissimis verbis: unum bonum esse virtutem, nullum certe sine virtute, et ipsam virtutem in parte nostri meliore, id est rationali, positam. Quid erit haec virtus? iudicium verum et immotum; ab hoc enim impetus venient mentis, ab hoc omnis species quae impetum movet redigetur ad liquidum. [33] Huic iudicio consentaneum erit omnia quae virtute contacta sunt et bona iudicare et inter se paria. Corporum autem bona corporibus quidem bona sunt, sed in totum non sunt bona; his pretium quidem erit aliquod, ceterum dignitas non erit; magnis inter se intervallis distabunt: alia minora, alia maiora erunt. [34] Et in ipsis sapientiam sectantibus magna discrimina esse fateamur necesse est: alius iam in tantum profecit ut contra fortunam audeat attollere oculos, sed non pertinaciter - cadunt enim nimio splendore praestricti -, alius in tantum ut possit cum illa conferre vultum, nisi iam pervenit ad summum et fiduciae plenus est. [35] Imperfecta necesse est labent et modo prodeant, modo sublabantur aut succidant. Sublabentur autem, nisi ire et niti perseveraverint; si quicquam ex studio et fideli intentione laxaverint, retro eundum est. Nemo profectum ibi invenit ubi reliquerat.
29 Vengo ora alla questione su cui aspetti il mio parere. Perché la nostra virtù non sembri una dote soprannaturale, aggiungo che anche il saggio è soggetto ad aver paura, a soffrire, a impallidire; sono tutte sensazioni fisiche. Quando, allora, sono reali disgrazie, veri mali? Evidentemente quando mortificano l'anima e la portano a dichiararsi schiava e le fanno sentire disgusto di sé. 30 Il saggio vince la fortuna con la virtù, ma molti che si professano saggi sono spesso atterriti da minacce del tutto trascurabili. In questo consiste il nostro errore: nell'esigere lo stesso comportamento dal saggio e dal neofita. La condotta che lodo, vorrei tenerla, ma non ne sono ancòra persuaso e, se anche ne fossi persuaso, non sarei ancòra pronto ed esercitato al punto da affrontare ogni evenienza. 31 Certi colori la lana li assume con un solo bagno, altri, invece, li assorbe solo dopo essere stata a mollo e fatta bollire più volte; così ci sono insegnamenti che il cervello incamera sùbito, appena li riceve. La saggezza, invece, se non penetra in profondità e non sedimenta a lungo, e colora, ma non impregna, l'anima, non mantiene nessuna delle sue promesse. 32 Questo concetto si può anche esprimere in breve con pochissime parole: la virtù è l'unico bene, non esiste nessun bene senza la virtù e la virtù risiede nella parte migliore di noi, quella razionale. Che cos'è, dunque, questa virtù? Una vera e salda capacità di giudizio; ne provengono gli impulsi della mente ed essa darà chiarezza ad ogni immagine che suscita un impulso. 33 Giudicare come beni e uguali tra loro tutti quelli che sono in rapporto con la virtù sarà conseguente a questa capacità di giudizio. I beni fisici sono beni per il corpo, ma non sono tali in senso lato; avranno in sé un valore materiale, ma non spirituale. Ci sarà tra loro una grande differenza: alcuni saranno più piccoli, altri più grandi. 34 Dobbiamo ammettere che anche fra i seguaci della saggezza ci sono grandi differenze: uno ha fatto progressi tali da levare gli occhi contro la sorte; ma non resiste e abbassa lo sguardo accecato dall'eccessivo splendore; un altro è avanzato tanto che può fronteggiarla, se non è già arrivato alla vetta ed è pieno di fiducia in se stesso. 35 È inevitabile che gli esseri imperfetti cadano, avanzino, scivolino indietro, soccombano. Ma scivoleranno, se non persevereranno nello sforzo di andare avanti; se allenteranno l'impegno e la tenacia dei loro propositi, dovranno arretrare. Chi demorde, rinuncia ai progressi fatti.
[36] Instemus itaque et perseveremus; plus quam profligavimus restat, sed magna pars est profectus velle proficere. Huius rei conscius mihi sum: volo et mente tota volo. Te quoque instinctum esse et magno ad pulcherrima properare impetu video. Properemus: ita demum vita beneficium erit; alioquin mora est, et quidem turpis inter foeda versantibus. Id agamus ut nostrum omne tempus sit; non erit autem, nisi prius nos nostri esse coeperimus. [37] Quando continget contemnere utramque fortunam, quando continget omnibus oppressis affectibus et sub arbitrium suum adductis hanc vocem emittere 'vici'? Quem vicerim quaeris? Non Persas nec extrema Medorum nec si quid ultra Dahas bellicosum iacet, sed avaritiam, sed ambitionem, sed metum mortis, qui victores gentium vicit. Vale.
36 Insistiamo e perseveriamo, dunque; non siamo nemmeno a mezza strada, ma i progressi in gran parte consistono nella volontà di progredire. Di questo sono conscio: voglio e voglio con tutto me stesso. Anche tu, lo vedo, provi questi impulsi, uno straordinario slancio verso le mete più belle. Affrettiamoci: solo a questa condizione la vita sarà un beneficio; altrimenti è solo una perdita di tempo e per giunta spregevole, per chi vive in mezzo alle miserie. Comportiamoci in modo che il tempo sia tutto nostro; ma perché lo sia, dobbiamo prima cominciare a essere padroni di noi stessi. 37 Quando ci avverrà di disprezzare la buona e la cattiva sorte, di sedare tutte le passioni riducendole in nostro dominio, di esclamare: "Ho vinto"? Chi? Mi chiederai. Non certo i Persiani, e nemmeno i lontanissimi Medi o le genti bellicose che abitano oltre i Dai, ma l'avarizia, l'ambizione, il timore della morte: anche i grandi conquistatori ne sono stati vinti. Stammi bene.
LIBRO VIII - LXXII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Quod quaeris a me liquebat mihi - sic rem edidiceram - per se; sed diu non retemptavi memoriam meam, itaque non facile me sequitur. Quod evenit libris situ cohaerentibus, hoc evenisse mihi sentio: explicandus est animus et quaecumque apud illum deposita sunt subinde excuti debent, ut parata sint quotiens usus exegerit. Ergo hoc in praesentia differamus; multum enim operae, multum diligentiae poscit. Cum primum longiorem eodem loco speravero moram, tunc istud in manus sumam. [2] Quaedam enim sunt quae possis et in cisio scribere, quaedam lectum et otium et secretum desiderant. Nihilominus his quoque occupatis diebus agatur aliquid et quidem totis. Numquam enim non succedent occupationes novae: serimus illas, itaque ex una exeunt plures. Deinde ipsi nobis dilationem damus: 'cum hoc peregero, toto animo incumbam' et 'si hanc rem molestam composuero, studio me dabo'. [3] Non cum vacaveris philosophandum est, sed ut philosopheris vacandum est; omnia alia neglegenda ut huic assideamus, cui nullum tempus satis magnum est, etiam si a pueritia usque ad longissimos humani aevi terminos vita producitur. Non multum refert utrum omittas philosophiam an intermittas; non enim ubi interrupta est manet, sed eorum more quae intenta dissiliunt usque ad initia sua recurrit, quod a continuatione discessit. Resistendum est occupationibus, nec explicandae sed summovendae sunt. Tempus quidem nullum est parum idoneum studio salutari; atqui multi inter illa non student propter quae studendum est. [4] 'Incidet aliquid quod impediat.' Non quidem eum cuius animus in omni negotio laetus atque alacer est: imperfectis adhuc interscinditur laetitia, sapientis vero contexitur gaudium, nulla causa rumpitur, nulla fortuna; semper et ubique tranquillus est. Non enim ex alieno pendet nec favorem fortunae aut hominis exspectat. Domestica illi felicitas est; exiret ex animo si intraret: ibi nascitur. [5] Aliquando extrinsecus quo admoneatur mortalitatis intervenit, sed id leve et quod summam cutem stringat. Aliquo, inquam, incommodo afflatur; maximum autem illud bonum fixum est. Ita dico, extrinsecus aliqua sunt incommoda, velut in corpore interdum robusto solidoque eruptiones quaedam pustularum et ulcuscula, nullum in alto malum est. [6] Hoc, inquam, interest inter consummatae sapientiae virum et alium procedentis quod inter sanum et ex morbo gravi ac diutino emergentem, cui sanitatis loco est levior accessio: hic nisi attendit, subinde gravatur et in eadem revolvitur, sapiens recidere non potest, ne incidere quidem amplius. Corpori enim ad tempus bona valetudo est, quam medicus, etiam si reddidit, non praestat - saepe ad eundem qui advocaverat excitatur: semel in totum sanatur. [7] Dicam quomodo intellegas sanum: si se ipse contentus est, si confidit sibi, si scit omnia vota mortalium, omnia beneficia quae dantur petunturque, nullum in beata vita habere momentum. Nam cui aliquid accedere potest, id imperfectum est; cui aliquid abscedere potest, id imperpetuum est: cuius perpetua futura laetitia est, is suo gaudeat. Omnia autem quibus vulgus inhiat ultro citroque fluunt: nihil dat fortuna mancipio. Sed haec quoque fortuita tunc delectant cum illa ratio temperavit ac miscuit haec est quae etiam externa commendet, quorum avidis usus ingratus est. [8] Solebat Attalus hac imagine uti: 'vidisti aliquando canem missa a domino frusta panis aut carnis aperto ore captantem? quidquid excepit protinus integrum devorat et semper ad spem venturi hiat. Idem evenit nobis: quidquid exspectantibus fortuna proiecit, id sine ulla voluptate demittimus statim, ad rapinam alterius erecti et attoniti.' Hoc sapienti non evenit: plenus est; etiam si quid obvenit, secure excipit ac reponit; laetitia fruitur maxima, continua, sua. [9] Habet aliquis bonam voluntatem, habet profectum, sed cui multum desit a summo: hic deprimitur alternis et extollitur ac modo in caelum allevatur, modo defertur ad terram. Imperitis ac rudibus nullus praecipitationis finis est; in Epicureum illud chaos decidunt, inane sine termino. [10] Est adhuc genus tertium eorum qui sapientiae alludunt, quam non quidem contigerunt, in conspectu tamen et, ut ita dicam, sub ictu habent: hi non concutiuntur, ne defluunt quidem; nondum in sicco, iam in portu sunt. [11] Ergo cum tam magna sint inter summos imosque discrimina, cum medios quoque sequatur fluctus suus, sequatur ingens periculum ad deteriora redeundi, non debemus occupationibus indulgere. Excludendae sunt: si semel intraverint, in locum suum alias substituent. Principiis illarum obstemus: melius non incipient quam desinent. Vale.
72
1 Mi interroghi su un problema che mi era di per sé chiaro, perché lo conoscevo a fondo; ma è tanto che non ci ritorno sopra, perciò non mi è facile ricordarlo. Capita che le pagine dei libri si attacchino tra loro per un prolungato disuso: mi accorgo che a me è capitata la stessa cosa: la mente va messa a punto e tutte le cognizioni che vi si sono depositate vanno ripetutamente passate in rassegna per essere pronte ogni volta che occorre usarle. Dunque, tralasciamo per ora l'argomento: richiede molto lavoro e molta attenzione. Lo riprenderò in mano non appena potrò fermarmi per un certo tempo nello stesso posto. 2 Di talune questioni si può scrivere anche in carrozza, altre richiedono un divano, tranquillità e solitudine. E tuttavia, anche in queste giornate in cui sono totalmente assorbito da mille impegni, devo fare qualcosa. Si susseguono sempre nuove occupazioni: noi le seminiamo e perciò da una ne nascono molte. Poi ci concediamo una proroga: "Quando avrò concluso questa faccenda, mi applicherò con tutto me stesso", oppure: "Se avrò sistemato questa faccenda fastidiosa, mi dedicherò allo studio". 3 Alla filosofia non devi dedicarti quando hai tempo libero, ma aver tempo libero per dedicarti alla filosofia; dobbiamo tralasciare tutto il resto e applicarci ad essa: anche se la vita va dalla fanciullezza alla vecchiaia più avanzata, il tempo che le dedichiamo non è mai abbastanza. Non cambia molto se la filosofia la trascuri del tutto o ne interrompi lo studio; non rimane al punto in cui hai interrotto, ma, come una corda che tesa si rompe, ritorna al punto di partenza poiché è venuta a mancare la continuità. Non bisogna cedere agli impegni; non sbrigarli, liberatene. Non c'è un periodo poco adatto a uno studio proficuo; eppure c'è gente che non vi si applica, mentre lo richiederebbero proprio le cose in cui è immersa. 4 "Ma qualche ostacolo salta sempre fuori." Certamente non per un individuo costantemente contento e pronto in ogni sua attività: la contentezza viene meno se uno non ha raggiunto la perfezione, ma la gioia del saggio è costante, non c'è causa, non c'è rovescio di fortuna che la interrompa; egli è sereno sempre e dovunque. Non dipende da altri, non aspetta il favore della sorte o degli uomini. La sua felicità è interiore; potrebbe venir meno se provenisse dal di fuori: e invece gli nasce dentro. 5 A volte interviene qualche fattore esterno che gli ricorda la sua mortalità, ma ha scarso peso e lo tocca solo superficialmente; è sfiorato, insomma, da qualche fastidio, ma il sommo bene è radicato in lui. Allo stesso modo certe malattie sono superficiali, come un'eruzione cutanea o una piccola ulcera su un fisico sano e robusto: il male non ha radici profonde. 6 Tra il saggio e il neofita c'è la stessa differenza che tra un uomo sano e uno che esca da una lunga e grave malattia: a costui un attacco più leggero sembra già salute. Ma quest'ultimo, se non fa attenzione, subito si aggrava e ha una ricaduta, il saggio, invece, non può avere ricadute e neppure ammalarsi ancora. La salute del corpo è momentanea: il medico, anche se la restituisce, non può garantirla e spesso viene chiamato al capezzale di quella stessa persona che lo aveva fatto venire in precedenza: lo spirito, invece, guarisce una volta per tutte. 7 Ecco come puoi capire se è sano: se basta a se stesso, se confida in se stesso, se si rende conto che tutti i desideri degli uomini, tutti i benefici concessi e richiesti non contano per avere la felicità. Quello a cui può aggiungersi qualcosa è imperfetto; quello a cui può venire a mancare qualcosa non è eterno: chi vuole godere di una gioia perpetua gioisca del suo. Tutti i beni su cui la gente getta avidamente l'occhio vanno e vengono: la fortuna non concede il diritto di proprietà su niente. Ma quando li regola e li contempera la ragione, anche questi beni fortuiti possono dare gioia; è la ragione a conferire valore anche ai beni che provengono dall'esterno: un uso smodato finisce per essere spiacevole. 8 Attalo usava di solito questo paragone: "Hai mai visto un cane azzannare con le fauci spalancate i pezzi di pane o di carne gettati dal padrone? Divora sùbito tutto intero quello che riesce ad afferrare e se ne sta sempre a bocca aperta sperando in un successivo boccone. A noi capita lo stesso: stiamo lì in attesa, e ogni bene che ci getta la fortuna lo buttiamo giù subito senza gustarlo, attenti e ansiosi di afferrarne un altro." Al saggio questo non capita: è sazio; anche se dalla fortuna gli viene qualche dono, lo prende e lo mette da parte con calma; gode di una gioia grandissima, continua, tutta sua. 9 C'è qualcuno che ha buona volontà, fa progressi, ma è ancòra molto lontano dalla cima: costui attraversa alternativamente momenti di depressione e di esaltazione, e ora si innalza fino al cielo, ora precipita a terra. Per gli uomini ignoranti e rozzi non c'è fine alla loro caduta: precipitano nel famoso caos epicureo, un vuoto senza confini. 10 C'è poi una terza categoria: quelli che si accostano alla saggezza; non l'hanno ancora raggiunta, ci sono però davanti e la tengono, per così dire, sotto tiro: costoro non si turbano, e neppure si lasciano andare; non sono ancora approdati, ma sono ormai in porto. 11 C'è, dunque, una grande differenza tra gli uomini che sono arrivati alla vetta della saggezza e quelli che stanno in basso; anche chi è a mezza strada è trascinato dalla corrente e corre un serio pericolo di ritornare a una situazione peggiore; è per questo che non dobbiamo dar spazio alle nostre occupazioni. Chiudiamole fuori: una volta dentro, altre ne verranno al loro posto. Stronchiamole sul nascere: meglio non farle cominciare, che doverle eliminare. Stammi bene.
Libro VIII - LXXIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Errare mihi videntur qui existimant philosophiae fideliter deditos contumaces esse ac refractarios, contemptores magistratuum aut regum eorumve per quos publica administrantur. Ex contrario enim nulli adversus illos gratiores sunt, nec immerito; nullis enim plus praestant quam quibus frui tranquillo otio licet. [2] Itaque ii quibus multum ad propositum bene vivendi confert securitas publica necesse est auctorem huius boni ut parentem colant, multo quidem magis quam illi inquieti et in medio positi, qui multa principibus debent sed multa et imputant, quibus numquam tam plene occurrere ulla liberalitas potest ut cupiditates illorum, quae crescunt dum implentur, exsatiet. Quisquis autem de accipiendo cogitat oblitus accepti est, nec ullum habet malum cupiditas maius quam quod ingrata est. [3] Adice nunc quod nemo eorum qui in re publica versantur quot vincat, sed a quibus vincatur, aspicit; et illis non tam iucundum est multos post se videre quam grave aliquem ante se. Habet hoc vitium omnis ambitio: non respicit. Nec ambitio tantum instabilis est, verum cupiditas omnis, quia incipit semper a fine. [4] At ille vir sincerus ac purus, qui reliquit et curiam et forum et omnem administrationem rei publicae ut ad ampliora secederet, diligit eos per quos hoc ei facere tuto licet solusque illis gratuitum testimonium reddit et magnam rem nescientibus debet. Quemadmodum praeceptores suos veneratur ac suspicit quorum beneficio illis inviis exit, sic et hos sub quorum tutela positus exercet artes bonas.
73
1 Per me sbaglia chi pensa che i veri filosofi siano arroganti e indocili e disprezzino i magistrati o i sovrani o chi amministra lo stato. Al contrario non c'è nessuno più riconoscente di loro verso gli uomini politici, e giustamente: questi dànno di più proprio ai filosofi, ai quali permettono di vivere una vita tranquilla e ritirata. 2 Per i filosofi la pace pubblica è determinante al loro proposito di vivere virtuosamente, di conseguenza venerano come un padre chi assicura questo bene, certo molto più di quanto facciano quegli uomini turbolenti e sempre a mezzo, che devono molto ai sovrani, ma attribuiscono loro anche molte colpe: nemmeno la liberalità più generosa può saziare le loro voglie che crescono a mano a mano che vengono soddisfatte. Se uno pensa ai benefici che deve ricevere, ha già dimenticato quelli ricevuti: il male peggiore dell'avidità è l'ingratitudine. 3 Inoltre, non il numero delle persone che supera, ma gli individui da cui è superato interessano al politico, e per lui vedere molti dietro di sé è piacevole, ma non quanto è penoso vedere qualcuno davanti a sé. Ogni tipo di ambizione ha questo grave difetto: non guarda indietro. Instabile non è soltanto l'ambizione, ma anche ogni forma di avidità, perché ricomincia dove dovrebbe finire. 4 Ma l'uomo sincero e onesto che ha lasciato il senato, il foro e ogni carica pubblica per dedicarsi in solitudine a questioni più importanti, ama quelli che gli permettono di farlo tranquillamente, è il solo a rendere una testimonianza spontanea e si considera debitore di chi nemmeno lo sa. Egli venera e rispetta costoro sotto la cui tutela può dedicarsi alla filosofia, come venera e rispetta i suoi maestri, grazie ai quali è uscito dall'intrico in cui era.
[5] 'Verum alios quoque rex viribus suis protegit.' Quis negat? Sed quemadmodum Neptuno plus debere se iudicat ex iis qui eadem tranquillitate usi sunt qui plura et pretiosiora illo mari vexit, animosius a mercatore quam a vectore solvitur votum et ex ipsis mercatoribus effusius ratus est qui odores ac purpuras et auro pensanda portabat quam qui vilissima quaeque et saburrae loco futura congesserat, sic huius pacis beneficium ad omnis pertinentis altius ad eos pervenit qui illa bene utuntur. [6] Multi enim sunt ex his togatis quibus pax operosior bello est: an idem existimas pro pace debere eos qui illam ebrietati aut libidini impendunt aut aliis vitiis quae vel bello rumpenda sunt? Nisi forte tam iniquum putas esse sapientem ut nihil viritim se debere pro communibus bonis iudicet. Soli lunaeque plurimum debeo, et non uni mihi oriuntur; anno temperantique annum deo privatim obligatus sum, quamvis nihil in meum honorem *** discripta sint. [7] Stulta avaritia mortalium possessionem proprietatemque discernit nec quicquam suum credit esse quod publicum est; at ille sapiens nihil magis suum iudicat quam cuius illi cum humano genere consortium est. Nec enim essent ista communia, nisi pars illorum pertineret ad singulos; socium efficit etiam quod ex minima portione commune est.
5 "Ma il re protegge anche gli altri con le sue forze". Nessuno lo nega. E tuttavia come tra le persone che hanno navigato con mare calmo, si considera più obbligato a Nettuno chi ha trasportato per mare prodotti più preziosi e in maggiore quantità, e ai voti fatti adempie con più slancio il mercante che il passeggero, e tra gli stessi mercanti si mostra grato con più larghezza chi trasportava profumi, porpora e altri oggetti di valore, di quello che aveva riempito la nave di merce di scarsissimo pregio per fare zavorra; così il beneficio di questa pace, che pure riguarda tutti, tocca maggiormente coloro che ne fanno buon uso. 6 Ci sono molti cittadini i quali hanno più da fare in pace che in guerra: o pensi forse che abbiano un identico obbligo di riconoscenza per la pace gli individui che la spendono nell'ubriachezza o nel sesso o in altri vizi che dovrebbero essere stroncati persino con la guerra? A meno che tu non giudichi il saggio tanto ingiusto da ritenere di non essere personalmente debitore per beni che divide con altri. Io devo moltissimo al sole e alla luna, eppure non sorgono per me solo; sono personalmente obbligato al succedersi delle stagioni e a dio che le regola, sebbene non siano stati fissati affatto *** in mio onore. 7 Gli uomini, nella loro stupida avarizia, distinguono il possesso e la proprietà e non giudicano propri i beni pubblici; ma il saggio invece giudica suo soprattutto quello che possiede in comune con l'umanità intera. Questi beni non sarebbero di tutti, se ai singoli individui non ne spettasse una parte: una cosa che è in comune anche in minima parte rende soci.
[8] Adice nunc quod magna et vera bona non sic dividuntur ut exiguum in singulos cadat: ad unumquemque tota perveniunt. E congiario tantum ferunt homines quantum in capita promissum est; epulum et visceratio et quidquid aliud manu capitur discedit in partes: at haec individua bona, pax et libertas, ea tam omnium tota quam singulorum sunt. [9] Cogitat itaque per quem sibi horum usus fructusque contingat, per quem non ad arma illum nec ad servandas vigilias nec ad tuenda moenia et multiplex belli tributum publica necessitas vocet, agitque gubernatori suo gratias. Hoc docet philosophia praecipue, bene debere beneficia, bene solvere; interdum autem solutio est ipsa confessio. [10] Confitebitur ergo multum se debere ei cuius administratione ac providentia contingit illi pingue otium et arbitrium sui temporis et imperturbata publicis occupationibus quies.
O Meliboee, deus nobis haec otia fecit; namque erit ille mihi semper deus. [11] Si illa quoque otia multum auctori suo debent quorum munus hoc maximum est, ille meas errare boves, ut cernis, et ipsum ludere quae vellem calamo permisit agresti, quanti aestimamus hoc otium quod inter deos agitur, quod deos facit?
8 Per di più, i veri grandi beni non sono divisi in maniera che al singolo tocchi una piccola quantità: pervengono a ciascuno globalmente. Di una elargizione ognuno prende quanto è stato stabilito a testa; un banchetto e una distribuzione pubblica di carne e qualsiasi altro bene tangibile vengono divisi in parti: ma i beni indivisibili, la pace e la libertà, appartengono a tutti e ai singoli nella loro interezza. 9 Il saggio pensa pertanto per opera di chi gli è possibile usufruire con vantaggio di questi beni, per opera di chi la situazione dello Stato è tale da non chiamarlo alle armi, o a fare i turni di guardia, o a difendere le mura e a pagare i molteplici tributi di guerra ed è grato nei confronti di chi lo governa. La filosofia insegna soprattutto a sentirsi debitori per i benefici ricevuti e a ripagarli; a volte l'ammettere il proprio debito è già un pagamento. 10 Ammetterà, dunque, di dovere molto all'uomo che con il suo saggio governo gli permetta di godere di un ritiro fecondo, di disporre del suo tempo e di vivere un'esistenza tranquilla, non turbata da occupazioni pubbliche. O Melibeo, un dio mi ha concesso questo ozio; certo, per me egli sarà sempre un dio. 11 Se si deve molto a chi rende possibili quegli ozi che portano questo come massimo dono: egli, come vedi, ha permesso che i miei buoi pascolassero liberi e che io suonassi sull'agreste zampogna le mie melodie preferite, quanto dobbiamo apprezzare questa vita ritirata che si conduce tra gli dèi, che ci rende dèi?
[12] Ita dico, Lucili, et te in caelum compendiario voco. Solebat Sextius dicere Iovem plus non posse quam bonum virum. Plura Iuppiter habet quae praestet hominibus, sed inter duos bonos non est melior qui locupletior, non magis quam inter duos quibus par scientia regendi gubernaculum est meliorem dixeris cui maius speciosiusque navigium est. [13] Iuppiter quo antecedit virum bonum? diutius bonus est: sapiens nihilo se minoris aestimat quod virtutes eius spatio breviore cluduntur. Quemadmodum ex duobus sapientibus qui senior decessit non est beatior eo cuius intra pauciores annos terminata virtus est, sic deus non vincit sapientem felicitate, etiam si vincit aetate; non est virtus maior quae longior. [14] Iuppiter omnia habet, sed nempe aliis tradidit habenda: ad ipsum hic unus usus pertinet, quod utendi omnibus causa est: sapiens tam aequo animo omnia apud alios videt contemnitque quam Iuppiter et hoc se magis suspicit quod Iuppiter uti illis non potest, sapiens non vult. [15] Credamus itaque Sextio monstranti pulcherrimum iter et clamanti 'hac itur ad astra, hac secundum frugalitatem, hac secundum temperantiam, hac secundum fortitudinem'. Non sunt dii fastidiosi, non invidi: admittunt et ascendentibus manum porrigunt. [16] Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit, immo quod est propius, in homines venit: nulla sine deo mens bona est. Semina in corporibus humanis divina dispersa sunt, quae si bonus cultor excipit, similia origini prodeunt et paria iis ex quibus orta sunt surgunt: si malus, non aliter quam humus sterilis ac palustris necat ac deinde creat purgamenta pro frugibus. Vale.
12 Certo, Lucilio, ti chiamo in cielo per la via più rapida. Sestio diceva spesso che Giove non è più potente di un uomo virtuoso. Giove può fare agli uomini più doni, ma tra due individui onesti non è migliore il più ricco, come tra due timonieri ugualmente esperti non puoi definire migliore chi ha l'imbarcazione più bella e più grande. 13 In che cosa Giove è superiore a un uomo buono? È buono più a lungo, ma il saggio non si ritiene menomato perché la sua virtù è circoscritta in un arco di tempo più breve. Tra due saggi chi muore più vecchio non è più felice dell'altro la cui vita virtuosa si è conclusa in un numero inferiore di anni, così dio non supera in felicità il saggio, anche se lo supera nella durata del tempo; la virtù non si misura in base alla sua durata. 14 Giove è signore dell'universo, ma ne ha dato ad altri il possesso: l'uso che egli può farne è solo questo: concederne l'uso a tutti; il saggio guarda con serenità e con disprezzo, come Giove, i beni posseduti dagli altri, ma è più degno di ammirazione, perché Giove non può farne uso, mentre il saggio non vuole. 15 Crediamo, perciò a Sestio: ci indica una strada bellissima e grida: "Di qua si sale alle stelle, di qua seguendo la frugalità, la temperanza, il coraggio." Gli dèi non sono altezzosi, né invidiosi: accolgono tutti e tendono la mano a chi sale. 16 Ti stupisci che l'uomo salga fino agli dèi? Dio scende in mezzo agli uomini, anzi, più esattamente, scende dentro gli uomini: non esiste saggezza senza dio. Semi divini sono stati sparsi nel corpo dell'uomo e, se a riceverli è un buon coltivatore, si sviluppano simili alla loro origine e crescono uguali all'essere da cui sono derivati. Ma se è un buono a nulla, li fa morire, come fa la terra sterile e paludosa, e poi produce erbacce invece di grano. Stammi bene.
Libro VIII - LXXIV. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM
[1] Epistula tua delectavit me et marcentem excitavit; memoriam quoque meam, quae iam mihi segnis ac lenta est, evocavit. Quidni tu, mi Lucili, maximum putes instrumentum vitae beatae hanc persuasionem unum bonum esse quod honestum est? Nam qui alia bona iudicat in fortunae venit potestatem, alieni arbitrii fit: qui omne bonum honesto circumscripsit intra se felix . [2] Hic amissis liberis maestus, hic sollicitus aegris, hic turpibus et aliqua sparsis infamia tristis; illum videbis alienae uxoris amore cruciari, illum suae; non deerit quem repulsa distorqueat; erunt quos ipse honor vexet. [3] Illa vero maxima ex omni mortalium populo turba miserorum quam exspectatio mortis exagitat undique impendens; nihil enim est unde non subeat. Itaque, ut in hostili regione versantibus, huc et illuc circumspiciendum est et ad omnem strepitum circumagenda cervix; nisi hic timor e pectore eiectus est, palpitantibus praecordiis vivitur. [4] Occurrent acti in exsilium et evoluti bonis; occurrent, quod genus egestatis gravissimum est, in divitis inopes; occurrent naufragi similiave naufragis passi, quos aut popularis ira aut invidia, perniciosum optimis telum, inopinantis securosque disiecit procellae more quae in ipsa sereni fiducia solet emergere, aut fulminis subiti ad cuius ictum etiam vicina tremuerunt. Nam ut illic quisquis ab igne propior stetit percusso similis obstipuit, sic in his per aliquam vim accidentibus unum calamitas opprimit, ceteros metus, paremque passis tristitiam facit pati posse. [5] Omnium animos mala aliena ac repentina sollicitant. Quemadmodum aves etiam inanis fundae sonus territat, ita nos non ad ictum tantum exagitamur sed ad crepitum. Non potest ergo quisquam beatus esse qui huic se opinioni credidit. Non enim beatum est nisi quod intrepidum; inter suspecta male vivitur. [6] Quisquis se multum fortuitis dedit ingentem sibi materiam perturbationis et inexplicabilem fecit: una haec via est ad tuta vadenti, externa despicere et honesto esse contentum. Nam qui aliquid virtute melius putat aut ullum praeter illam bonum, ad haec quae a fortuna sparguntur sinum expandit et sollicitus missilia eius exspectat. [7] Hanc enim imaginem animo tuo propone, ludos facere fortunam et in hunc mortalium coetum honores, divitias, gratiam excutere, quorum alia inter diripientium manus scissa sunt, alia infida societate divisa, alia magno detrimento eorum in quos devenerant prensa. Ex quibus quaedam aliud agentibus inciderunt, quaedam, quia nimis captabantur, amissa et dum avide rapiuntur expulsa sunt: nulli vero, etiam cui rapina feliciter cessit, gaudium rapti duravit in posterum. Itaque prudentissimus quisque, cum primum induci videt munuscula, a theatro fugit et scit magno parva constare. Nemo manum conserit cum recedente, nemo exeuntem ferit: circa praemium rixa est. [8] Idem in his evenit quae fortuna desuper iactat: aestuamus miseri, distringimur, multas habere cupimus manus, modo in hanc partem, modo in illam respicimus; nimis tarde nobis mitti videntur quae cupiditates nostras irritant, ad paucos perventura, exspectata omnibus; [9] ire obviam cadentibus cupimus; gaudemus si quid invasimus invadendique aliquos spes vana delusit; vilem praedam magno aliquo incommodo luimus aut [de] fallimur. Secedamus itaque ab istis ludis et demus raptoribus locum; illi spectent bona ista pendentia et ipsi magis pendeant.
74 1 La tua lettera mi ha fatto piacere, mi ha scosso dal torpore e mi ha anche risvegliato la memoria, ormai pigra e tarda. Perché, Lucilio mio, non dovresti pensare che il mezzo migliore per raggiungere la felicità sia la convinzione che l'unico bene è la virtù? Se uno ritiene che altri siano i beni, cade in balìa della sorte e si sottomette all'arbitrio altrui: solo chi racchiude ogni bene nella virtù prova una felicità tutta interiore. 2 Uno è addolorato per la perdita dei figli, un altro si preoccupa perché sono malati, un terzo si affligge perché sono disonesti e si sono coperti di vergogna; Tizio lo vedrai soffrire per amore della donna di un altro, Caio per amore della sua; non mancherà chi si tormenta per un insuccesso elettorale; o chi, invece, è angustiato da una carica pubblica. 3 Ma la massa più numerosa di infelici è quella tormentata dall'attesa della morte che incombe da ogni lato: non c'è parte da cui non possa arrivare. Perciò come soldati che attraversano un territorio nemico, devono guardarsi intorno qua e là e voltare la testa a ogni rumore; se uno non scaccia questa intima paura, vive col batticuore. 4 Troverai uomini cacciati in esilio e spogliati di ogni bene; troverai, ed è il genere di povertà più terribile, individui poveri nella loro ricchezza; incontrerai naufraghi o gente che è passata per un'esperienza analoga: il furore o l'invidia popolare, arma funesta contro i migliori, li ha inaspettatamente travolti, come tempesta che si scatena quando il cielo è sereno e rassicurante, o come fulmine improvviso che, là dove colpisce, fa tremare anche i dintorni. Se uno si trova troppo vicino al fulmine rimane attonito come chi è stato colpito, così nelle disgrazie provocate da un atto di violenza uno solo subisce il danno, gli altri sono preda della paura, e si angustiano al pari della vittima per la possibilità di subire la stessa sorte. 5 I mali improvvisi che toccano agli altri preoccupano tutti. Gli uccelli sono spaventati anche dal sibilo di una fionda vuota: nello stesso modo ci agitiamo noi, non soltanto per il colpo, ma per il rumore. Uno non può essere felice se si abbandona a questi timori infondati. È felice solo chi non ha paura; si vive male tra i sospetti. 6 Se uno si attacca troppo ai beni fortuiti, si crea smisurati e insormontabili motivi di turbamento: una sola è la strada per chi vuole mettersi al sicuro: disprezzare i beni esteriori e appagarsi della virtù. Se pensiamo che ci sia qualcosa di meglio della virtù o un bene al di là di essa, finiremo per aprire l'animo ai beni che la sorte distribuisce e aspetteremo ansiosi i suoi doni. 7 Immagina ora che la fortuna organizzi dei giochi e sulla gente ad essi convenuta riversi onori, ricchezze, favori; una parte di questi donativi si riduce in pezzi tra le mani di quanti se li disputano, un'altra viene spartita con soci malfidati, un'altra si risolve in un gran danno per chi se l'era vista piombare addosso e l'aveva afferrata. Ci sono dei beni che cadono su chi si cura d'altro, dei beni afferrati con troppa foga vanno perduti e sfuggono di mano proprio nel momento in cui si tenta di afferrarli: nessuno, però anche se è riuscito a impadronirsene, gioisce a lungo del suo bottino. Per questo gli uomini più assennati, appena vedono comparire dei piccoli doni, fuggono dal teatro sapendo che quei beni di poco valore costano molto. Nessuno viene alle mani con chi si allontana, nessuno colpisce chi va via: la lotta si ingaggia intorno al bottino. 8 Lo stesso accade per i beni che la fortuna ci getta dall'alto: noi miseri ci agitiamo, ci affanniamo, desidereremmo avere molte mani, guardiamo ora da una parte, ora dall'altra; quei doni che accendono i nostri desideri ci sembra che la sorte tardi troppo a mandarli: tutti li aspettano, ma arriveranno a pochi. 9 Vorremmo afferrarli già mentre cadono; siamo contenti se ne agguantiamo qualcuno e se altri rimangono delusi nella vana speranza di catturarli; un magro bottino lo paghiamo con gravi fastidi, oppure rimaniamo [...] delusi. Allontaniamoci da questi giochi e facciamo largo ai predatori; guardino questi beni sospesi su di loro e loro stessi stiano ancora più in sospeso.
[10] Quicumque beatus esse constituet, unum esse bonum putet quod honestum est; nam si ullum aliud existimat, primum male de providentia iudicat, quia multa incommoda iustis viris accidunt, et quia quidquid nobis dedit breve est et exiguum si compares mundi totius aevo. [11] Ex hac deploratione nascitur ut ingrati divinorum interpretes simus: querimur quod non semper, quod et pauca nobis et incerta et abitura contingant. Inde est quod nec vivere nec mori volumus: vitae nos odium tenet, timor mortis. Natat omne consilium nec implere nos ulla felicitas potest. Causa autem est quod non pervenimus ad illud bonum immensum et insuperabile ubi necesse est resistat voluntas nostra quia ultra summum non est locus. [12] Quaeris quare virtus nullo egeat? Praesentibus gaudet, non concupiscit absentia; nihil non illi magnum est quod satis. Ab hoc discede iudicio: non pietas constabit, non fides, multa enim utramque praestare cupienti patienda sunt ex iis quae mala vocantur, multa impendenda ex iis quibus indulgemus tamquam bonis. [13] Perit fortitudo, quae periculum facere debet sui; perit magnanimitas, quae non potest eminere nisi omnia velut minuta contempsit quae pro maximis vulgus optat; perit gratia et relatio gratiae si timemus laborem, si quicquam pretiosius fide novimus, si non optima spectamus.
10 Se uno vuole essere felice, si convinca che l'unico bene è la virtù; se pensa che ce ne sia qualche altro, prima di tutto giudica male la provvidenza, perché agli uomini onesti capitano molte disgrazie e perché tutti i beni che essa ci ha concesso sono insignificanti e di breve durata, se paragonati all'età dell'universo. 11 Conseguenza di questi lamenti è che non manifestiamo gratitudine per i benefici divini: deploriamo che non ci capitino sempre, che siano scarsi, incerti e caduchi. Ne deriva che non vogliamo vivere, né morire: odiamo la vita, temiamo la morte. Ogni nostro disegno è incerto e non siamo mai pienamente felici. Il motivo? Non siamo arrivati a quel bene immenso e insuperabile dove la nostra volontà necessariamente si arresta: oltre la vetta non c'è niente. 12 Chiedi perché la virtù non provi nessun bisogno? Gode di quello che ha, non desidera quello che le manca; per essa è grande quanto le basta. Abbandona questo criterio e verranno a cadere il sentimento religioso, la lealtà: chi vuole mantenere l'uno e l'altra deve sopportare molti dei cosiddetti mali, rinunciare a molte cose di cui si compiace come se fossero beni. 13 Scompare la forza d'animo, che deve mettere se stessa alla prova; scompare la magnanimità, che non può emergere se non disprezza come cose di poco conto tutti quei beni che la massa desidera e tiene nella massima considerazione; scompaiono la gratitudine e i rapporti di gratitudine, se temiamo la fatica, se pensiamo che ci sia qualcosa di più prezioso della lealtà, se non miriamo al meglio.
[14] Sed ut illa praeteream, aut ista bona non sunt quae vocantur aut homo felicior deo est, quoniam quidem quae cara nobis sunt non habet in usu deus; nec enim libido ad illum nec epularum lautitia nec opes nec quicquam ex his hominem inescantibus et vili voluptate ducentibus pertinet. Ergo aut credibile est bona deo deesse aut hoc ipsum argumentum est bona non esse, quod deo desunt. [15] Adice quod multa quae bona videri volunt animalibus quam homini pleniora contingunt. Illa cibo avidius utuntur, venere non aeque fatigantur; virium illis maior est et aequabilior firmitas: sequitur ut multo feliciora sint homine. Nam sine nequitia, sine fraudibus degunt; fruuntur voluptatibus, quas et magis capiunt et ex facili, sine ullo pudoris aut paenitentiae metu. [16] Considera tu itaque an id bonum vocandum sit quo deus ab homine, vincitur. Summum bonum in animo contineamus: obsolescit si ab optima nostri parte ad pessimam transit et transfertur ad sensus, qui agiliores sunt animalibus mutis. Non est summa felicitatis nostrae in carne ponenda: bona illa sunt vera quae ratio dat, solida ac sempiterna, quae cadere non possunt, ne decrescere quidem ac minui. [17] Cetera opinione bona sunt et nomen quidem habent commune cum veris, proprietas [quidem] in illis boni non est; itaque commoda vocentur et, ut nostra lingua loquar, producta. Ceterum sciamus mancipia nostra esse, non partes, et sint apud nos, sed ita ut meminerimus extra nos esse; etiam si apud nos sint, inter subiecta et humilia numerentur propter quae nemo se attollere debeat. Quid enim stultius quam aliquem eo sibi placere quod ipse non fecit? [18] Omnia ista nobis accedant, non haereant, ut si abducentur, sine ulla nostri laceratione discedant. Utamur illis, non gloriemur, et utamur parce tamquam depositis apud nos et abituris. Quisquis illa sine ratione possedit non diu tenuit; ipsa enim se felicitas, nisi temperatur, premit. Si fugacissimis bonis credidit, cito deseritur, et, ut deseratur, affligitur. Paucis deponere felicitatem molliter licuit: ceteri cum iis inter quae eminuere labuntur, et illos degravant ipsa quae extulerant. [19] Ideo adhibebitur prudentia, quae modum illis ac parsimoniam imponat, quoniam quidem licentia opes suas praecipitat atque urget, nec umquam immodica durarunt nisi illa moderatrix ratio compescuit. Hoc multarum tibi urbium ostendet eventus, quarum in ipso flore luxuriosa imperia ceciderunt, et quidquid virtute partum erat intemperantia corruit. Adversus hos casus muniendi sumus. Nullus autem contra fortunam inexpugnabilis murus est: intus instruamur; si illa pars tuta est, pulsari homo potest, capi non potest. Quod sit hoc instrumentum scire desideras? [20] Nihil indignetur sibi accidere sciatque illa ipsa quibus laedi videtur ad conservationem universi pertinere et ex iis esse quae cursum mundi officiumque consummant; placeat homini quidquid deo placuit; ob hoc ipsum suaque miretur, quod non potest vinci, quod mala ipsa sub se tenet, quod ratione, qua valentius nihil est, casum doloremque et iniuriam subigit. [21] Ama rationem! huius te amor contra durissima armabit. Feras catulorum amor in venabula impingit feritasque et inconsultus impetus praestat indomitas; iuvenilia nonnumquam ingenia cupido gloriae in contemptum tam ferri quam ignium misit; species quosdam atque umbra virtutis in mortem voluntariam trudit: quanto his omnibus fortior ratio est, quanto constantior, tanto vehementius per metus ipsos et pericula exibit.
14 Ma lasciamo perdere; o questi cosiddetti beni non sono tali, o l'uomo è più fortunato di dio, poiché dio non può usufruire di quei piaceri a noi cari; non la lussuria, né i lauti pranzi, né le ricchezze, niente di quello che alletta gli uomini e li trascina con promesse di vili piaceri lo riguarda. Quindi, o è verosimile che a dio manchino dei beni, o il fatto stesso che manchino a dio è la prova che non sono beni. 15 E poi, molti beni presunti toccano più numerosi agli animali che all'uomo. Le bestie si nutrono con più avidità, si stancano meno nell'accoppiamento; hanno forze maggiori e più uniformi: ne consegue che sono molto più felici dell'uomo. Vivono senza malvagità, senza inganni; godono di più dei piaceri e con più facilità, senza alcun pudore o timore di pentimento. 16 Considera, perciò se si può definire un bene una cosa in cui dio è superato dall'uomo e l'uomo dagli animali. Il sommo bene è racchiuso nella nostra anima: perde il suo valore se passa dalla parte migliore alla parte peggiore di noi e si trasferisce ai sensi, che sono più pronti negli animali. Non dobbiamo riporre nella carne la nostra massima felicità: i veri beni li dà la ragione, e sono solidi ed eterni, non possono venir meno e neppure diminuire e decrescere. 17 Gli altri sono falsi beni e con quelli veri hanno in comune solo il nome, ma non hanno le caratteristiche del bene: chiamiamoli, dunque, comodità, e, per usare il nostro linguaggio, "cose preferibili". Ma rendiamoci conto che sono nostri schiavi e non una parte di noi: teniamoceli pure, ma ricordiamo che sono degli elementi esterni; anche se ce li teniamo, dobbiamo considerarli tra le cose inferiori e senza valore di cui nessuno deve inorgoglirsi. L'uomo più sciocco è quello che si compiace di ciò che non è opera sua. 18 Ci tocchino pure in sorte tutti questi beni, ma non ci stiano attaccati, sicché, se ce li strappano, si distacchino senza alcuno strazio per noi. Serviamocene senza vantarci e usiamoli con moderazione, come se li avessimo provvisoriamente in prestito. Se uno li possiede senza raziocinio, non riesce a conservarli a lungo; la buona fortuna, se non ha una regola, opprime se stessa. Se confida in beni troppo fugaci, presto ne è abbandonata e ammesso che non ne sia abbandonata, ne riceve danno. Pochi hanno potuto perdere senza traumi la loro prosperità: gli altri cadono insieme a quei beni che li avevano fatti emergere e proprio ciò che li aveva innalzati, li schiaccia. 19 Comportiamoci, perciò con saggezza per imporre ad essi misura e moderazione: se uno è sfrenato, in poco tempo manda in rovina le sue ricchezze: gli eccessi non hanno mai vita lunga, se la ragione moderatrice non fa da freno. La fine di molte città ti mostrerà proprio questo: i loro fastosi imperi sono caduti all'apice dello splendore e l'intemperanza ha mandato in rovina tutte le conquiste del valore. Dobbiamo premunirci contro queste evenienze. Nessun muro è inespugnabile per la fortuna: corazziamoci interiormente; se l'anima è al sicuro, possiamo essere colpiti, non catturati. 20 Qual è il sistema? Non sdegnarsi qualunque cosa accada e sapere che quegli stessi eventi che apparentemente ci danneggiano, servono alla conservazione del tutto e fanno parte di quelle cause che conducono a compimento il cammino e la funzione del cosmo; l'uomo deve accettare i voleri di dio; guardare con ammirazione se stesso e le proprie imprese: è invincibile, domina il male con la ragione, la forza più grande, vince il caso, il dolore, l'ingiustizia. 21 Ama la ragione! L'amore per essa ti fortificherà contro le più gravi disgrazie. L'amore per i proprî cuccioli spinge le fiere contro le armi dei cacciatori, la loro ferocia e la furia istintiva le rende indomabili; spesso il desiderio di gloria porta l'animo dei giovani a disprezzare ferro e fuoco; l'apparenza o l'ombra della virtù trascina alcuni a una morte volontaria: quanto la ragione è più forte e salda di tutti questi istinti, tanto maggiore è l'impeto con cui sfiderà paure e pericoli.
[22] 'Nihil agitis' inquit 'quod negatis ullum esse aliud honesto bonum. non faciet vos haec munitio tutos a fortuna et immunes. Dicitis enim inter bona esse liberos pios et bene moratam patriam et parentes bonos. Horum pericula non potestis spectare securi: perturbabit vos obsidio patriae, liberorum mors, parentum servitus.' [23] Quid adversus hos pro nobis responderi soleat ponam; deinde tunc adiciam quid praeterea respondendum putem. Alia condicio est in iis quae ablata in locum suum aliquid incommodi substituunt: tamquam bona valetudo vitiata in malam transfert; acies oculorum exstincta caecitate nos afficit; non tantum velocitas perit poplitibus incisis, sed debilitas pro illa subit. Hoc non est periculum in iis quae paulo ante rettulimus. Quare? si amicum bonum amisi, non est mihi pro illo perfidia patienda, nec si bonos liberos extuli, in illorum locum impietas succedit. [24] Deinde non amicorum illic aut liberorum interitus sed corporum est. Bonum autem uno modo perit, si in malum transit; quod natura non patitur, quia omnis virtus et opus omne virtutis incorruptum manet. Deinde etiam si amici perierunt, etiam si probati respondentesque voto patris liberi, est quod illorum expleat locum. Quid sit quaeris? quod illos quoque bonos fecerat, virtus. [25] Haec nihil vacare patitur loci, totum animum tenet, desiderium omnium tollit, sola satis est; omnium enim bonorum vis et origo in ipsa est. Quid refert an aqua decurrens intercipiatur atque abeat, si fons ex quo fluxerat salvus est? Non dices vitam iustiorem salvis liberis quam amissis nec ordinatiorem nec prudentiorem nec honestiorem; ergo ne meliorem quidem. Non facit adiectio amicorum sapientiorem, non facit stultiorem detractio; ergo nec beatiorem aut miseriorem. Quamdiu virtus salva fuerit, non senties quidquid abscesserit.
22 "Non concludete niente," ribattono, "sostenendo che l'unico bene è la virtù: questo baluardo non può mettervi al sicuro e sottrarvi alla sorte. Considerate beni i figli devoti, la patria governata con giustizia, i genitori virtuosi. Se li minaccia un pericolo, non potete starvene tranquilli a guardare: l'assedio della patria, la morte dei figli, la schiavitù dei genitori vi sconvolgerà." 23 Ecco che cosa si è soliti rispondere in nostra difesa contro queste obiezioni; ti dirò poi quello che, secondo me, si può aggiungere. Diversa è la posizione di quei beni che, quando sono strappati, vengono sostituiti da una disgrazia: per esempio una buona salute si altera e ci si ammala; la vista si spegne e diventiamo ciechi; se ci spezziamo le gambe non solo non possiamo più correre, ma non possiamo addirittura più muoverci. I beni elencati prima non sono soggetti a questo rischio. Perché? Se perdo un amico sicuro, non devo sopportarne al suo posto uno in malafede, se ho sepolto dei figli virtuosi non è detto che debba sostituirli con figli empî. 24 In questo caso, poi, non sono morti gli amici o i figli, ma i loro corpi. Il bene muore solo quando si trasforma in male: e questo la natura non può permetterlo perché ogni virtù e l'operato tutto della virtù non sono soggetti a corruzione. E anche se sono morti amici o figli buoni quali il padre se li augurava, c'è una cosa che ne riempirà il vuoto. "Che cosa?" mi chiedi. La virtù che li aveva resi buoni. 25 Essa copre tutto lo spazio, occupa l'anima intera, elimina ogni desiderio, basta da sola; costituisce la forza e l'origine di tutti i beni. Che importanza possono avere la deviazione e la dispersione di un corso di acqua, se la fonte da cui defluiva è intatta? Quando i figli sono vivi, non dirai che la vita è più giusta che se li hai perduti, o che è più regolata o più saggia o più onesta; quindi, nemmeno che è migliore. Farsi un amico non rende più saggi, né più stolti perderlo; quindi, nemmeno più felici o più infelici. Finché la virtù è salva, qualunque cosa ti sia stata sottratta, non ne risentirai.
[26] 'Quid ergo? non est beatior et amicorum et liberorum turba succinctus?' Quidni non sit? Summum enim bonum nec infringitur nec augetur; in suo modo permanet, utcumque fortuna se gessit. Sive illi senectus longa contigit sive citra senectutem finitus est, eadem mensura summi boni est, quamvis aetatis diversa sit. [27] Utrum maiorem an minorem circulum scribas ad spatium eius pertinet, non ad formam: licet alter diu manserit, alterum statim obduxeris et in eum in quo scriptus est pulverem solveris, in eadem uterque forma fuit. Quod rectum est nec magnitudine aestimatur nec numero nec tempore; non magis produci quam contrahi potest. Honestam vitam ex centum annorum numero in quantum voles corripe et in unum diem coge: aeque honesta est. [28] Modo latius virtus funditur, regna urbes provincias temperat, fert leges, colit amicitias, inter propinquos liberosque dispensat officia, modo arto fine circumdatur paupertatis exsilii orbitatis; non tamen minor est si ex altiore fastigio in humile subducitur, in privatum ex regio, ex publico et spatioso iure in angustias domus vel anguli coit. [29] Aeque magna est, etiam si in se recessit undique exclusa; nihilominus enim magni spiritus est et erecti, exactae prudentiae, indeclinabilis iustitiae. Ergo aeque beata est; beatum enim illud uno loco positum est, in ipsa mente, stabile, grande, tranquillum, quod sine scientia divinorum humanorumque non potest effici.
26 "Ma come? Se uno è circondato da una folla di amici e di figli non è più felice?" Perché dovrebbe esserlo? Il sommo bene non si riduce, non si accresce; rimane tale e quale, qualunque corso segua la fortuna. Può toccargli in sorte una lunga vecchiaia, può perire prima di invecchiare, il sommo bene ha sempre un'identica dimensione, la differenza di età non conta. 27 Traccia un cerchio più grande e uno più piccolo, cambia lo spazio, non la forma. Anche se uno rimane disegnato per tanto tempo e l'altro lo cancelli subito e sparpagli la polvere su cui era tracciato, entrambi hanno avuto la stessa forma. La rettitudine non si valuta a grandezza, a quantità, a tempo; non si può né allungare, né accorciare. Abbrevia una vita onesta da cento anni a quanto vuoi, riducila a un solo giorno: continua a essere onesta. 28 La virtù si diffonde su ampi spazi, governa regni, città, province, detta leggi, favorisce amicizie, ripartisce doveri tra genitori e figli; ma è anche racchiusa negli stretti confini della povertà, dell'esilio, dei lutti; e tuttavia non è minore se viene spostata da un rango più elevato a uno più basso, dalla condizione regale a quella di privato cittadino, da un ampio ambito pubblico all'angustia di una casa o di un cantuccio. 29 È ugualmente grande, anche se si ritira in se stessa isolata da ogni parte: possiede sempre un animo forte e fiero, una saggezza perfetta, un incrollabile senso della giustizia. E dunque, è ugualmente felice; la felicità ha un'unica sede: lo spirito, stabile, grande, sereno, ma non può realizzarsi senza la conoscenza delle questioni umane e divine.
[30] Sequitur illud quod me responsurum esse dicebam. Non affligitur sapiens liberorum amissione, non amicorum; eodem enim animo fert illorum mortem quo suam exspectat; non magis hanc timet quam illam dolet. Virtus enim convenientia constat: omnia opera eius cum ipsa concordant et congruunt. Haec concordia perit si animus, quem excelsum esse oportet, luctu aut desiderio summittitur. Inhonesta est omnis trepidatio et sollicitudo, in ullo actu pigritia; honestum enim securum et expeditum est, interritum est, in procinctu stat. [31] 'Quid ergo? non aliquid perturbationi simile patietur? non et color eius mutabitur et vultus agitabitur et artus refrigescent? et quidquid aliud non ex imperio animi, sed inconsulto quodam naturae impetu geritur?' Fateor; sed manebit illi persuasio eadem, nihil illorum malum esse nec dignum ad quod mens sana deficiat. [32] Omnia quae facienda erunt audaciter faciet et prompte. Hoc enim stultitiae proprium quis dixerit, ignave et contumaciter facere quae faciat, et alio corpus impellere, alio animum, distrahique inter diversissimos motus. Nam propter illa ipsa quibus extollit se miraturque contempta est, et ne illa quidem quibus gloriatur libenter facit. Si vero aliquod timetur malum, eo proinde, dum exspectat, quasi venisset urguetur, et quidquid ne patiatur timet iam metu patitur. [33] Quemadmodum in corporibus infirmis languorem signa praecurrunt - quaedam enim segnitia enervis est et sine labore ullo lassitudo et oscitatio et horror membra percurrens - sic infirmus animus multo ante quam opprimatur malis quatitur; praesumit illa et ante tempus cadit. Quid autem dementius quam angi futuris nec se tormento reservare, sed arcessere sibi miserias et admovere? quas optimum est differre, si discutere non possis. [34] Vis scire futuro neminem debere torqueri? Quicumque audierit post quinquagesimum annum sibi patienda supplicia, non perturbatur nisi si medium spatium transiluerit et se in illam saeculo post futuram sollicitudinem immiserit: eodem modo fit ut animos libenter aegros et captantes causas doloris vetera atque obliterata contristent. Et quae praeterierunt et quae futura sunt absunt: neutra sentimus. Non est autem nisi ex eo quod sentias dolor. Vale.
30 Ed ecco ora la mia risposta, come ti avevo preannunciato. Il saggio non si addolora per la perdita dei figli o degli amici; sopporta la loro morte con lo stesso spirito con cui aspetta la sua; non teme questa, di quella non si duole. La virtù è fatta di armonia: tutte le opere del saggio sono a essa conformi e consone. Questa, però viene a mancare se lo spirito, che deve mantenersi al di sopra di tutto, si lascia sopraffare dai lutti o dal rimpianto. Tutte le ansie, le preoccupazioni, l'inerzia operativa sono contrarie alla virtù; la virtù è serena, libera, imperturbabile, pronta al combattimento. 31 "E come? Il saggio non si turberà mai? Non sbiancherà in viso, non avrà l'espressione sconvolta, non rabbrividirà? Non avrà nessun'altra di quelle manifestazioni originate da un inconsulto impulso naturale e non dai comandi della ragione?" Certo; ma sarà sempre convinto che non si tratti di un male e che di fronte a esso una mente sana non debba soccombere. 32 Farà quanto deve con coraggio e prontezza. Uno potrebbe dire che è tipico dello sciocco agire senza energia e contro voglia, spingere il corpo in una direzione, l'animo in un'altra ed essere lacerato tra impulsi completamente opposti. Infatti lo sciocco è disprezzato per quegli stessi motivi per cui si esalta e si pavoneggia e non compie volentieri neppure quelle azioni di cui si gloria. Se poi teme un male, si tormenta nell'attesa, come se fosse già arrivato, e tutto quello che teme di soffrire, lo soffre già per paura. 33 Quando uno si ammala ci sono sintomi che precedono la malattia - indolenza e mancanza di forza, sfinimento non motivato da fatica, sbadigli, tremito per tutto il corpo - allo stesso modo un animo debole è sconvolto dai mali molto prima di esserne assalito, se li immagina e si abbatte anzitempo. Ma non è da pazzi angustiarsi per il futuro e non risparmiarsi i tormenti, anzi chiamare e tirarsi addosso le disgrazie? Se non si possono evitare, la cosa migliore è rinviarle. 34 Vuoi essere certo che nessuno deve tormentarsi per il futuro? Se uno sa che passerà dei guai tra cinquant'anni, non si preoccupa, a meno che non salti il tempo intermedio e non si immedesimi in quelle preoccupazioni che verranno dopo tanti anni: così capita che disgrazie vecchie e dimenticate rattristino gli spiriti proclivi alla malinconia e che cercano motivi di afflizione. Sia quanto è successo in passato, sia quanto dovrà succedere in futuro è lontano da noi: non sentiamo né l'uno né l'altro. Il dolore può venirci solo da quello che sentiamo. Stammi bene.


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