SENECA - Lettere a Lucilio Libro XV - testo latino e traduzione
ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM XV
LETTERE A LUCILIO DI SENECA XV
Opera integrale tradotta - testo latino e relativa traduzione
XCIII. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] In epistula qua de morte Metronactis philosophi querebaris, tamquam et potuisset diutius vivere et debuisset, aequitatem tuam desideravi, quae tibi in omni persona, in omni negotio superest, in una re deest, in qua omnibus: multos inveni aequos adversus homines, adversus deos neminem. Obiurgamus cotidie fatum: 'quare ille in medio cursu raptus est? quare ille non rapitur? quare senectutem et sibi et aliis gravem extendit?' [2] Utrum, obsecro te, aequius iudicas, te naturae an tibi parere naturam? quid autem interest quam cito exeas unde utique exeundum est? Non ut diu vivamus curandum est, sed ut satis; nam ut diu vivas fato opus est, ut satis, animo. Longa est vita si plena est; impletur autem cum animus sibi bonum suum reddidit et ad se potestatem sui transtulit. [3] Quid illum octoginta anni iuvant per inertiam exacti? non vixit iste sed in vita moratus est, nec sero mortuus est, sed diu. 'Octoginta annis vixit.' Interest mortem eius ex quo die numeres. 'At ille obiit viridis.' [4] Sed officia boni civis, boni amici, boni filii executus est; in nulla parte cessavit; licet aetas eius inperfecta sit, vita perfecta est. 'Octoginta annis vixit.' Immo octoginta annis fuit, nisi forte sic vixisse eum dicis quomodo dicuntur arbores vivere. Obsecro te, Lucili, hoc agamus ut quemadmodum pretiosa rerum sic vita nostra non multum pateat sed multum pendeat; actu illam metiamur, non tempore. Vis scire quid inter hunc intersit vegetum contemptoremque fortunae functum omnibus vitae humanae stipendiis atque in summum bonum eius evectum et illum cui multi anni transmissi sunt? alter post mortem quoque est, alter ante mortem perit. [5] Laudemus itaque et in numero felicium reponamus eum cui quantulumcumque temporis contigit bene conlocatum est. Vidit enim veram lucem; non fuit unus e multis; et vixit et viguit. Aliquando sereno usus est, aliquando, ut solet, validi sideris fulgor per nubila emicuit. Quid quaeris quamdiu vixerit? vivit: ad posteros usque transiluit et se in memoriam dedit. [6] Nec ideo mihi plures annos accedere recusaverim; nihil tamen mihi ad beatam vitam defuisse dicam si spatium eius inciditur; non enim ad eum diem me aptavi quem ultimum mihi spes avida promiserat, sed nullum non tamquam ultimum aspexi. Quid me interrogas quando natus sim, an inter iuniores adhuc censear? habeo meum. [7] Quemadmodum in minore corporis habitu potest homo esse perfectus, sic et in minore temporis modo potest vita esse perfecta. Aetas inter externa est. Quamdiu sim alienum est: quamdiu ero, ut sim, meum est. Hoc a me exige, ne velut per tenebras aevum ignobile emetiar, ut agam vitam, non ut praetervehar. [8] Quaeris quod sit amplissimum vitae spatium? usque ad sapientiam vivere; qui ad illam pervenit attigit non longissimum finem, sed maximum. Ille vero glorietur audacter et dis agat gratias interque eos sibi, et rerum naturae inputet quod fuit. Merito enim inputabit: meliorem illi vitam reddidit quam accepit. Exemplar boni viri posuit, qualis quantusque esset ostendit; si quid adiecisset, fuisset simile praeterito. [9] Et tamen quousque vivimus? Omnium rerum cognitione fruiti sumus: scimus a quibus principiis natura se attollat, quemadmodum ordinet mundum, per quas annum vices revocet, quemadmodum omnia quae usquam erunt cluserit et se ipsam finem sui fecerit; scimus sidera impetu suo vadere, praeter terram nihil stare, cetera continua velocitate decurrere; scimus quemadmodum solem luna praetereat, quare tardior velociorem post se relinquat, quomodo lumen accipiat aut perdat, quae causa inducat noctem, quae reducat diem: illuc eundum est ubi ista propius aspicias. [10] 'Nec hac spe' inquit sapiens ille 'fortius exeo, quod patere mihi ad deos meos iter iudico. Merui quidem admitti et iam inter illos fui animumque illo meum misi et ad me illi suum miserant. Sed tolli me de medio puta et post mortem nihil ex homine restare: aeque magnum animum habeo, etiam si nusquam transiturus excedo.' Non tam multis vixit annis quam potuit. [11] Et paucorum versuum liber est et quidem laudandus atque utilis: annales Tanusii scis quam ponderosi sint et quid vocentur. Hoc est vita quorundam longa, et quod Tanusii sequitur annales. [12] Numquid feliciorem iudicas eum qui summo die muneris quam eum qui medio occiditur? numquid aliquem tam stulte cupidum esse vitae putas ut iugulari in spoliario quam in harena malit? Non maiore spatio alter alterum praecedimus. Mors per omnis it; qui occidit consequitur occisum. Minimum est de quo sollicitissime agitur. Quid autem ad rem pertinet quam diu vites quod evitare non possis? Vale.
1 Nella lettera in cui lamentavi la morte del filosofo Metronatte, come se avesse potuto e dovuto vivere più a lungo, ho sentito la mancanza di quel senso di giustizia di cui sei ricco in ogni funzione, in ogni attività, e che ti difetta in una sola cosa, come a tutti: ho trovato molte persone giuste verso gli uomini, ma nessuna giusta verso gli dèi. Ogni giorno rimproveriamo il destino: "Perché Tizio è stato rapito nel pieno della vita? Perché non Caio? Perché prolunga una vecchiaia penosa a sé e agli altri?" 2 Ma dimmi: ritieni più giusto che sia tu a obbedire alla natura o la natura a te? Che importanza ha se esci presto o tardi dalla vita? Bisogna in ogni caso uscirne. Non dobbiamo cercare di vivere a lungo, ma di vivere abbastanza; vivere a lungo dipende dal destino, dalla nostra anima vivere quanto basta. La vita è lunga se è piena, e diventa tale quando l'anima ha riconsegnato a se stessa il suo bene e ha preso il dominio di sé. 3 Che cosa servono a quel tizio ottant'anni trascorsi nell'inerzia? Costui non è vissuto, ma si è attardato nella vita, e non è morto tardi, ma lentamente. "È vissuto ottant'anni." L'importante è da che giorno calcoli la sua morte. 4 "Invece quell'altro è scomparso nel fiore degli anni." Ha adempiuto, però ai doveri di onesto cittadino, di fedele amico, di buon figlio; mai è venuto meno ai propri obblighi; anche se è incompleta la sua età, è completa la sua vita. "È vissuto ottant'anni." Anzi è esistito per ottant'anni, a meno che tu non dica che è vissuto, così come si dice che gli alberi vivono. Ti scongiuro, Lucilio mio, facciamo in modo che la nostra vita, come tutte le cose preziose, non conti per la sua estensione, ma per il suo peso; misuriamola dalle azioni, non dal tempo. Vuoi sapere che differenza c'è fra un uomo vigoroso e sprezzante della fortuna, che ha adempiuto a tutti i doveri della vita umana ed è giunto al sommo bene, e un uomo che ha lasciato scorrere gli anni? Il primo vive anche dopo la morte, il secondo si è spento prima di morire. 5 Lodiamo, perciò e mettiamo nel numero degli uomini felici chi ha ben impiegato il poco tempo avuto in sorte. Egli ha visto la vera luce; non è stato uno dei tanti; è vissuto; è stato forte. Talora ha goduto di giorni sereni; talora, come spesso avviene, lo splendore del sole si è mostrato fra le nubi. Perché chiedi quanto è vissuto? Vive ancora: è balzato tra i posteri e si è consegnato al loro ricordo. 6 Non per questo rifiuterei degli anni in più; ma anche se la vita mi viene troncata, dirò che non mi è mancato niente per avere la felicità; non ho regolato la mia esistenza su quel giorno che un'avida speranza mi aveva promesso come ultimo: ogni giorno l'ho guardato come se fosse l'ultimo. Perché mi chiedi la data di nascita o se faccio ancòra parte della lista dei giovani? Ho quello che mi spetta. 7 Un uomo con un fisico più piccolo del normale può essere perfetto, e allo stesso modo può essere perfetta una vita più breve del normale. L'esistenza dipende da fattori esterni. Non dipende da me la lunghezza della vita: da me dipende vivere veramente la vita che avrò. Pretendi questo da me: che non conduca un'esistenza oscura in mezzo alle tenebre, ma che guidi la mia vita senza lasciarmi vivere. 8 Chiedi qual è la vita più lunga? Vivere fino alla saggezza; chi la raggiunge, non tocca la meta più lontana, ma la più importante. Ne sia pure fiero; ringrazi gli dèi e fra gli dèi anche se stesso e imputi alla natura ciò che è stato. E lo farà a ragione: le ha restituito una vita migliore di quella ricevuta. Egli ha dato un esempio di uomo virtuoso, ha dimostrato le sue qualità e il suo valore; se fosse vissuto ancora, tutto sarebbe rimasto uguale. 9 E dunque, fino a quando vogliamo vivere? Siamo ormai arrivati a conoscere tutto: sappiamo su quali princìpî si fondi la natura, che ordinamento dia al mondo, attraverso quali cicli faccia ritornare l'anno, in che modo abbia segnato i confini di tutte le cose future e si sia posta come limite a se stessa; sappiamo che le stelle si muovono per loro impulso, che nessun corpo celeste è fermo, eccetto la terra e che gli altri scorrono veloci ininterrottamente; sappiamo come la luna superi il sole e perché, pur essendo più lenta, si lasci alle spalle quello che è più veloce, come si illumini e si oscuri, per quale causa si avvicendino il giorno e la notte: bisogna andare là dove questi fenomeni si contemplano più da vicino. 10 "Non esco dalla vita con maggiore forza d'animo," dice il saggio, "perché spero che mi sia aperta la strada verso i miei dèi. Mi sono procurato il diritto di essere ammesso tra di loro (e per altro ci sono già stato): il mio spirito è giunto fino a loro e loro a me. Supponi che io scompaia e che dopo la morte dell'uomo non rimanga nulla: io ho lo stesso un'anima grande anche se, uscito dalla vita, non andrò a finire in nessun luogo." 11 "Non visse tanto a lungo quanto avrebbe potuto." Anche un libro di poche righe può essere apprezzabile e utile: hai presente la mole degli annali di Tanusio e che fama li accompagni. La lunga vita di certa gente è simile e segue la stessa sorte degli annali di Tanusio. 12 Secondo te il gladiatore ucciso alla fine dello spettacolo è forse più felice di quello che muore a metà giornata? Pensi che uno sia tanto stupidamente attaccato alla vita da preferire che lo scannino nello spogliatoio piuttosto che nell'arena? Se uno muore prima, non precede un altro di un intervallo maggiore di questo. La morte arriva per tutti, l'assassino segue la vittima. Ci tormentiamo tanto per una sciocchezza. Ma a che serve evitare a lungo l'inevitabile? Stammi bene.
XCIV. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] Eam partem philosophiae quae dat propria cuique personae praecepta nec in universum componit hominem sed marito suadet quomodo se gerat adversus uxorem, patri quomodo educet liberos, domino quomodo servos regat, quidam solam receperunt, ceteras quasi extra utilitatem nostram vagantis reliquerunt, tamquam quis posset de parte suadere nisi qui summam prius totius vitae conplexus esset. [2] Ariston Stoicus e contrario hanc partem levem existimat et quae non descendat in pectus usque, anilia habentem praecepta; plurimum ait proficere ipsa decreta philosophiae constitutionemque summi boni; 'quam qui bene intellexit ac didicit quid in quaque re faciendum sit sibi ipse praecipit.' [3] Quemadmodum qui iaculari discit destinatum locum captat et manum format ad derigenda quae mittit, cum hanc vim ex disciplina et exercitatione percepit, quocumque vult illa utitur (didicit enim non hoc aut illud ferire sed quodcumque voluerit), sic qui se ad totam vitam instruxit non desiderat particulatim admoneri, doctus in totum, non enim quomodo cum uxore aut cum filio viveret sed quomodo bene viveret: in hoc est et quomodo cum uxore ac liberis vivat. [4] Cleanthes utilem quidem iudicat et hanc partem, sed inbecillam nisi ab universo fluit, nisi decreta ipsa philosophiae et capita cognovit.
In duas ergo quaestiones locus iste dividitur: utrum utilis an inutilis sit, et an solus virum bonum possit efficere, id est utrum supervacuus sit an omnis faciat supervacuos. [5] Qui hanc partem videri volunt supervacuam hoc aiunt: si quid oculis oppositum moratur aciem, removendum est; illo quidem obiecto operam perdit qui praecipit 'sic ambulabis, illo manum porriges'. Eodem modo ubi aliqua res occaecat animum et ad officiorum dispiciendum ordinem inpedit, nihil agit qui praecipit 'sic vives cum patre, sic cum uxore'. Nihil enim proficient praecepta quamdiu menti error offusus est: si ille discutitur, apparebit quid cuique debeatur officio. Alioqui doces illum quid sano faciendum sit, non efficis sanum. [6] Pauperi ut agat divitem monstras: hoc quomodo manente paupertate fieri potest? Ostendis esurienti quid tamquam satur faciat: fixam potius medullis famem detrahe. Idem tibi de omnibus vitiis dico: ipsa removenda sunt, non praecipiendum quod fieri illis manentibus non potest. Nisi opiniones falsas quibus laboramus expuleris, nec avarus quomodo pecunia utendum sit exaudiet nec timidus quomodo periculosa contemnat. [7] Efficias oportet ut sciat pecuniam nec bonum nec malum esse; ostendas illi miserrimos divites; efficias ut quidquid publice expavimus sciat non esse tam timendum quam fama circumfert, nec dolere quemquam nec mori saepe: in morte, quam pati lex est, magnum esse solacium quod ad neminem redit; in dolore pro remedio futuram obstinationem animi, qui levius sibi facit quidquid contumaciter passus est; optimam doloris esse naturam, quod non potest nec qui extenditur magnus esse nec qui est magnus extendi; omnia fortiter excipienda quae nobis mundi necessitas imperat. [8] His decretis cum illum in conspectum suae condicionis adduxeris et cognoverit beatam esse vitam non quae secundum voluptatem est sed secundum naturam, cum virtutem unicum bonum hominis adamaverit, turpitudinem solum malum fugerit, reliqua omnia — divitias, honores, bonam valetudinem, vires, imperia — scierit esse mediam partem nec bonis adnumerandam nec malis, monitorem non desiderabit ad singula qui dicat 'sic incede, sic cena; hoc viro, hoc feminae, hoc marito, hoc caelibi convenit'. [9] Ista enim qui diligentissime monent ipsi facere non possunt; haec paedagogus puero, haec avia nepoti praecipit, et irascendum non esse magister iracundissimus disputat. Si ludum litterarium intraveris, scies ista quae ingenti supercilio philosophi iactant in puerili esse praescripto.
[10] Utrum deinde manifesta an dubia praecipies? Non desiderant manifesta monitorem, praecipienti dubia non creditur; supervacuum est ergo praecipere. Id adeo sic disce: si id mones quod obscurum est et ambiguum, probationibus adiuvandum erit; si probaturus es, illa per quae probas plus valent satisque per se sunt. [11] 'Sic amico utere, sic cive, sic socio.' 'Quare?' 'Quia iustum est.' Omnia ista mihi de iustitia locus tradit: illic invenio aequitatem per se expetendam, nec metu nos ad illam cogi nec mercede conduci, non esse iustum cui quidquam in hac virtute placet praeter ipsam. Hoc cum persuasi mihi et perbibi, quid ista praecepta proficiunt quae eruditum docent? praecepta dare scienti supervacuum est, nescienti parum; audire enim debet non tantum quid sibi praecipiatur sed etiam quare. [12] Utrum, inquam, veras opiniones habenti de bonis malisque sunt necessaria an non habenti? Qui non habet nihil a te adiuvabitur, aures eius contraria monitionibus tuis fama possedit; qui habet exactum iudicium de fugiendis petendisque scit sibi faciendum sit etiam te tacente. Tota ergo pars ista philosophiae summoveri potest.
[13] Duo sunt propter quae delinquimus: aut inest animo pravis opinionibus malitia contracta aut, etiam si non est falsis occupatus, ad falsa proclivis est et cito specie quo non oportet trahente corrumpitur. Itaque debemus aut percurare mentem aegram et vitiis liberare aut vacantem quidem sed ad peiora pronam praeoccupare. Utrumque decreta philosophiae faciunt; ergo tale praecipiendi genus nil agit. [14] Praeterea si praecepta singulis damus, inconprehensibile opus est; alia enim dare debemus feneranti, alia colenti agrum, alia negotianti, alia regum amicitias sequenti, alia pares, alia inferiores amaturo. [15] In matrimonio praecipies quomodo vivat cum uxore aliquis quam virginem duxit, quomodo cum ea quae alicuius ante matrimonium experta est, quemadmodum cum locuplete, quemadmodum cum indotata. An non putas aliquid esse discriminis inter sterilem et fecundam, inter provectiorem et puellam, inter matrem et novercam? Omnis species conplecti non possumus: atqui singulae propria exigunt, leges autem philosophiae breves sunt et omnia alligant. [16] Adice nunc quod sapientiae praecepta finita debent esse et certa; si qua finiri non possunt, extra sapientiam sunt; sapientia rerum terminos novit. Ergo ista praeceptiva pars summovenda est, quia quod paucis promittit praestare omnibus non potest; sapientia autem omnis tenet. [17] Inter insaniam publicam et hanc quae medicis traditur nihil interest nisi quod haec morbo laborat, illa opinionibus falsis; altera causas furoris traxit ex valetudine, altera animi mala valetudo est. Si quis furioso praecepta det quomodo loqui debeat, quomodo procedere, quomodo in publico se gerere, quomodo in privato, erit ipso quem monebit insanior: [si] bilis nigra curanda est et ipsa furoris causa removenda. Idem in hoc alio animi furore faciendum est: ipse discuti debet; alioqui abibunt in vanum monentium verba.
[18] Haec ab Aristone dicuntur; cui respondebimus ad singula. Primum adversus illud quod ait, si quid obstat oculo et inpedit visum, debere removeri, fateor huic non opus esse praeceptis ad videndum, sed remedio quo purgetur acies et officientem sibi moram effugiat; natura enim videmus, cui usum sui reddit qui removit obstantia; quid autem cuique debeatur officio natura non docet. [19] Deinde cuius curata suffusio est, is non protinus cum visum recepit aliis quoque potest reddere: malitia liberatus et liberat. Non opus est exhortatione, ne consilio quidem, ut colorum proprietates oculus intellegat; a nigro album etiam nullo monente distinguet. Multis contra praeceptis eget animus ut videat quid agendum sit in vita. Quamquam oculis quoque aegros medicus non tantum curat sed etiam monet. [20] 'Non est' inquit 'quod protinus inbecillam aciem committas inprobo lumini; a tenebris primum ad umbrosa procede, deinde plus aude et paulatim claram lucem pati adsuesce. Non est quod post cibum studeas, non est quod plenis oculis ac tumentibus imperes; adflatum et vim frigoris in os occurrentis evita' — alia eiusmodi, quae non minus quam medicamenta proficiunt. Adicit remediis medicina consilium.
[21] 'Error' inquit 'est causa peccandi: hunc nobis praecepta non detrahunt nec expugnant opiniones de bonis ac malis falsas.' Concedo per se efficacia praecepta non esse ad evertendam pravam animi persuasionem; sed non ideo aliis quidem adiecta proficiunt. Primum memoriam renovant; deinde quae in universo confusius videbantur in partes divisa diligentius considerantur. Aut [in] isto modo licet et consolationes dicas supervacuas et exhortationes: atqui non sunt supervacuae; ergo ne monitiones quidem. [22] 'Stultum est' inquit 'praecipere aegro quid facere tamquam sanus debeat, cum restituenda sanitas sit, sine qua inrita sunt praecepta.' Quid quod habent aegri quaedam sanique communia de quibus admonendi sunt? tamquam ne avide cibos adpetant, ut lassitudinem vitent. Habent quaedam praecepta communia pauper et dives. [23] 'Sana' inquit 'avaritiam, et nihil habebis quod admoneas aut pauperem aut divitem, si cupiditas utriusque consedit.' Quid quod aliud est non concupiscere pecuniam, aliud uti pecunia scire? cuius avari modum ignorant, etiam non avari usum. 'Tolle' inquit 'errores: supervacua praecepta sunt.' Falsum est. Puta enim avaritiam relaxatam, puta adstrictam esse luxuriam, temeritati frenos iniectos, ignaviae subditum calcar: etiam remotis vitiis, quid et quemadmodum debeamus facere discendum est. [24] 'Nihil' inquit 'efficient monitiones admotae gravibus vitiis.' Ne medicina quidem morbos insanabiles vincit, tamen adhibetur aliis in remedium, aliis in levamentum. Ne ipsa quidem universae philosophiae vis, licet totas in hoc vires suas advocet, duram iam et veterem animis extrahet pestem; sed non ideo nihil sanat quia non omnia.
[25] 'Quid prodest' inquit 'aperta monstrare?' Plurimum; interdum enim scimus nec adtendimus. Non docet admonitio sed advertit, sed excitat, sed memoriam continet nec patitur elabi. Pleraque ante oculos posita transimus: admonere genus adhortandi est. Saepe animus etiam aperta dissimulat; ingerenda est itaque illi notitia rerum notissimarum. Illa hoc loco in Vatinium Calvi repetenda sententia est: 'factum esse ambitum scitis, et hoc vos scire omnes sciunt'. [26] Scis amicitias sancte colendas esse, sed non facis. Scis inprobum esse qui ab uxore pudicitiam exigit, ipse alienarum corruptor uxorum; scis ut illi nil cum adultero, sic tibi nil esse debere cum paelice, et non facis. Itaque subinde ad memoriam reducendus es; non enim reposita illa esse oportet sed in promptu. Quaecumque salutaria sunt saepe agitari debent, saepe versari, ut non tantum nota sint nobis sed etiam parata. Adice nunc quod aperta quoque apertiora fieri solent.
[27] 'Si dubia sunt' inquit 'quae praecipis, probationes adicere debebis; ergo illae, non praecepta proficient.' Quid quod etiam sine probationibus ipsa monentis auctoritas prodest? sic quomodo iurisconsultorum valent responsa, etiam si ratio non redditur. Praeterea ipsa quae praecipiuntur per se multum habent ponderis, utique si aut carmini intexta sunt aut prosa oratione in sententiam coartata, sicut illa Catoniana: 'emas non quod opus est, sed quod necesse est; quod non opus est asse carum est', qualia sunt illa aut reddita oraculo aut similia: [28] 'tempori parce', 'te nosce'. Numquid rationem exiges cum tibi aliquis hos dixerit versus?
Iniuriarum remedium est oblivio.
Audentis fortuna iuvat, piger ipse sibi opstat.
Advocatum ista non quaerunt: adfectus ipsos tangunt et natura vim suam exercente proficiunt. [29] Omnium honestarum rerum semina animi gerunt, quae admonitione excitantur non aliter quam scintilla flatu levi adiuta ignem suum explicat; erigitur virtus cum tacta est et inpulsa. Praeterea quaedam sunt quidem in animo, sed parum prompta, quae incipiunt in expedito esse cum dicta sunt; quaedam diversis locis iacent sparsa, quae contrahere inexercitata mens non potest. Itaque in unum conferenda sunt et iungenda, ut plus valeant animumque magis adlevent. [30] Aut si praecepta nihil adiuvant, omnis institutio tollenda est; ipsa natura contenti esse debemus. Hoc qui dicunt non vident alium esse ingenii mobilis et erecti, alium tardi et hebetis, utique alium alio ingeniosiorem. Ingenii vis praeceptis alitur et crescit novasque persuasiones adicit innatis et depravata corrigit.
[31] 'Si quis' inquit 'non habet recta decreta, quid illum admonitiones iuvabunt vitiosis obligatum?' Hoc scilicet, ut illis liberetur; non enim extincta in illo indoles naturalis est sed obscurata et oppressa. Sic quoque temptat resurgere et contra prava nititur, nacta vero praesidium et adiuta praeceptis evalescit, si tamen illam diutina pestis non infecit nec enecuit; hanc enim ne disciplina quidem philosophiae toto impetu suo conisa restituet. Quid enim interest inter decreta philosophiae et praecepta nisi quod illa generalia praecepta sunt, haec specialia? Utraque res praecipit, sed altera in totum, particulatim altera.
[32] 'Si quis' inquit 'recta habet et honesta decreta, hic ex supervacuo monetur.' Minime; nam hic quoque doctus quidem est facere quae debet, sed haec non satis perspicit. Non enim tantum adfectibus inpedimur quominus probanda faciamus sed inperitia inveniendi quid quaeque res exigat. Habemus interdum compositum animum, sed residem et inexercitatum ad inveniendam officiorum viam, quam admonitio demonstrat.
[33] 'Expelle' inquit 'falsas opiniones de bonis et malis, in locum autem earum veras repone, et nihil habebit admonitio quod agat.' Ordinatur sine dubio ista ratione animus, sed non ista tantum; nam quamvis argumentis collectum sit quae bona malaque sint, nihilominus habent praecepta partes suas. Et prudentia et iustitia officiis constat: officia praeceptis disponuntur. [34] Praeterea ipsum de malis bonisque iudicium confirmatur officiorum exsecutione, ad quam praecepta perducunt. Utraque enim inter se consentiunt: nec illa possunt praecedere ut non haec sequantur, et haec ordinem sequuntur suum; unde apparet illa praecedere.
[35] 'Infinita' inquit 'praecepta sunt.' Falsum est; nam de maximis ac necessariis rebus non sunt infinita; tenues autem differentias habent quas exigunt tempora, loca, personae, sed his quoque dantur praecepta generalia.
[36] 'Nemo', inquit, 'praeceptis curat insaniam; ergo ne malitiam quidem.' Dissimile est; nam si insaniam sustuleris, sanitas reddita est; si falsas opiniones exclusimus, non statim sequitur dispectus rerum agendarum; ut sequatur, tamen admonitio conroborabit rectam de bonis malisque sententiam. Illud quoque falsum est, nihil apud insanos proficere praecepta. Nam quemadmodum sola non prosunt, sic curationem adiuvant; et denuntiatio et castigatio insanos coercuit — de illis nunc insanis loquor quibus mens mota est, non erepta.
[37] 'Leges' inquit 'ut faciamus quod oportet non efficiunt, et quid aliud sunt quam minis mixta praecepta?' Primum omnium ob hoc illae non persuadent quia minantur, at haec non cogunt sed exorant; deinde leges a scelere deterrent, praecepta in officium adhortantur. His adice quod leges quoque proficiunt ad bonos mores, utique si non tantum imperant sed docent. [38] In hac re dissentio a Posidonio, qui 'quod Platonis legibus adiecta principia sunt. Legem enim brevem esse oportet, quo facilius ab inperitis teneatur. Velut emissa divinitus vox sit: iubeat, non disputet. Nihil videtur mihi frigidius, nihil ineptius quam lex cum prologo. Mone, dic quid me velis fecisse: non disco sed pareo.' Proficiunt vero; itaque malis moribus uti videbis civitates usas malis legibus. [39] 'At non apud omnis proficiunt.' Ne philosophia quidem; nec ideo inutilis et formandis animis inefficax est. Quid autem? philosophia non vitae lex est? Sed putemus non proficere leges: non ideo sequitur ut ne monitiones quidem proficiant. Aut sic et consolationes nega proficere dissuasionesque et adhortationes et obiurgationes et laudationes. Omnia ista monitionum genera sunt; per ista ad perfectum animi statum pervenitur. [40] Nulla res magis animis honesta induit dubiosque et in pravum inclinabiles revocat ad rectum quam bonorum virorum conversatio; paulatim enim descendit in pectora et vim praeceptorum obtinet frequenter aspici, frequenter audiri. Occursus mehercules ipse sapientium iuvat, et est aliquid quod ex magno viro vel tacente proficias. [41] Nec tibi facile dixerim quemadmodum prosit, sicut illud intellegam profuisse. 'Minuta quaedam' ut ait Phaedon 'animalia cum mordent non sentiuntur, adeo tenuis illis et fallens in periculum vis est; tumor indicat morsum et in ipso tumore nullum vulnus apparet.' Idem tibi in conversatione virorum sapientium eveniet: non deprehendes quemadmodum aut quando tibi prosit, profuisse deprendes.
[42] 'Quorsus' inquis 'hoc pertinet?' Aeque praecepta bona, si saepe tecum sint, profutura quam bona exempla. Pythagoras ait alium animum fieri intrantibus templum deorumque simulacra ex vicino cernentibus et alicuius oraculi opperientibus vocem. [43] Quis autem negabit feriri quibusdam praeceptis efficaciter etiam inperitissimos? velut his brevissimis vocibus, sed multum habentibus ponderis:
Nil nimis.
Avarus animus nullo satiatur lucro.
Ab alio expectes alteri quod feceris.
Haec cum ictu quodam audimus, nec ulli licet dubitare aut interrogare 'quare?'; adeo etiam sine ratione ipsa veritas lucet. [44] Si reverentia frenat animos ac vitia conpescit, cur non et admonitio idem possit? Si inponit pudorem castigatio, cur admonitio non faciat, etiam si nudis praeceptis utitur? Illa vero efficacior est et altius penetrat quae adiuvat ratione quod praecipit, quae adicit quare quidque faciendum sit et quis facientem oboedientemque praeceptis fructus expectet. Si imperio proficitur, et admonitione; atqui proficitur imperio; ergo et admonitione. [45] In duas partes virtus dividitur, in contemplationem veri et actionem: contemplationem institutio tradit, actionem admonitio. Virtutem et exercet et ostendit recta actio. Acturo autem si prodest qui suadet, et qui monet proderit. Ergo si recta actio virtuti necessaria est, rectas autem actiones admonitio demonstrat, et admonitio necessaria est. [46] Duae res plurimum roboris animo dant, fides veri et fiducia: utramque admonitio facit. Nam et creditur illi et, cum creditum est, magnos animus spiritus concipit ac fiducia impletur; ergo admonitio non est supervacua. M. Agrippa, vir ingentis animi, qui solus ex iis quos civilia bella claros potentesque fecerunt felix in publicum fuit, dicere solebat multum se huic debere sententiae: 'nam concordia parvae res crescunt, discordia maximae dilabuntur'. [47] Hac se aiebat et fratrem et amicum optimum factum. Si eiusmodi sententiae familiariter in animum receptae formant eum, cur non haec pars philosophiae quae talibus sententiis constat idem possit? Pars virtutis disciplina constat, pars exercitatione; et discas oportet et quod didicisti agendo confirmes. Quod si est, non tantum scita sapientiae prosunt sed etiam praecepta, quae adfectus nostros velut edicto coercent et ablegant.
[48] 'Philosophia' inquit 'dividitur in haec, scientiam et habitum animi; nam qui didicit et facienda ac vitanda percepit nondum sapiens est nisi in ea quae didicit animus eius transfiguratus est. Tertia ista pars praecipiendi ex utroque est, et ex decretis et ex habitu; itaque supervacua est ad implendam virtutem, cui duo illa sufficiunt.' [49] Isto ergo modo et consolatio supervacua est (nam haec quoque ex utroque est) et adhortatio et suasio et ipsa argumentatio; nam et haec ab habitu animi compositi validique proficiscitur. Sed quamvis ista ex optimo habitu animi veniant, optimus animi habitus ex his est; et facit illa et ex illis ipse fit. [50] Deinde istud quod dicis iam perfecti viri est ac summam consecuti felicitatis humanae. Ad haec autem tarde pervenitur; interim etiam inperfecto sed proficienti demonstranda est in rebus agendis via. Hanc forsitan etiam sine admonitione dabit sibi ipsa sapientia, quae iam eo perduxit animum ut moveri nequeat nisi in rectum. Inbecillioribus quidem ingeniis necessarium est aliquem praeire: 'hoc vitabis, hoc facies'. [51] Praeterea si expectat tempus quo per se sciat quid optimum factu sit, interim errabit et errando inpedietur quominus ad illud perveniat quo possit se esse contentus; regi ergo debet dum incipit posse se regere. Pueri ad praescriptum discunt; digiti illorum tenentur et aliena manu per litterarum simulacra ducuntur, deinde imitari iubentur proposita et ad illa reformare chirographum: sic animus noster, dum eruditur ad praescriptum, iuvatur.
[52] Haec sunt per quae probatur hanc philosophiae partem supervacuam non esse. Quaeritur deinde an ad faciendum sapientem sola sufficiat. Huic quaestioni suum diem dabimus: interim omissis argumentis nonne apparet opus esse nobis aliquo advocato qui contra populi praecepta praecipiat? [53] Nulla ad aures nostras vox inpune perfertur: nocent qui optant, nocent qui execrantur. Nam et horum inprecatio falsos nobis metus inserit et illorum amor male docet bene optando; mittit enim nos ad longinqua bona et incerta et errantia, cum possimus felicitatem domo promere. [54] Non licet, inquam, ire recta via; trahunt in pravum parentes, trahunt servi. Nemo errat uni sibi, sed dementiam spargit in proximos accipitque invicem. Et ideo in singulis vitia populorum sunt quia illa populus dedit. Dum facit quisque peiorem, factus est; didicit deteriora, dein docuit, effectaque est ingens illa nequitia congesto in unum quod cuique pessimum scitur. [55] Sit ergo aliquis custos et aurem subinde pervellat abigatque rumores et reclamet populis laudantibus. Erras enim si existimas nobiscum vitia nasci: supervenerunt, ingesta sunt. Itaque monitionibus crebris opiniones quae nos circumsonant repellantur. [56] Nulli nos vitio natura conciliat: illa integros ac liberos genuit. Nihil quo avaritiam nostram inritaret posuit in aperto: pedibus aurum argentumque subiecit calcandumque ac premendum dedit quidquid est propter quod calcamur ac premimur. Illa vultus nostros erexit ad caelum et quidquid magnificum mirumque fecerat videri a suspicientibus voluit: ortus occasusque et properantis mundi volubilem cursum, interdiu terrena aperientem, nocte caelestia, tardos siderum incessus si compares toti, citatissimos autem si cogites quanta spatia numquam intermissa velocitate circumeant, defectus solis ac lunae invicem obstantium, alia deinceps digna miratu, sive per ordinem subeunt sive subitis causis mota prosiliunt, ut nocturnos ignium tractus et sine ullo ictu sonituque fulgores caeli patescentis columnasque ac trabes et varia simulacra flammarum. [57] Haec supra nos natura disposuit, aurum quidem et argentum et propter ista numquam pacem agens ferrum, quasi male nobis committerentur, abscondit. Nos in lucem propter quae pugnaremus extulimus, nos et causas periculorum nostrorum et instrumenta disiecto terrarum pondere eruimus, nos fortunae mala nostra tradidimus nec erubescimus summa apud nos haberi quae fuerant ima terrarum. [58] Vis scire quam falsus oculos tuos deceperit fulgor? nihil est istis quamdiu mersa et involuta caeno suo iacent foedius, nihil obscurius, quidni? quae per longissimorum cuniculorum tenebras extrahuntur; nihil est illis dum fiunt et a faece sua separantur informius. Denique ipsos opifices intuere per quorum manus sterile terrae genus et infernum perpurgatur: videbis quanta fuligine oblinantur. [59] Atqui ista magis inquinant animos quam corpora, et in possessore eorum quam in artifice plus sordium est. Necessarium itaque admoneri est, habere aliquem advocatum bonae mentis et in tanto fremitu tumultuque falsorum unam denique audire vocem. Quae erit illa vox? ea scilicet quae tibi tantis clamoribus ambitionis exsurdato salubria insusurret verba, quae dicat: [60] non est quod invideas istis quos magnos felicesque populus vocat, non est quod tibi compositae mentis habitum et sanitatem plausus excutiat, non est quod tibi tranquillitatis tuae fastidium faciat ille sub illis fascibus purpura cultus, non est quod feliciorem eum iudices cui summovetur quam te quem lictor semita deicit. Si vis exercere tibi utile, nulli autem grave imperium, summove vitia. [61] Multi inveniuntur qui ignem inferant urbibus, qui inexpugnabilia saeculis et per aliquot aetates tuta prosternant, qui aequum arcibus aggerem attollant et muros in miram altitudinem eductos arietibus ac machinis quassent. Multi sunt qui ante se agant agmina et tergis hostium [et] graves instent et ad mare magnum perfusi caede gentium veniant, sed hi quoque, ut vincerent hostem, cupiditate victi sunt. Nemo illis venientibus restitit, sed nec ipsi ambitioni crudelitatique restiterant; tunc cum agere alios visi sunt, agebantur. [62] Agebat infelicem Alexandrum furor aliena vastandi et ad ignota mittebat. An tu putas sanum qui a Graeciae primum cladibus, in qua eruditus est, incipit? qui quod cuique optimum est eripit, Lacedaemona servire iubet, Athenas tacere? Non contentus tot civitatium strage, quas aut vicerat Philippus aut emerat, alias alio loco proicit et toto orbe arma circumfert; nec subsistit usquam lassa crudelitas inmanium ferarum modo quae plus quam exigit fames mordent. [63] Iam in unum regnum multa regna coniecit, iam Graeci Persaeque eundem timent, iam etiam a Dareo liberae nationes iugum accipiunt; it tamen ultra oceanum solemque, indignatur ab Herculis Liberique vestigiis victoriam flectere, ipsi naturae vim parat. Non ille ire vult, sed non potest stare, non aliter quam in praeceps deiecta pondera, quibus eundi finis est iacuisse. [64] Ne Gnaeo quidem Pompeio externa bella ac domestica virtus aut ratio suadebat, sed insanus amor magnitudinis falsae. Modo in Hispaniam et Sertoriana arma, modo ad colligandos piratas ac maria pacanda vadebat: hae praetexebantur causae ad continuandam potentiam. [65] Quid illum in Africam, quid in septentrionem, quid in Mithridaten et Armeniam et omnis Asiae angulos traxit? infinita scilicet cupido crescendi, cum sibi uni parum magnus videretur. Quid C. Caesarem in sua fata pariter ac publica inmisit? gloria et ambitio et nullus supra ceteros eminendi modus. Unum ante se ferre non potuit, cum res publica supra se duos ferret. [66] Quid, tu C. Marium semel consulem (unum enim consulatum accepit, ceteros rapuit), cum Teutonos Cimbrosque concideret, cum Iugurtham per Africae deserta sequeretur, tot pericula putas adpetisse virtutis instinctu? Marius exercitus, Marium ambitio ducebat. [67] Isti cum omnia concuterent, concutiebantur turbinum more, qui rapta convolvunt sed ipsi ante volvuntur et ob hoc maiore impetu incurrunt quia nullum illis sui regimen est, ideoque, cum multis fuerunt malo, pestiferam illam vim qua plerisque nocuerunt ipsi quoque sentiunt. Non est quod credas quemquam fieri aliena infelicitate felicem.
[68] Omnia ista exempla quae oculis atque auribus nostris ingeruntur retexenda sunt, et plenum malis sermonibus pectus exhauriendum; inducenda in occupatum locum virtus, quae mendacia et contra verum placentia exstirpet, quae nos a populo cui nimis credimus separet ac sinceris opinionibus reddat. Hoc est enim sapientia, in naturam converti et eo restitui unde publicus error expulerit. [69] Magna pars sanitatis est hortatores insaniae reliquisse et ex isto coitu invicem noxio procul abisse. Hoc ut esse verum scias, aspice quanto aliter unusquisque populo vivat, aliter sibi. Non est per se magistra innocentiae solitudo nec frugalitatem docent rura, sed ubi testis ac spectator abscessit, vitia subsidunt, quorum monstrari et conspici fructus est. [70] Quis eam quam nulli ostenderet induit purpuram? quis posuit secretam in auro dapem? quis sub alicuius arboris rusticae proiectus umbra luxuriae suae pompam solus explicuit? Nemo oculis suis lautus est, ne paucorum quidem aut familiarium, sed apparatum vitiorum suorum pro modo turbae spectantis expandit. [71] Ita est: inritamentum est omnium in quae insanimus admirator et conscius. Ne concupiscamus efficies si ne ostendamus effeceris. Ambitio et luxuria et inpotentia scaenam desiderant: sanabis ista si absconderis. [72] Itaque si in medio urbium fremitu conlocati sumus, stet ad latus monitor et contra laudatores ingentium patrimoniorum laudet parvo divitem et usu opes metientem. Contra illos qui gratiam ac potentiam attollunt otium ipse suspiciat traditum litteris et animum ab externis ad sua reversum. [73] Ostendat ex constitutione vulgi beatos in illo invidioso fastigio suo trementis et attonitos longeque aliam de se opinionem habentis quam ab aliis habetur; nam quae aliis excelsa videntur ipsis praerupta sunt. Itaque exanimantur et trepidant quotiens despexerunt in illud magnitudinis suae praeceps; cogitant enim varios casus et in sublimi maxime lubricos. [74] Tunc adpetita formidant et quae illos graves aliis reddit gravior ipsis felicitas incubat. Tunc laudant otium lene et sui iuris, odio est fulgor et fuga a rebus adhuc stantibus quaeritur. Tunc demum videas philosophantis metu et aegrae fortunae sana consilia. Nam quasi ista inter se contraria sint, bona fortuna et mens bona, ita melius in malis sapimus: secunda rectum auferunt. Vale.
1 Certi filosofi hanno accolto unicamente quella parte della filosofia che dà insegnamenti particolari sul ruolo che ognuno ricopre nella vita, e non forma l'uomo in generale, ma consiglia al marito come comportarsi verso la moglie, al padre come educare i figli, al padrone come governare i servi, e hanno trascurato le altre parti come fossero per noi inutili, quasi si potessero dare consigli su un aspetto della vita senza averla prima abbracciata nella sua totalità. 2 Secondo lo stoico Aristone, invece, questa parte è poco importante e non penetra nell'intimo, con i suoi insegnamenti da nonnetta; per lui giovano moltissimo i princìpî stessi della filosofia e la definizione del sommo bene; "chi l'ha compresa e imparata bene, può decidere lui stesso il da farsi in ogni singola circostanza." 3 Quando uno impara a scagliare il giavellotto, cerca di colpire il bersaglio ed esercita la mano a dirigere il tiro; raggiunta questa capacità con la disciplina e l'esercizio, se ne serve a suo piacimento, perché non ha imparato a colpire questo o quel bersaglio, ma tutti quelli che vuole; così, se uno è preparato ad affrontare la vita in tutti i suoi aspetti, non ha bisogno di essere consigliato sui particolari, perché è istruito in generale, e non su come vivere con la moglie o con il figlio, ma su come vivere bene: e questo comprende anche come vivere con la moglie o coi figli. 4 Per Cleante anche questa parte è utile, ma è inefficace se non ha origine da una conoscenza universale, se non conosce i precetti e i princìpî stessi della filosofia.
Questa sezione della filosofia, cioè la precettistica particolare, presenta due problemi: se sia utile o inutile e se da sola possa rendere l'uomo virtuoso, o meglio se sia superflua o renda superflue tutte le altre. 5 Chi la ritiene superflua afferma: se un ostacolo impedisce la vista, va rimosso; finché rimane, è tempo perso impartire degli insegnamenti: "camminerai così, stenderai la mano da quella parte." Allo stesso modo quando qualcosa ottenebra l'anima e le impedisce di comprendere la scala dei doveri, chi insegna: "Così vivrai col padre, così con la moglie" non conclude niente. Gli ammaestramenti non serviranno a nulla finché l'errore offusca la mente: se viene eliminato apparirà chiaro come dobbiamo adempiere a ciascun dovere. Altrimenti tu insegni a uno che cosa debba fare un uomo sano, ma non lo rendi sano. 6 Mostri al povero come comportarsi da ricco: ma se rimane povero, come può farlo? All'affamato spieghi che cosa dovrebbe fare se fosse sazio: togligli piuttosto la fame che ha nelle ossa. Lo stesso vale per tutti i vizi: bisogna eliminarli, non insegnare cose impossibili a realizzarsi finché essi rimangono. Se non rimuoverai i pregiudizi che ci affliggono, l'avaro non comprenderà come va usato il denaro, né il vile come disprezzare i pericoli. 7 Devi fargli comprendere che il denaro non è né un bene, né un male e mostrargli persone ricche molto infelici. Devi fargli comprendere che quello che generalmente temiamo non è temibile come si dice, che nessuno soffre a lungo e non muore più di una volta: nella morte, che è inevitabile, c'è un grande motivo di consolazione: non ritorna per nessuno; nel dolore sarà un rimedio la fermezza d'animo, che rende meno penosi i mali se sopportati con coraggio; la natura del dolore è eccellente, perché, se si protrae, non può essere grande, e se è grande, non può protrarsi. Dobbiamo accettare da forti quanto ci comanda la legge dell'universo. 8 Quando, stabiliti questi princìpî, metterai uno davanti alla sua condizione e capirà che si è felici vivendo non secondo piacere, ma secondo natura, quando amerà veramente la virtù come unico bene dell'uomo e fuggirà la disonestà come unico male, quando comprenderà che tutto il resto - ricchezza, onori, salute, forze, poteri - sono cose indifferenti da non annoverarsi né tra i beni, né tra i mali, allora non sentirà il bisogno di uno che lo consigli in ogni situazione e dica: "Cammina così, pranza così; questo comportamento è adatto all'uomo, questo alla donna, questo a chi è sposato, questo al celibe." 9 Chi dà questi consigli così minuziosi non è in grado di metterli in pratica nemmeno lui; il pedagogo impartisce questi insegnamenti all'allievo, la nonna al nipote e il maestro, così proclive all'ira, disputa sulla necessità di non adirarsi. Se entrerai in una scuola, ti renderai conto che i precetti elargiti dai filosofi con estrema alterigia si trovano già nei libri di testo per l'infanzia.
10 E poi, darai ammaestramenti lampanti o dubbi? Quelli lampanti non hanno bisogno di consiglieri; quanto a quelli dubbi non si presta fede a chi li dà: dunque, ammaestrare è inutile. Soprattutto impara questo: se dài consigli oscuri e ambigui, dovrai provarli; se li proverai, le prove addotte hanno più valore e bastano di per sé. 11 "Tratta così con l'amico, così con il concittadino, così con il compagno." "Perché?" "Perché è giusto." Tutti questi insegnamenti mi vengono dalla sezione della filosofia che riguarda la giustizia: lì apprendo che bisogna desiderare la giustizia di per sé, che ad essa non ci costringe la paura o ci induce il guadagno, che non è un uomo giusto chi in questa virtù si compiace di qualcosa al di fuori di essa. Quando mi sono persuaso e sono profondamente convinto di ciò a che servono questi precetti che insegnano a uno già istruito? A chi sa, è inutile dare dei precetti, a chi non sa, è poco, poiché deve apprendere non solo quello che gli viene insegnato, ma anche perché. 12 I precetti, dico io, sono necessari, per chi ha le idee chiare sul bene e sul male, o per chi non le ha? A costui tu non sarai affatto d'aiuto: dicerie contrarie ai tuoi consigli gli otturano le orecchie. Se uno sa esattamente che cosa evitare o che cosa ricercare, sa come deve comportarsi anche senza che tu parli. In conclusione, tutta questa parte della filosofia si può eliminare.
13 Per due motivi noi erriamo: o c'è nell'animo una perversità prodotta da convinzioni malvagie, oppure, anche se esso non è in preda all'errore, vi è incline e, fuorviato dalle apparenze, fa presto a rovinarsi. Perciò dobbiamo o curare bene lo spirito ammalato e liberarlo dai vizi, oppure, se ne è libero, ma è propenso al male, prenderne possesso in tempo. I principî della filosofia hanno sia l'uno che l'altro effetto; pertanto questo genere di insegnamenti non serve a niente. 14 E poi, impartire norme a ognuno è un'impresa immane: sono di un certo tipo per l'usuraio, di un altro per il contadino, per il commerciante, per il cortigiano, per chi cerca l'amicizia dei suoi pari e per chi quella degli inferiori. 15 Nel matrimonio insegnerai come vivere con una donna sposata vergine, o con una che ha avuto un marito in precedenza, come vivere con una donna ricca o con una senza dote. Oppure secondo te non c'è differenza tra una donna sterile e una feconda, fra una matura e una ragazzina, fra una madre e una matrigna? Non possiamo abbracciare tutti i vari casi: eppure ciascuno richiede regole particolari, mentre le norme della filosofia sono brevi e comprendono tutto. 16 I precetti della saggezza, inoltre, devono essere definiti e precisi; se non si possono definire, non fanno parte della saggezza, che conosce i limiti delle cose. Bisogna pertanto eliminare questa parte precettistica, perché non è in grado di garantire a tutti le promesse fatte a pochi; la saggezza, invece, riguarda tutti. 17 Fra la pazzia collettiva e quella curata dai medici non c'è differenza, se non che questa nasce da malattia, quell'altra da false opinioni; l'una affonda le radici della sua frenesia nello stato di salute, l'altra è una malattia dell'anima. Se a un pazzo qualcuno volesse insegnare come parlare, camminare, comportarsi in pubblico e in privato, sarebbe più folle di lui: bisogna curare la bile nera e rimuovere la causa stessa della pazzia. Lo stesso va fatto per la pazzia dello spirito: la si deve scacciare, altrimenti i consigli andranno sprecati.
18 Queste sono le affermazioni di Aristone e noi le controbatteremo una per una. Veniamo alla prima; egli sostiene che, se c'è un ostacolo davanti agli occhi e ne impedisce la vista, deve essere rimosso; anch'io ammetto che per vedere non c'è bisogno di precetti, ma di un rimedio che liberi la vista ed elimini l'ostacolo che la impedisce: la vista è un fatto naturale e rimuovendo ciò che è d'impedimento le restituiamo la sua funzione. Ma la natura non insegna come si debba adempiere a ciascun dovere. 19 In secondo luogo, chi è stato curato di cataratta non può appena riacquistata la vista, restituirla anche ad altri; invece, uno liberato dalla malvagità, può liberare a sua volta gli altri. Non sono necessarie esortazioni e neppure consigli perché l'occhio colga le proprietà dei colori: distinguerà il bianco dal nero anche senza che nessuno glielo insegni. L'anima, invece, ha bisogno di numerosi consigli per comprendere come debba comportarsi nella vita. In realtà, il medico i malati agli occhi non solo li cura, ma dà loro anche dei consigli. 20 "Non esporre sùbito la vista ancora debole a una luce troppo violenta," dice; "prima passa dall'oscurità alla penombra, poi osa di più e abìtuati gradualmente a sopportare la viva luce. Non devi studiare dopo aver mangiato e nemmeno sforzare gli occhi gonfi e tumefatti: evita il vento e il freddo pungente che ti batte in faccia", e altri suggerimenti simili, utili quanto le medicine. L'arte medica aggiunge consigli alle cure.
21 "L'errore," continua Aristone, "è la causa delle nostre mancanze: i precetti non lo eliminano e non dissipano le idee sbagliate sul bene e sul male." Ammetto che i precetti non riescano di per sé a rimuovere le convinzioni errate; ma non per questo non servono, uniti anche ad altri sistemi. Per prima cosa rinfrescano la memoria; poi, quei concetti che, tutti insieme, sembravano piuttosto confusi, divisi in sezioni, possono essere esaminati con più attenzione. Oppure, in questo modo, puoi definire inutili anche i discorsi consolatori e di esortazione: e invece non sono inutili; quindi, non lo sono neppure gli ammonimenti. 22 "È sciocco," dice, "insegnare a un malato che cosa debba fare come se fosse sano; restituiscigli, invece, la salute: senza di essa i precetti sono vani." E che dire del fatto che ad ammalati e sani su certe questioni vanno rivolti consigli uguali? Come ad esempio, non mangiare con avidità ed evitare la spossatezza. Anche per il povero e il ricco ci sono precetti in comune. 23 "Guarisci l'avidità," afferma Aristone, "e non dovrai dare consigli al povero o al ricco, se si è calmata la loro cupidigia." Ma come? Un conto è non desiderare il denaro, un altro è saperlo usare. Gli avari ne ignorano la giusta misura, ma anche chi non è avaro può ignorarne il giusto uso. "Elimina gli errori," dice il filosofo, "e i precetti sono inutili." È falso. Immagina che si sia mitigata l'avidità, domata la dissolutezza, frenata l'imprudenza, spronata l'ignavia: anche se i vizi sono stati eliminati, bisogna imparare che cosa fare e come. 24 "Contro i vizi gravi," egli sostiene, "non riusciranno a niente gli ammonimenti." Nemmeno la medicina vince le malattie inguaribili, eppure viene usata come rimedio per alcune, per altre come sollievo. Nemmeno la potenza stessa dell'intera filosofia, anche se chiama a raccolta tutte le sue forze, potrà sradicare dall'animo un male ormai incallito e di vecchia data; ma perché non guarisce tutto, non si può dire che non guarisca niente.
25 "A che serve," dice Aristone, "insegnare l'evidenza?" Serve moltissimo. Certe volte, infatti, le cose le sappiamo, ma non siamo attenti. Le esortazioni non servono da insegnamento, risvegliano, però l'attenzione, stimolano, mantengono viva la memoria e non la lasciano smarrire. Noi tralasciamo molte cose che pure abbiamo davanti agli occhi: un ammonimento è una forma di esortazione. Spesso l'animo finge di non vedere neppure l'evidenza; e allora bisogna ricordargli anche le cose più note. A questo punto è bene ricordare la frase pronunciata da Calvo contro Vatinio: "Voi lo sapete che c'è stato un broglio e tutti sanno che voi lo sapete." 26 Sai che le amicizie vanno venerate come sacre, ma non lo fai. Sai che è un infame chi pretende dalla moglie il pudore, ma seduce le donne altrui; sai che come lei non deve avere rapporti con un altro, così tu non ne devi avere con un'amante, e non lo fai. Perciò bisogna rinfrescarti sovente la memoria; quei princìpî non devono stare in un canto, ma essere a portata di mano. Tutte le norme salutari vanno esaminate di frequente e meditate; non devono esserci solo note: devono essere sùbito disponibili. Inoltre anche i concetti chiari diventano di solito ancò ra più chiari.
27 "Se i tuoi ammaestramenti sono incerti," continua, "dovrai aggiungere delle prove; perciò utili saranno quelle e non gli ammaestramenti." Ma se a giovare è proprio l'autorità di chi consiglia, anche senza prove? Così come i pareri dei giureconsulti sono validi anche se non se ne dà una spiegazione. E poi gli stessi ammaestramenti hanno molto peso di per sé, soprattutto se messi in versi oppure racchiusi in massime in prosa come quelli di Catone: "compra non l'occorrente, ma l'indispensabile; il superfluo è caro anche a pagarlo un soldo"; 28 e così i responsi dell'oracolo o simili: "risparmia il tempo", "conosci te stesso". Chiederai spiegazioni quando uno ti reciterà questi versi?
L'oblio è il rimedio delle offese.
La fortuna aiuta gli audaci, il pigro è di ostacolo a se stesso.
Sono parole che non richiedono un esperto; toccano i sentimenti e sono utili perché la natura fa sentire la sua forza. 29 L'animo porta in sé i semi di tutte le virtù, questi vengono fatti germogliare dalle esortazioni, come la scintilla, attizzata da un soffio leggero, sviluppa la sua fiamma; la virtù cresce, se è spronata e incitata. Inoltre ci sono nell'animo dei princìpî, non molto evidenti però che cominciano a essere pronti solo quando vengono espressi; altri si trovano sparsi qua e là e la mente poco esercitata non riesce a metterli insieme. Bisogna perciò radunarli e congiungerli perché siano più efficaci e risollevino meglio l'animo. 30 Oppure se i precetti non servono a niente, ogni insegnamento va eliminato e dobbiamo accontentarci della sola natura. Coloro che sostengono questa tesi non si rendono conto che uno è di ingegno vivace e sveglio, lento e ottuso un altro, e che in ogni caso non tutti sono intelligenti allo stesso modo. La forza dell'intelligenza è alimentata dai precetti, cresce, aggiunge nuove convinzioni a quelle innate e corregge le idee distorte.
31 "Se uno non ha dei retti princìpî," continua Aristone, "legato com'è al malcostume, a che cosa gli serviranno gli ammonimenti?" Naturalmente a liberarsene, perché in lui le qualità naturali non sono scomparse, ma soltanto nascoste e oppresse. Anche così esse cercano di risollevarsi e di resistere alla depravazione e, trovato un sostegno e un aiuto nei precetti, riprendono forza, purché non le abbia infettate a morte un male di vecchia data: in questo caso non potrà sanarle neppure la dottrina filosofica impiegando tutte le sue forze. Che differenza c'è, infatti, fra i princìpî filosofici e i precetti se non che i primi sono norme universali, i secondi particolari? Entrambi istruiscono, ma gli uni in generale, gli altri in particolare.
32 "Se uno," egli dice, "ha dei princìpî retti e onesti è inutile dargli dei consigli." Niente affatto; anche costui conosce il suo dovere, ma non ne ha una chiara percezione. Non sono solo le passioni a impedirci di agire virtuosamente, ma l'incapacità di capire che cosa esigano le singole circostanze. Il nostro animo a volte è ben regolato, ma inerte e poco pratico a trovare la via dei doveri, che un buon consiglio ci può invece indicare.
33 "Elimina," egli dice, "le false idee sul bene e sul male, metti al loro posto idee giuste e i consigli saranno inutili." Questo sistema senza dubbio regola l'animo, ma non basta; anche se con argomentazioni logiche si ricava qual è il bene e qual è il male, tuttavia i precetti hanno un loro ruolo. Sia la prudenza che la giustizia sono formate da vari doveri: e i doveri li determinano i precetti. 34 Inoltre, anche il giudizio sul male e sul bene trova conferma nel compimento dei doveri, e a questo ci conducono i precetti. Sono due cose in armonia tra loro: gli uni non possono precedere senza che gli altri seguano e questi seguono un ordine proprio; è quindi evidente che sono i doveri a precedere.
35 "I precetti," dice Aristone, "sono infiniti." Non è vero; sulle questioni più importanti e fondamentali non sono infiniti; ci sono differenze minime determinate dal momento, dal luogo, dalle persone, ma anche in questi casi si dànno precetti generali.
36 "Non si può curare," sostiene, "la pazzia con i precetti; quindi, nemmeno la malvagità." È diverso: se elimini la pazzia restituisci la salute mentale; togliendo di mezzo le idee false, invece, non ce ne deriva immediatamente la capacità di distinguere le azioni da compiere; ma, posto che sia così, un consiglio avvalorerà il nostro giusto giudizio sul bene e sul male. Ed è ugualmente falso che ai pazzi i precetti non servano a nulla. Da soli non giovano, ma sono di aiuto alla cura; i pazzi li frenano sia le minacce che le punizioni - certo, mi riferisco a quelli la cui mente vacilla, ma non è stravolta completamente.
37 "Le leggi," dice, "non riescono a farci comportare come dovremmo, e che altro sono se non precetti misti a minacce?" Prima di tutto le leggi non persuadono proprio perché minacciano, mentre i precetti non costringono, ma cercano di persuadere; le leggi, inoltre, distolgono dal delitto, i precetti esortano al dovere. E poi anche le leggi giovano alla moralità, specialmente se, oltre a comandare, insegnano. 38 In questo non sono d'accordo con l'affermazione di Posidonio: "Disapprovo che alle leggi di Platone siano stati aggiunti dei princìpî. La legge deve essere breve, perché i profani la comprendano meglio. Sia come una voce che viene dal cielo: comandi senza discutere. Per me non c'è niente di più insulso, niente di più inopportuno di una legge preceduta da un preambolo. Consigliami, dimmi che cosa vuoi che faccia: non imparo, ma obbedisco." In realtà le leggi servono; e infatti vedrai che sono corrotte le città governate da cattive leggi. 39 "Ma non servono a tutti." Neppure la filosofia; non per questo, però è inutile e incapace di formare l'animo. E come? La filosofia non è la legge della vita? Ma supponiamo che le leggi non servano: non ne consegue che non siano utili neppure gli ammonimenti. Oppure allo stesso modo dirai che non servono le parole di conforto, di dissuasione, gli incitamenti, i rimproveri, le lodi. Sono tutte forme di ammonimento; per mezzo loro raggiungiamo la perfezione spirituale. 40 Niente rende più virtuosi gli animi e li riconduce sulla retta via, se sono incerti e inclini al male, quanto la compagnia di uomini onesti; a poco a poco essa penetra nell'intimo e la loro vista e il loro ascolto abituale ha la stessa forza dei precetti. Anche il solo incontrarsi coi saggi è utile, per dio, e da un grand'uomo puoi trarre dei vantaggi perfino se tace. 41 Capire che mi è stato utile è per me più facile che dirti in che modo mi è utile. "Certi animaletti quando pungono non li sentiamo," dice Fedone, "tanto debole è la loro forza e ci inganna sul pericolo; il gonfiore rivela la puntura, eppure nel gonfiore stesso non si vede nessuna ferita." Ti accadrà lo stesso nei rapporti coi saggi; non ti accorgerai come o quando ti giovano, ma ti accorgerai che ti hanno giovato.
42 "Dove va a parare questo discorso?" chiedi. I buoni precetti, se li terrai sempre presenti, ti saranno utili quanto i buoni esempi. Pitagora afferma che cambia interiormente una persona che entra in un tempio e vede da vicino le immagini degli dèi e attende il responso di un oracolo. 43 E chi può negare che certi precetti colpiscano nel segno anche gli uomini più ignoranti? Come queste frasi molto concise, ma pregnanti:
Niente di troppo.
Non c'è guadagno che sazi l'animo dell'avaro.
Aspettati da altri ciò che hai fatto al tuo prossimo.
A queste parole rimaniamo come colpiti e nessuno può dubitare o chiedere: "Perché?", tanto la verità è palese anche senza spiegazioni. 44 Se il rispetto frena gli animi e reprime i vizi, perché non dovrebbero avere la stessa efficacia anche gli ammonimenti? Se la punizione è causa di vergogna, perché non dovrebbe essere lo stesso per gli ammonimenti, anche se si avvalgono di semplici precetti? In realtà sono più efficaci e penetrano più a fondo i consigli che sostengono con prove i loro insegnamenti, che aggiungono quali siano le azioni da compiere e le loro motivazioni e quale utile attenda chi agisce in obbedienza ai precetti. Se gli ordini servono, servono anche i consigli; ebbene, gli ordini servono, dunque servono anche i consigli. 45 La virtù si divide in due parti: contemplazione della verità e azione: la prima ce la dànno gli insegnamenti, alla seconda ci spingono i consigli. Le azioni oneste esercitano e mostrano la virtù. Se i consigli giovano a chi intende operare, gli saranno utili anche gli ammonimenti. Quindi, se l'agire onestamente è necessario alla virtù e gli ammonimenti indicano le azioni oneste, anche gli ammonimenti sono necessari. 46 Due cose dànno una grandissima forza all'anima, la fede nella verità e la fiducia in se stessi; entrambe ci vengono dagli ammonimenti, poiché in essi si crede e, quando si è giunti a credere, l'anima concepisce sentimenti elevati e si riempie di fiducia; quindi, gli ammonimenti non sono inutili. M. Agrippa, uomo di straordinario temperamento, l'unico ad aver fortuna nella vita pubblica fra le persone rese famose e potenti dalle guerre civili, spesso diceva di dover molto a questa massima: "Con la concordia i piccoli stati crescono, con la discordia vanno in rovina i più grandi." Affermava che essa lo aveva reso un eccellente amico e fratello. 47 Se massime di questo tipo recepite nell'intimo formano l'animo, perché non potrebbe fare lo stesso anche quella sezione della filosofia che da tali massime è formata? Parte della virtù si basa sull'insegnamento, parte sull'esercizio; devi imparare e poi confermare con le azioni quanto hai appreso. Se ciò si verifica, non servono solo i princìpi della saggezza, ma anche i precetti, che frenano le nostre passioni e le reprimono come in forza di un editto.
48 "La filosofia," dice Aristone, "si divide in conoscenza e stato morale; chi ha imparato e capìto le azioni da compiere e quelle da evitare, non è ancora saggio se il suo animo non si è modellato su quanto ha appreso. Questa terza parte, cioè l'insegnamento, deriva sia dalla dottrina che dallo stato morale, perciò è superflua per conseguire la virtù: bastano le prime due." 49 A questo modo, dunque, sono inutili le parole di conforto (anch'esse derivano da quelle due parti), l'incitamento, il consiglio e la stessa argomentazione, poiché anche questa nasce da uno stato d'animo sereno e forte. Ma sebbene queste cose provengano da un'ottima condizione morale, tale condizione dipende da esse; le origina e ne trae origine. 50 Le tue affermazioni, inoltre, riguardano l'uomo che ha raggiunto la perfezione e il culmine della felicità umana. Ma è una meta a cui si arriva lentamente; intanto all'uomo ancòra imperfetto, ma in via di progresso, bisogna indicare una linea d'azione. Forse il saggio se la darà da solo, anche senza che nessuno lo ammonisca, poiché ha portato l'animo al punto di non potersi muovere se non verso il bene. Ma ai caratteri più deboli è necessario che uno suggerisca: "Evita questo, fa' quello." 51 Inoltre se uno aspetta il momento di sapere da sé che cosa sia meglio fare, nel frattempo si allontanerà dalla retta via e allontanandosene non riuscirà a giungere là dove può essere contento di sé; deve, dunque, essere guidato finché non incomincia a potersi guidare da solo. I ragazzi apprendono in base a un modello: il maestro tiene loro con la mano le dita guidandole lungo i segni delle lettere; quindi li esorta a imitare gli esempi proposti e a uniformare a essi la grafia: allo stesso modo trae giovamento il nostro animo, istruito secondo un modello.
52 Tali prove dimostrano come questa parte della filosofia non sia superflua. Ci si chiede, poi, se da sola basti a formare il saggio. Questo problema lo affronteremo a suo tempo; intanto, messe da parte le prove, non è forse chiaro che abbiamo bisogno di un esperto che ci dia ammaestramenti contrari a quelli della massa? 53 Tutte le parole che ascoltiamo ci danneggiano: ci nuoce chi ci augura il bene come chi ci augura il male. Le maledizioni degli uni ci incutono false paure, e l'amore degli altri, con i suoi buoni augùrî, ci dà dei cattivi insegnamenti, perché ci indirizza verso beni lontani, incerti e dubbi, mentre la nostra felicità la possiamo trovare dentro di noi. 54 Non si può secondo me, procedere per la retta via; ci fanno deviare i genitori, i servi. Nessuno coinvolge negli errori solo se stesso, ma diffonde la sua follia sul prossimo e a sua volta la riceve dagli altri. Per questo i vizi della massa li ritroviamo nei singoli: è stata la massa a trasmetterli. Nel momento in cui uno corrompe, è corrotto; ha imparato il male e lo ha poi insegnato e ne è nata quell'enorme malvagità, poiché si accumulano in un solo individuo i vizi peggiori di ciascuno. 55 Deve, dunque, esserci qualcuno che ci sorvegli, che di volta in volta ci tiri le orecchie, e tenga lontano le chiacchiere della gente e protesti contro le lodi della folla. Sbagli se pensi che i vizi nascano con noi: sono venuti dopo, si sono accumulati in noi. Respingiamo, perciò con moniti frequenti, i pregiudizi che ci rintronano. 56 La natura non ci mette sulla strada del vizio: ci ha generati puri e liberi. Non ha messo in evidenza niente che eccitasse la nostra avidità: ci ha posto sotto i piedi l'oro e l'argento e ci ha dato da calpestare e da schiacciare quello per cui siamo calpestati e schiacciati. Ci ha fatto volgere lo sguardo al cielo e ha voluto che quanto di grandioso e stupendo essa ha creato noi lo vedessimo alzando gli occhi: il sorgere e il tramontare degli astri, il vertiginoso moto su se stesso del mondo che mostra di giorno le bellezze terrene, di notte quelle celesti, il procedere delle stelle, lento se lo paragoni a quello dell'universo, ma velocissimo se pensi che enormi spazi percorrano a velocità costante, le eclissi del sole e della luna che si oscurano a vicenda, e altri fenomeni ancora, degni di ammirazione sia che si manifestino con ordine o che compaiano d'un tratto determinati da cause improvvise, come strisce di fuoco nella notte e lampi nel cielo che si apre senza colpi o tuoni, colonne di fuoco, meteore e varie figure fiammeggianti. 57 Tutto questo la natura lo ha posto sopra di noi, ma l'oro, l'argento e il ferro, che per questi metalli è sempre in guerra, li ha nascosti, come se fosse male affidarceli. Li abbiamo portati noi alla luce e per essi combattiamo, abbiamo tirato fuori noi le cause e gli strumenti dei nostri pericoli fendendo il grembo della terra, noi abbiamo affidato alla fortuna le nostre disgrazie e non ci vergogniamo di tenere nella massima considerazione materiali che stavano sottoterra in profondità. 58 Vuoi sapere che falso splendore ha ingannato i tuoi occhi? Finché essi giacciono coperti e immersi nel fango, non c'è niente di più brutto, di più ignobile. E perché no? Vengono estratti attraverso lunghissimi e oscuri cunicoli. Non c'è niente di più orribile, mentre vengono alla luce e sono liberati dalle impurità. Guarda, infine, gli stessi operai che con le mani ripuliscono questa sorta di terra sterile e sotterranea: vedrai come sono sporchi di fuliggine! 59 Eppure questi metalli insudiciano più l'animo che il corpo e ci si sporca più a possederli che a lavorarli. È necessario, dunque, essere consigliati, aver vicino una persona onesta che ci difenda, e fra tanto strepito e confusione di menzogne dar ascolto finalmente a una voce sola. Quale sarà questa voce? Naturalmente quella che ti sussurri parole salutari, assordato come sei dal gran chiasso dell'ambizione, una voce che dica: 60 non c'è ragione di invidiare gli uomini che il popolo definisce importanti e fortunati; non c'è ragione che il plauso distrugga la tua serenità e la tua salute spirituale, che quel porporato pieno di cariche ti faccia venire a nausea la tua pace, che tu ritenga quell'uomo, al cui passaggio tutti fanno largo, più felice di te che il littore scaccia dalla via. Se vuoi esercitare un potere che ti torni utile e non opprima nessuno, elimina i vizi. 61 Ci sono molti che danno fuoco alle città, e distruggono costruzioni che avevano resistito attraverso i secoli ed erano state al sicuro per lungo tempo, molti che erigono terrapieni alti quanto fortezze, e con arieti e macchine da guerra abbattono mura straordinariamente elevate. Ci sono molti che mettono in fuga eserciti e incalzano minacciosamente i nemici e giungono all'oceano bagnati dal sangue delle stragi: anche loro, però per vincere un nemico sono stati vinti dalle passioni. Nessuno ha resistito alla loro avanzata, ma neanche essi avevano resistito all'ambizione e alla crudeltà; e quando sembrava che inseguissero gli altri, erano loro ad essere inseguiti. 62 Una folle smania di devastare paesi stranieri spingeva l'infelice Alessandro e lo faceva andare verso l'ignoto. Oppure, secondo te, è sano di mente uno che incomincia a far strage proprio in Grecia, dove è stato educato? Che toglie a ognuno quanto ha di meglio e impone a Sparta la schiavitù e ad Atene il silenzio? Non contento dello scempio di tante città, che Filippo aveva vinto e comprato, ne abbatte altre qua e là e porta le armi in tutto il mondo; la sua crudeltà mai esausta non ha tregua, come quella delle belve feroci che sbranano anche se non hanno fame. 63 Ormai ha fuso numerosi regni in uno solo, ormai i Greci e i Persiani temono lo stesso tiranno, ormai anche le popolazioni libere dal giogo di Dario sono sottomesse; e tuttavia egli supera i confini dell'oceano e del sole, non si dà pace che le sue vittorie non calchino le orme di Ercole e di Bacco, e si prepara a lottare anche contro la natura. Non è lui che vuole andare avanti: non può star fermo, come un peso, gettato nel vuoto, il cui moto tende come ultima meta a finalmente giacere. 64 Non era il valore o il raziocinio, ma un insano desiderio di falsa grandezza che spingeva anche Gneo Pompeo alle guerre e alle lotte civili. Ora andava contro la Spagna e gli eserciti di Sertorio, ora a tenere a freno i pirati e a pacificare i mari: solo pretesti per non perdere il potere. 65 Che motivo lo trascinò in Africa, nel nord, contro Mitridate, in Armenia e nelle terre più lontane dell'Asia? Certo una brama insaziabile di diventare sempre più grande, perché solo a lui sembrava di non esserlo abbastanza. Che cosa spinse Cesare alla rovina sua e dello stato? La gloria, l'ambizione e il desiderio sfrenato di eccellere sugli altri. Non riuscì a tollerare neanche uno sopra di sé, quando la repubblica ne tollerava due su di sé. 66 Perché, credi davvero che C. Mario, quella volta che era stato console (unico consolato regolare, gli altri li aveva ottenuti con la violenza) abbia massacrato i Cimbri e i Teutoni, inseguito Giugurta per i deserti d'Africa, affrontando tanti pericoli spinto dalla virtù? Mario guidava l'esercito, l'ambizione guidava Mario. 67 Loro sconvolgevano tutto e come turbini venivano sconvolti: i turbini si trascinano dietro ciò che ghermiscono, ma prima vorticano e per questo si avventano con maggior furia: non hanno controllo di sé; perciò sono una calamità per molti, ma subiscono anch'essi quella pestilenziale violenza con la quale danneggiano i più. Non puoi credere che uno diventi felice se rende infelici gli altri.
68 Bisogna eliminare questo campionario di esempi che ci trapassano gli occhi e le orecchie, e liberare l'animo ingombro di discorsi nocivi. In chi ne è preda bisogna far penetrare la virtù, perché estirpi le menzogne e le convinzioni in contrasto con la verità, perché ci separi dal volgo cui diamo troppa fiducia e ci riconduca a pensieri incorrotti. La saggezza consiste in questo: rifarsi alla natura, ritornare là dove un abbaglio comune ci aveva cacciato. 69 Buon senso significa soprattutto abbandonare chi ci istiga alla follia e tenersi lontani da un connubio dannoso alle due parti. Vuoi rendertene conto? Guarda come in pubblico uno vive diversamente che in privato. La solitudine non è di per sé maestra di onestà o la campagna di frugalità; però, quando se ne sono andati testimoni e spettatori, cessano i vizi, che si beano di essere ostentati e osservati. 70 Chi indossa vesti di porpora per non esibirle? Chi mette le vivande in stoviglie d'oro solo per se stesso? Davvero uno dispiega lo sfarzo del suo lusso, sdraiato in solitudine, all'ombra di un albero nei campi? Nessuno sfoggia per il piacere dei suoi occhi o di poca gente o degli amici, ma sciorina l'apparato dei suoi vizi secondo la folla che lo guarda. 71 È proprio così: la spinta verso tutto quello per cui diamo segni di follia è la presenza di un ammiratore e di un testimone. Spegni il desiderio, se togli la possibilità di ostentazione. L'ambizione, lo sfarzo, la sfrenatezza, hanno bisogno della ribalta: se li tieni nascosti, ne guarirai. 72 E così, se ci troviamo in mezzo allo strepito delle città, ci stia a fianco uno che ci consigli, e alla lode di ingenti patrimoni opponga la lode di chi è ricco con poco e misura le ricchezze dall'uso che se ne fa. Contro coloro che esaltano il favore della massa e il potere, lui sottolinei con ammirazione l'esistenza ritirata dedita agli studi e l'anima che si ripiega su se stessa. 73 Dimostri che quegli uomini giudicati dalla massa felici stanno, invece, tremanti e sbigottiti in quella loro posizione invidiata e di sé hanno un'opinione ben diversa da quella degli altri; quelle che per gli altri sono cime elevate, per loro sono precipizi. E così si scoraggiano e tremano ogni volta che spingono lo sguardo nell'abisso della loro grandezza: pensano alla possibilità di cadute tanto più pericolose quanto più uno sta in alto. 74 Allora hanno paura di quello che desideravano e la prosperità che li rende insopportabili agli altri, pesa su loro ancora più insopportabile. Allora elogiano la vita calma e indipendente, detestano il loro splendore e cercano di fuggire quando la situazione è ancora stabile. Allora li vedi darsi alla filosofia per paura, ragionare saggiamente spinti dal timore della mala sorte. Come se la buona fortuna e il ben ragionare fossero agli antipodi, noi abbiamo più buon senso quando le cose vanno male: quando vanno a gonfie vele, ci tolgono la capacità d'intendere. Stammi bene.
XCV. SENECA LVCILIO SVO SALVTEM
[1] Petis a me ut id quod in diem suum dixeram debere differri repraesentem et scribam tibi an haec pars philosophiae quam Graeci paraeneticen vocant, nos praeceptivam dicimus, satis sit ad consummandam sapientiam. Scio te in bonam partem accepturum si negavero. Eo magis promitto et verbum publicum perire non patior: 'postea noli rogare quod inpetrare nolueris'. [2] Interdum enim enixe petimus id quod recusaremus si quis offerret. Haec sive levitas est sive vernilitas punienda est promittendi facilitate. Multa videri volumus velle sed nolumus. Recitator historiam ingentem attulit minutissime scriptam, artissime plictam, et magna parte perlecta 'desinam' inquit 'si vultis': adclamatur 'recita, recita' ab iis qui illum ommutescere illic cupiunt. Saepe aliud volumus, aliud optamus, et verum ne dis quidem dicimus, sed dii aut non exaudiunt aut miserentur. [3] Ego me omissa misericordia vindicabo et tibi ingentem epistulam inpingam, quam tu si invitus leges, dicito 'ego mihi hoc contraxi', teque inter illos numera quos uxor magno ducta ambitu torquet, inter illos quos divitiae per summum adquisitae sudorem male habent, inter illos quos honores nulla non arte atque opera petiti discruciant, et ceteros malorum suorum compotes.
[4] Sed ut omisso principio rem ipsam adgrediar, 'beata' inquiunt 'vita constat ex actionibus rectis; ad actiones rectas praecepta perducunt; ergo ad beatam vitam praecepta sufficiunt'. Non semper ad actiones rectas praecepta perducunt, sed cum obsequens ingenium est; aliquando frustra admoventur, si animum opiniones obsident pravae. [5] Deinde etiam si recte faciunt, nesciunt facere se recte. Non potest enim quisquam nisi ab initio formatus et tota ratione compositus omnis exsequi numeros ut sciat quando oporteat et in quantum et cum quo et quemadmodum et quare. Non potest toto animo ad honesta conari, ne constanter quidem aut libenter, sed respiciet, sed haesitabit.
[6] 'Si honesta' inquit 'actio ex praeceptis venit, ad beatam vitam praecepta abunde sunt: atqui est illud, ergo et hoc.' His respondebimus actiones honestas et praeceptis fieri, non tantum praeceptis.
[7] 'Si aliae' inquit 'artes contentae sunt praeceptis, contenta erit et sapientia; nam et haec ars vitae est. Atqui gubernatorem facit ille qui praecipit "sic move gubernaculum, sic vela summitte, sic secundo vento utere, sic adverso resiste, sic dubium communemque tibi vindica". Alios quoque artifices praecepta conformant; ergo in hoc idem poterunt artifice vivendi.' [8] Omnes istae artes circa instrumenta vitae occupatae sunt, non circa totam vitam; itaque multa illas inhibent extrinsecus et inpediunt, spes, cupiditas, timor. At haec quae artem vitae professa est nulla re quominus se exerceat vetari potest; discutit enim inpedimenta et iactat obstantia. Vis scire quam dissimilis sit aliarum artium condicio et huius? in illis excusatius est voluntate peccare quam casu, in hac maxima culpa est sponte delinquere. [9] Quod dico tale est. Grammaticus non erubescet soloecismo si sciens fecit, erubescet si nesciens; medicus si deficere aegrum non intellegit, quantum ad artem magis peccat quam si se intellegere dissimulat: at in hac arte vivendi turpior volentium culpa est. Adice nunc quod artes quoque pleraeque — immo ex omnibus liberalissimae — habent decreta sua, non tantum praecepta, sicut medicina; itaque alia est Hippocratis secta, alia Asclepiadis, alia Themisonis. [10] Praeterea nulla ars contemplativa sine decretis suis est, quae Graeci vocant dogmata, nobis vel decreta licet appellare vel scita vel placita; quae et in geometria et in astronomia invenies. Philosophia autem et contemplativa est et activa: spectat simul agitque. Erras enim si tibi illam putas tantum terrestres operas promittere: altius spirat. 'Totum' inquit 'mundum scrutor nec me intra contubernium mortale contineo, suadere vobis aut dissuadere contenta: magna me vocant supraque vos posita.
[11]
Nam tibi de summa caeli ratione deumque
disserere incipiam et rerum primordia pandam,
unde omnis natura creet res, auctet alatque,
quoque eadem rursus natura perempta resolvat,
ut ait Lucretius.' Sequitur ergo ut, cum contemplativa sit, habeat decreta sua. [12] Quid quod facienda quoque nemo rite obibit nisi is cui ratio erit tradita qua in quaque re omnis officiorum numeros exsequi possit? quos non servabit qui in rem praecepta acceperit, non in omne. Inbecilla sunt per se et, ut ita dicam, sine radice quae partibus dantur. Decreta sunt quae muniant, quae securitatem nostram tranquillitatemque tueantur, quae totam vitam totamque rerum naturam simul contineant. Hoc interest inter decreta philosophiae et praecepta quod inter elementa et membra: haec ex illis dependent, illa et horum causae sunt et omnium.
[13] 'Antiqua' inquit 'sapientia nihil aliud quam facienda ac vitanda praecepit, et tunc longe meliores erant viri: postquam docti prodierunt, boni desunt; simplex enim illa et aperta virtus in obscuram et sollertem scientiam versa est docemurque disputare, non vivere.' [14] Fuit sine dubio, ut dicitis, vetus illa sapientia cum maxime nascens rudis non minus quam ceterae artes quarum in processu subtilitas crevit. Sed ne opus quidem adhuc erat remediis diligentibus. Nondum in tantum nequitia surrexerat nec tam late se sparserat: poterant vitiis simplicibus obstare remedia simplicia. Nunc necesse est tanto operosiora esse munimenta quanto vehementiora sunt quibus petimur.
[15] Medicina quondam paucarum fuit scientia herbarum quibus sisteretur fluens sanguis, vulnera coirent; paulatim deinde in hanc pervenit tam multiplicem varietatem. Nec est mirum tunc illam minus negotii habuisse firmis adhuc solidisque corporibus et facili cibo nec per artem voluptatemque corrupto: qui postquam coepit non ad tollendam sed ad inritandam famem quaeri et inventae sunt mille conditurae quibus aviditas excitaretur, quae desiderantibus alimenta erant onera sunt plenis. [16] Inde pallor et nervorum vino madentium tremor et miserabilior ex cruditatibus quam ex fame macies; inde incerti labantium pedes et semper qualis in ipsa ebrietate titubatio; inde in totam cutem umor admissus distentusque venter dum male adsuescit plus capere quam poterat; inde suffusio luridae bilis et decolor vultus tabesque ~in se~ putrescentium et retorridi digiti articulis obrigescentibus nervorumque sine sensu iacentium torpor aut palpitatio [corporum] sine intermissione vibrantium. [17] Quid capitis vertigines dicam? quid oculorum auriumque tormenta et cerebri exaestuantis verminationes et omnia per quae exoneramur internis ulceribus adfecta? Innumerabilia praeterea febrium genera, aliarum impetu saevientium, aliarum tenui peste repentium, aliarum cum horrore et multa membrorum quassatione venientium? [18] Quid alios referam innumerabiles morbos, supplicia luxuriae? Immunes erant ab istis malis qui nondum se delicis solverant, qui sibi imperabant, sibi ministrabant. Corpora opere ac vero labore durabant, aut cursu defatigati aut venatu aut tellure versanda; excipiebat illos cibus qui nisi esurientibus placere non posset. Itaque nihil opus erat tam magna medicorum supellectile nec tot ferramentis atque puxidibus. Simplex erat ex causa simplici valetudo: multos morbos multa fericula fecerunt. [19] Vide quantum rerum per unam gulam transiturarum permisceat luxuria, terrarum marisque vastatrix. Necesse est itaque inter se tam diversa dissideant et hausta male digerantur aliis alio nitentibus. Nec mirum quod inconstans variusque ex discordi cibo morbus est et illa ex contrariis naturae partibus in eundem conpulsa redundant. Inde tam novo aegrotamus genere quam vivimus.
[20] Maximus ille medicorum et huius scientiae conditor feminis nec capillos defluere dixit nec pedes laborare: atqui et capillis destituuntur et pedibus aegrae sunt. Non mutata feminarum natura sed victa est; nam cum virorum licentiam aequaverint, corporum quoque virilium incommoda aequarunt. [21] Non minus pervigilant, non minus potant, et oleo et mero viros provocant; aeque invitis ingesta visceribus per os reddunt et vinum omne vomitu remetiuntur; aeque nivem rodunt, solacium stomachi aestuantis. Libidine vero ne maribus quidem cedunt: pati natae (di illas deaeque male perdant!) adeo perversum commentae genus inpudicitiae viros ineunt. Quid ergo mirandum est maximum medicorum ac naturae peritissimum in mendacio prendi, cum tot feminae podagricae calvaeque sint? Beneficium sexus sui vitiis perdiderunt et, quia feminam exuerant, damnatae sunt morbis virilibus.
[22] Antiqui medici nesciebant dare cibum saepius et vino fulcire venas cadentis, nesciebant sanguinem mittere et diutinam aegrotationem balneo sudoribusque laxare, nesciebant crurum vinculo brachiorumque latentem vim et in medio sedentem ad extrema revocare. Non erat necesse circumspicere multa auxiliorum genera, cum essent periculorum paucissima. [23] Nunc vero quam longe processerunt mala valetudinis! Has usuras voluptatium pendimus ultra modum fasque concupitarum. Innumerabiles esse morbos non miraberis: cocos numera. Cessat omne studium et liberalia professi sine ulla frequentia desertis angulis praesident; in rhetorum ac philosophorum scholis solitudo est: at quam celebres culinae sunt, quanta circa nepotum focos iuventus premit! [24] Transeo puerorum infelicium greges quos post transacta convivia aliae cubiculi contumeliae expectant; transeo agmina exoletorum per nationes coloresque discripta ut eadem omnibus levitas sit, eadem primae mensura lanuginis, eadem species capillorum, ne quis cui rectior est coma crispulis misceatur; transeo pistorum turbam, transeo ministratorum per quos signo dato ad inferendam cenam discurritur. Di boni, quantum hominum unus venter exercet! [25] Quid? tu illos boletos, voluptarium venenum, nihil occulti operis iudicas facere, etiam si praesentanei non fuerunt? Quid? tu illam aestivam nivem non putas callum iocineribus obducere? Quid? illa ostrea, inertissimam carnem caeno saginatam, nihil existimas limosae gravitatis inferre? Quid? illud sociorum garum, pretiosam malorum piscium saniem, non credis urere salsa tabe praecordia? Quid? illa purulenta et quae tantum non ex ipso igne in os transferuntur iudicas sine noxa in ipsis visceribus extingui? Quam foedi itaque pestilentesque ructus sunt, quantum fastidium sui exhalantibus crapulam veterem! scias putrescere sumpta, non concoqui. [26] Memini fuisse quondam in sermone nobilem patinam in quam quidquid apud lautos solet diem ducere properans in damnum suum popina congesserat: veneriae spondylique et ostrea eatenus circumcisa qua eduntur intervenientibus distinguebantur ~echini totam destructique~ sine ullis ossibus mulli constraverant. [27] Piget esse iam singula: coguntur in unum sapores. In cena fit quod fieri debebat in ventre: expecto iam ut manducata ponantur. Quantulo autem hoc minus est, testas excerpere atque ossa et dentium opera cocum fungi? 'Gravest luxuriari per singula: omnia semel et in eundem saporem versa ponantur. Quare ego ad unam rem manum porrigam? plura veniant simul, multorum ferculorum ornamenta coeant et cohaereant. [28] Sciant protinus hi qui iactationem ex istis peti et gloriam aiebant non ostendi ista sed conscientiae dari. Pariter sint quae disponi solent, uno iure perfusa; nihil intersit; ostrea, echini, spondyli, mulli perturbati concoctique ponantur.' Non esset confusior vomentium cibus. [29] Quomodo ista perplexa sunt, sic ex istis non singulares morbi nascuntur sed inexplicabiles, diversi, multiformes, adversus quos et medicina armare se coepit multis generibus, multis observationibus.
Idem tibi de philosophia dico. Fuit aliquando simplicior inter minora peccantis et levi quoque cura remediabiles: adversus tantam morum eversionem omnia conanda sunt. Et utinam sic denique lues ista vincatur! [30] Non privatim solum sed publice furimus. Homicidia conpescimus et singulas caedes: quid bella et occisarum gentium gloriosum scelus? Non avaritia, non crudelitas modum novit. Et ista quamdiu furtim et a singulis fiunt minus noxia minusque monstrosa sunt: ex senatus consultis plebisque scitis saeva exercentur et publice iubentur vetata privatim. [31] Quae clam commissa capite luerent, tum quia paludati fecere laudamus. Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit. [32] Adversus tam potentem explicitumque late furorem operosior philosophia facta est et tantum sibi virium sumpsit quantum iis adversus quae parabatur accesserat. Expeditum erat obiurgare indulgentis mero et petentis delicatiorem cibum, non erat animus ad frugalitatem magna vi reducendus a qua paullum discesserat:
[33]
nunc manibus rapidis opus est, nunc arte magistra.
Voluptas ex omni quaeritur. Nullum intra se manet vitium: in avaritiam luxuria praeceps est. Honesti oblivio invasit; nihil turpest cuius placet pretium. Homo, sacra res homini, iam per lusum ac iocum occiditur et quem erudiri ad inferenda accipiendaque vulnera nefas erat, is iam nudus inermisque producitur satisque spectaculi ex homine mors est. [34] In hac ergo morum perversitate desideratur solito vehementius aliquid quod mala inveterata discutiat: decretis agendum est ut revellatur penitus falsorum recepta persuasio. His si adiunxerimus praecepta, consolationes, adhortationes, poterunt valere: per se inefficaces sunt. [35] Si volumus habere obligatos et malis quibus iam tenentur avellere, discant quid malum, quid bonum sit, sciant omnia praeter virtutem mutare nomen, modo mala fieri, modo bona. Quemadmodum primum militiae vinculum est religio et signorum amor et deserendi nefas, tunc deinde facile cetera exiguntur mandanturque iusiurandum adactis, ita in iis quos velis ad beatam vitam perducere prima fundamenta iacienda sunt et insinuanda virtus. Huius quadam superstitione teneantur, hanc ament; cum hac vivere velint, sine hac nolint.
[36] 'Quid ergo? non quidam sine institutione subtili evaserunt probi magnosque profectus adsecuti sunt dum nudis tantum praeceptis obsequuntur?' Fateor, sed felix illis ingenium fuit et salutaria in transitu rapuit. Nam ut dii immortales nullam didicere virtutem cum omni editi et pars naturae eorum est bonos esse, ita quidam ex hominibus egregiam sortiti indolem in ea quae tradi solent perveniunt sine longo magisterio et honesta conplexi sunt cum primum audiere; unde ista tam rapacia virtutis ingenia vel ex se fertilia. At illis aut hebetibus et obtusis aut mala consuetudine obsessis diu robigo animorum effricanda est. [37] Ceterum, ut illos in bonum pronos citius educit ad summa, et hos inbecilliores adiuvabit malisque opinionibus extrahet qui illis philosophiae placita tradiderit; quae quam sint necessaria sic licet videas. Quaedam insident nobis quae nos ad alia pigros, ad alia temerarios faciunt; nec haec audacia reprimi potest nec illa inertia suscitari nisi causae eorum eximuntur, falsa admiratio et falsa formido. Haec nos quamdiu possident, dicas licet 'hoc patri praestare debes, hoc liberis, hoc amicis, hoc hospitibus': temptantem avaritia retinebit. Sciet pro patria pugnandum esse, dissuadebit timor; sciet pro amicis desudandum esse ad extremum usque sudorem, sed deliciae vetabunt; sciet in uxore gravissimum esse genus iniuriae paelicem, sed illum libido in contraria inpinget. [38] Nihil ergo proderit dare praecepta nisi prius amoveris obstatura praeceptis, non magis quam proderit arma in conspectu posuisse propiusque admovisse nisi usurae manus expediuntur. Ut ad praecepta quae damus possit animus ire, solvendus est. [39] Putemus aliquem facere quod oportet: non faciet adsidue, non faciet aequaliter; nesciet enim quare faciat. Aliqua vel casu vel exercitatione exibunt recta, sed non erit in manu regula ad quam exigantur, cui credat recta esse quae fecit. Non promittet se talem in perpetuum qui bonus casu est.
[40] Deinde praestabunt tibi fortasse praecepta ut quod oportet faciat, non praestabunt ut quemadmodum oportet; si hoc non praestant, ad virtutem non perducunt. Faciet quod oportet monitus, concedo; sed id parum est, quoniam quidem non in facto laus est sed in eo quemadmodum fiat. [41] Quid est cena sumptuosa flagitiosius et equestrem censum consumente? quid tam dignum censoria nota, si quis, ut isti ganeones loquuntur, sibi hoc et genio suo praestet? et deciens tamen sestertio aditiales cenae frugalissimis viris constiterunt. Eadem res, si gulae datur, turpis est, si honori, reprensionem effugit; non enim luxuria sed inpensa sollemnis est. [42] Mullum ingentis formae — quare autem non pondus adicio et aliquorum gulam inrito? quattuor pondo et selibram fuisse aiebant — Tiberius Caesar missum sibi cum in macellum deferri et venire iussisset, 'amici,' inquit 'omnia me fallunt nisi istum mullum aut Apicius emerit aut P. Octavius'. Ultra spem illi coniectura processit: liciti sunt, vicit Octavius et ingentem consecutus est inter suos gloriam, cum quinque sestertiis emisset piscem quem Caesar vendiderat, ne Apicius quidem emerat. Numerare tantum Octavio fuit turpe, non illi qui emerat ut Tiberio mitteret, quamquam illum quoque reprenderim: admiratus est rem qua putavit Caesarem dignum. Amico aliquis aegro adsidet: probamus. [43] At hoc hereditatis causa facit: vultur est, cadaver expectat. Eadem aut turpia sunt aut honesta: refert quare aut quemadmodum fiant. Omnia autem honeste fient si honesto nos addixerimus idque unum in rebus humanis bonum iudicarimus quaeque ex eo sunt; cetera in diem bona sunt. [44] Ergo infigi debet persuasio ad totam pertinens vitam: hoc est quod decretum voco. Qualis haec persuasio fuerit, talia erunt quae agentur, quae cogitabuntur; qualia autem haec fuerint, talis vita erit. In particulas suasisse totum ordinanti parum est. [45] M. Brutus in eo libro quem peri kathekontos inscripsit dat multa praecepta et parentibus et liberis et fratribus: haec nemo faciet quemadmodum debet nisi habuerit quo referat. Proponamus oportet finem summi boni ad quem nitamur, ad quem omne factum nostrum dictumque respiciat; veluti navigantibus ad aliquod sidus derigendus est cursus. [46] Vita sine proposito vaga est; quod si utique proponendum est, incipiunt necessaria esse decreta. Illud, ut puto, concedes, nihil esse turpius dubio et incerto ac timide pedem referente. Hoc in omnibus rebus accidet nobis nisi eximuntur quae reprendunt animos et detinent et ire conarique totos vetant.
[47] Quomodo sint dii colendi solet praecipi. Accendere aliquem lucernas sabbatis prohibeamus, quoniam nec lumine dii egent et ne homines quidem delectantur fuligine. Vetemus salutationibus matutinis fungi et foribus adsidere templorum: humana ambitio istis officiis capitur, deum colit qui novit. Vetemus lintea et strigiles Iovi ferre et speculum tenere Iunoni: non quaerit ministros deus. Quidni? ipse humano generi ministrat, ubique et omnibus praesto est. [48] Audiat licet quem modum servare in sacrificiis debeat, quam procul resilire a molestis superstitionibus, numquam satis profectum erit nisi qualem debet deum mente conceperit, omnia habentem, omnia tribuentem, beneficum gratis. [49] Quae causa est dis bene faciendi? natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt. Nec accipere iniuriam queunt nec facere; laedere etenim laedique coniunctum est. Summa illa ac pulcherrima omnium natura quos periculo exemit ne periculosos quidem fecit. [50] Primus est deorum cultus deos credere; deinde reddere illis maiestatem suam, reddere bonitatem sine qua nulla maiestas est; scire illos esse qui praesident mundo, qui universa vi sua temperant, qui humani generis tutelam gerunt interdum incuriosi singulorum. Hi nec dant malum nec habent; ceterum castigant quosdam et coercent et inrogant poenas et aliquando specie boni puniunt. Vis deos propitiare? bonus esto. Satis illos coluit quisquis imitatus est.
[51] Ecce altera quaestio, quomodo hominibus sit utendum. Quid agimus? quae damus praecepta? Ut parcamus sanguini humano? quantulum est ei non nocere cui debeas prodesse! Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est. Praecipiemus ut naufrago manum porrigat, erranti viam monstret, cum esuriente panem suum dividat? Quare omnia quae praestanda ac vitanda sunt dicam? cum possim breviter hanc illi formulam humani offici tradere: [52] omne hoc quod vides, quo divina atque humana conclusa sunt, unum est; membra sumus corporis magni. Natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret; haec nobis amorem indidit mutuum et sociabiles fecit. Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio paratae sint iuvandis manus. [53] Ille versus et in pectore et in ore sit:
homo sum, humani nihil a me alienum puto.
Habeamus in commune: nati sumus. Societas nostra lapidum fornicationi simillima est, quae, casura nisi in vicem obstarent, hoc ipso sustinetur.
[54] Post deos hominesque dispiciamus quomodo rebus sit utendum. In supervacuum praecepta iactabimus nisi illud praecesserit, qualem de quacumque re habere debeamus opinionem, de paupertate, de divitiis, de gloria, de ignominia, de patria, de exilio. Aestimemus singula fama remota et quaeramus quid sint, non quid vocentur.
[55] Ad virtutes transeamus. Praecipiet aliquis ut prudentiam magni aestimemus, ut fortitudinem conplectamur, iustitiam, si fieri potest, propius etiam quam ceteras nobis adplicemus; sed nil aget si ignoramus quid sit virtus, una sit an plures, separatae an innexae, an qui unam habet et ceteras habeat, quo inter se differant. [56] Non est necesse fabro de fabrica quaerere quod eius initium, quis usus sit, non magis quam pantomimo de arte saltandi: omnes istae artes se sciunt, nihil deest; non enim ad totam pertinent vitam. Virtus et aliorum scientia est et sui; discendum de ipsa est ut ipsa discatur. [57] Actio recta non erit nisi recta fuerit voluntas; ab hac enim est actio. Rursus voluntas non erit recta nisi habitus animi rectus fuerit; ab hoc enim est voluntas. Habitus porro animi non erit in optimo nisi totius vitae leges perceperit et quid de quoque iudicandum sit exegerit, nisi res ad verum redegerit. Non contingit tranquillitas nisi inmutabile certumque iudicium adeptis: ceteri decidunt subinde et reponuntur et inter missa adpetitaque alternis fluctuantur. [58] Causa his quae iactationis est? quod nihil liquet incertissimo regimine utentibus, fama. Si vis eadem semper velle, vera oportet velis. Ad verum sine decretis non pervenitur: continent vitam. Bona et mala, honesta et turpia, iusta et iniusta, pia et impia, virtutes ususque virtutum, rerum commodarum possessio, existimatio ac dignitas, valetudo, vires, forma, sagacitas sensuum — haec omnia aestimatorem desiderant. Scire liceat quanti quidque in censum deferendum sit. [59] Falleris enim et pluris quaedam quam sunt putas, adeoque falleris ut quae maxima inter nos habentur — divitiae, gratia, potentia — sestertio nummo aestimanda sint. Hoc nescies nisi constitutionem ipsam qua ista inter se aestimantur inspexeris. Quemadmodum folia per se virere non possunt, ramum desiderant cui inhaereant, ex quo trahant sucum, sic ista praecepta, si sola sunt, marcent; infigi volunt sectae.
[60] Praeterea non intellegunt hi qui decreta tollunt eo ipso confirmari illa quo tolluntur. Quid enim dicunt? praeceptis vitam satis explicari, supervacua esse decreta sapientiae [id est dogmata]. Atqui hoc ipsum quod dicunt decretum est tam mehercules quam si nunc ego dicerem recedendum a praeceptis velut supervacuis, utendum esse decretis, in haec sola studium conferendum; hoc ipso quo negarem curanda esse praecepta praeciperem. [61] Quaedam admonitionem in philosophia desiderant, quaedam probationem et quidem multam, quia involuta sunt vixque summa diligentia ac summa subtilitate aperiuntur. Si probationes , necessaria sunt et decreta quae veritatem argumentis colligunt. Quaedam aperta sunt, quaedam obscura: aperta quae sensu conprehenduntur, quae memoria; obscura quae extra haec sunt. Ratio autem non impletur manifestis: maior eius pars pulchriorque in occultis est. Occulta probationem exigunt, probatio non sine decretis est; necessaria ergo decreta sunt. [62] Quae res communem sensum facit, eadem perfectum, certa rerum persuasio; sine qua si omnia in animo natant, necessaria sunt decreta quae dant animis inflexibile iudicium. [63] Denique cum monemus aliquem ut amicum eodem habeat loco quo se, ut ex inimico cogitet fieri posse amicum, in illo amorem incitet, in hoc odium moderetur, adicimus 'iustum est, honestum'. Iustum autem honestumque decretorum nostrorum continet ratio; ergo haec necessaria est, sine qua nec illa sunt. [64] Sed utrumque iungamus; namque et sine radice inutiles rami sunt et ipsae radices iis quae genuere adiuvantur. Quantum utilitatis manus habeant nescire nulli licet, aperte iuvant: cor illud, quo manus vivunt, ex quo impetum sumunt, quo moventur, latet. Idem dicere de praeceptis possum: aperta sunt, decreta vero sapientiae in abdito. Sicut sanctiora sacrorum tantum initiati sciunt, ita in philosophia arcana illa admissis receptisque in sacra ostenduntur; at praecepta et alia eiusmodi profanis quoque nota sunt.
[65] Posidonius non tantum praeceptionem (nihil enim nos hoc verbo uti prohibet) sed etiam suasionem et consolationem et exhortationem necessariam iudicat; his adicit causarum inquisitionem, aetiologian quam quare nos dicere non audeamus, cum grammatici, custodes Latini sermonis, suo iure ita appellent, non video. Ait utilem futuram et descriptionem cuiusque virtutis; hanc Posidonius 'ethologian' vocat, quidam 'characterismon' appellant, signa cuiusque virtutis ac vitii et notas reddentem, quibus inter se similia discriminentur. [66] Haec res eandem vim habet quam praecipere; nam qui praecipit dicit 'illa facies si voles temperans esse', qui describit ait 'temperans est qui illa facit, qui illis abstinet'. Quaeris quid intersit? alter praecepta virtutis dat, alter exemplar. Descriptiones has et, ut publicanorum utar verbo, iconismos ex usu esse confiteor: proponamus laudanda, invenietur imitator. [67] Putas utile dari tibi argumenta per quae intellegas nobilem equum, ne fallaris empturus, ne operam perdas in ignavo? Quanto hoc utilius est excellentis animi notas nosse, quas ex alio in se transferre permittitur.
[68]
Continuo pecoris generosi pullus in arvis
altius ingreditur et mollia crura reponit;
primus et ire viam et fluvios temptare minantis
audet et ignoto sese committere ponti,
nec vanos horret strepitus. Illi ardua cervix
argutumque caput, brevis alvus obesaque terga,
luxuriatque toris animosum pectus . . .
. . . Tum, si qua sonum procul arma dederunt,
stare loco nescit, micat auribus et tremit artus,
conlectumque premens volvit sub naribus ignem.
[69] Dum aliud agit, Vergilius noster descripsit virum fortem: ego certe non aliam imaginem magno viro dederim. Si mihi M. Cato exprimendus inter fragores bellorum civilium inpavidus et primus incessens admotos iam exercitus Alpibus civilique se bello ferens obvium, non alium illi adsignaverim vultum, non alium habitum. [70] Altius certe nemo ingredi potuit quam qui simul contra Caesarem Pompeiumque se sustulit et aliis Caesareanas opes, aliis Pompeianas [tibi] foventibus utrumque provocavit ostenditque aliquas esse et rei publicae partes. Nam parum est in Catone dicere 'nec vanos horret strepitus'. Quidni? cum veros vicinosque non horreat, cum contra decem legiones et Gallica auxilia et mixta barbarica arma civilibus vocem liberam mittat et rem publicam hortetur ne pro libertate decidat, sed omnia experiatur, honestius in servitutem casura quam itura. [71] Quantum in illo vigoris ac spiritus, quantum in publica trepidatione fiduciaest! Scit se unum esse de cuius statu non agatur; non enim quaeri an liber Cato, sed an inter liberos sit: inde periculorum gladiorumque contemptus. Libet admirantem invictam constantiam viri inter publicas ruinas non labantis dicere 'luxuriatque toris animosum pectus'.
[72] Proderit non tantum quales esse soleant boni viri dicere formamque eorum et liniamenta deducere sed quales fuerint narrare et exponere, Catonis illud ultimum ac fortissimum vulnus per quod libertas emisit animam, Laeli sapientiam et cum suo Scipione concordiam, alterius Catonis domi forisque egregia facta, Tuberonis ligneos lectos, cum in publicum sterneret, haedinasque pro stragulis pelles et ante ipsius Iovis cellam adposita conviviis vasa fictilia. Quid aliud paupertatem in Capitolio consecrare? Ut nullum aliud factum eius habeam quo illum Catonibus inseram, hoc parum credimus? censura fuit illa, non cena. [73] O quam ignorant homines cupidi gloriae quid illa sit aut quemadmodum petenda! Illo die populus Romanus multorum supellectilem spectavit, unius miratus est. Omnium illorum aurum argentumque fractum est et [in] milliens conflatum, at omnibus saeculis Tuberonis fictilia durabunt. Vale.
1 Mi chiedi di trattare sùbito quell'argomento che avevo deciso di rinviare a suo tempo e vuoi che ti scriva se la parte della filosofia che i Greci chiamano "parenetica" e noi "precettistica" basta per raggiungere una perfetta saggezza. So che se io rifiutassi, non te l'avresti a male. A maggior ragione mi impegno e mantengo vivo il proverbio: "Non domandare una seconda volta quello che non volevi ottenere." 2 A volte domandiamo insistentemente cose che rifiuteremmo se qualcuno ce le offrisse. Che sia leggerezza o servilismo, questo comportamento va punito con un pronto assenso. Vogliamo dare l'impressione di voler sapere molte cose, ma non è così. Un autore portò una volta un enorme volume di storia, scritto a caratteri minutissimi e avvolto molto strettamente; dopo averne letto una gran parte, dice: "Se volete, smetto." "Continua, continua", gridano gli ascoltatori, anche se in realtà vorrebbero che tacesse. Spesso vogliamo una cosa e ne chiediamo un'altra e non diciamo la verità neppure agli dèi, ma gli dèi o non ci esaudiscono o hanno compassione di noi. 3 Io non avrò pietà e mi vendicherò infliggendoti una lunga lettera. Se la leggerai mal volentieri, di': "Me lo sono tirato addosso io questo disastro." Fa' conto di essere uno di quegli uomini che hanno sposato una donna dopo averla corteggiata a lungo e adesso lei li tormenta; di quelli che hanno sudato per raggiungere la ricchezza e ora vivono male; di quelli che hanno puntato alle cariche pubbliche con ogni intrigo e con ogni mezzo e ora ne sono torturati, e di tutti gli altri, colpevoli dei propri mali.
4 Ma lasciamo da parte ogni preambolo ed entriamo in argomento. "La felicità," sostengono, "si basa sull'agire onestamente; alle azioni oneste ci portano i precetti; quindi i precetti bastano per arrivare alla felicità." Non sempre i precetti ci portano ad agire onestamente, ma solo se trovano un carattere docile; a volte è inutile impartirli, se l'animo è ingombro di idee distorte. 5 Inoltre, certi individui, anche se agiscono rettamente, non ne sono consapevoli. Nessuno, a meno che non sia educato dall'inizio e regolato dalla ragione perfetta, può adempiere a tutte le regole per sapere quando è opportuno agire, in che limiti, con chi, come e perché. Non può tendere all'onestà con tutte le sue forze e neppure con costanza o volentieri, ma si volterà indietro e avrà delle esitazioni.
6 "Se le azioni oneste sono frutto dei precetti," dicono, "questi sono più che sufficienti per arrivare alla felicità: la prima proposizione è vera, quindi, è vera anche la seconda." A costoro risponderemo che le azioni oneste sono frutto dei precetti, ma non solo di essi.
7 "Se alle altre arti bastano i precetti, essi basteranno anche alla saggezza; anche questa è un'arte, l'arte della vita. Ora, il pilota lo forma chi gli insegna: 'Il timone muovilo così, così ammaina le vele, in questo modo utilizza il vento favorevole, resisti a quello contrario, sfrutta quello variabile e incostante.' I precetti formano anche gli uomini dediti alle altre arti, pertanto avranno lo stesso effetto su chi si occupa dell'arte del vivere." 8 Tutte queste arti si occupano dei mezzi per vivere, non della vita nella sua interezza; ci sono, perciò molti fattori esterni che le impediscono e le ostacolano: la speranza, la cupidigia, il timore. Ma alla saggezza, che esercita l'arte della vita, niente vieta di mettere in atto se stessa; essa abbatte ogni impedimento e rimuove tutti gli ostacoli. Vuoi sapere quanto è diversa la condizione delle altre arti rispetto alla saggezza? Nelle arti è più giustificabile un errore volontario che uno casuale; nella saggezza la colpa più grave è sbagliare volontariamente. 9 Le cose stanno proprio così. Un erudito non arrossisce di un solecismo se l'ha fatto consapevolmente, ma arrossisce se è un errore inconsapevole; un medico, se non capisce che l'ammalato sta morendo, è professionalmente più colpevole che se finge di non capire; ma in quest'arte della vita, la colpa volontaria è più spregevole. E poi, anche gran parte delle arti - e in particolare quelle più liberali, come, ad esempio, la medicina - hanno, oltre alla precettistica, i loro princìpî teorici; perciò le sette di Ippocrate, di Asclepiade, di Temisone sono diverse tra loro. 10 Inoltre, non c'è scienza teoretica che non abbia princìpî propri: i Greci li chiamano dogmata, noi decreta, scita o placita e li trovi anche in geometria e in astronomia. La filosofia è teoretica e pratica insieme: osserva e contemporaneamente agisce. Sbagli se pensi che riguardi solo le attività terrene: vive in una sfera più alta. "Scruto l'universo intero," afferma, "e non mi limito alle relazioni umane, contentandomi di consigliare o dissuadere: mi chiamano problemi grandi, al di sopra di voi.
11 "Comincerò a trattare della suprema essenza del cielo e degli dèi e svelerò i primordi dell'universo; da dove la natura crei tutte le cose, le accresca e le alimenti, e in che cosa, annientandole, di nuovo le dissolva",
così scrive Lucrezio. Ne consegue che, essendo un'attività teoretica, la filosofia ha princìpî propri. 12 E poi, a un lavoro può attendere convenientemente solo chi avrà imparato il metodo per eseguire tutte le funzioni necessarie in ogni circostanza; ma se uno ha ricevuto insegnamenti particolari e non generali, non potrà adempiervi. I precetti particolari sono di per sé inefficaci e, per così dire, senza radici. A premunirci, a tutelare la nostra quiete e tranquillità sono i princìpî generali: essi comprendono la vita intera e l'intera natura delle cose. Tra i princìpî della filosofia e i precetti intercorre la stessa differenza che tra gli elementi e le parti di un organismo: queste dipendono dai primi che sono causa di esse e di tutte le cose.
13 "L'antica saggezza," obiettano, "indicava solo le azioni da compiere e quelle da evitare e a quel tempo gli uomini erano di gran lunga migliori: da quando sono comparsi i dotti, i buoni non ci sono più; quella virtù semplice e chiara si è mutata in una scienza oscura e scaltra: impariamo a discutere, non a vivere." 14 Quell'antica saggezza, soprattutto ai suoi inizi, fu senza dubbio, come dite voi, rozza, come le altre scienze, che nel processo di evoluzione si sono poi affinate. Ma ancòra non c'era il bisogno di studiati rimedi. La malvagità non era ancòra arrivata a tanto, non si era diffusa così ampiamente: i vizi erano semplici e si poteva combatterli con rimedi semplici. Ora le difese devono essere tanto più efficaci quanto più violento è l'attacco.
15 La medicina un tempo consisteva nel conoscere poche erbe per far coagulare il sangue e rimarginare le ferite; poi, a poco a poco, è arrivata all'odierna molteplicità di branche. E non c'è da meravigliarsi che avesse meno da fare allora, quando l'organismo dell'uomo era ancora sano e robusto e il vitto semplice e non alterato dagli artifici e dal piacere: in séguito si cominciò a ricercare il cibo non per soddisfare la fame, ma per stuzzicarla, e si sono escogitati mille condimenti per eccitare l'avidità: quelli che erano alimento per un ventre digiuno, sono un peso per un ventre pieno. 16 Da qui il pallore e il tremito nervoso degli alcolizzati e la magrezza dovuta alle indigestioni, più miserevole di quella per fame; da qui l'incedere incerto e malfermo e il barcollare continuo, come in piena ubriachezza; il sudore a rivoli su tutta la pelle, il ventre rigonfio per la cattiva abitudine di ingurgitare oltre misura; e poi l'itterizia, il volto pallido, il decomporsi degli organi [...] che si putrefanno, le dita rinsecchite per l'irrigidimento delle articolazioni, il torpore dei nervi divenuti insensibili o il loro tremito continuo. 17 E che dire dei capogiri? Dei dolori lancinanti agli occhi e alle orecchie, delle fitte del cervello in fiamme, delle ulcere agli intestini? E ancòra, degli innumerevoli tipi di febbre, alcune violente, altre insinuanti e subdole, altre che si manifestano con brividi e forte tremore? 18 Ma perché elencare le numerosissime malattie, con cui si paga la dissolutezza? Erano immuni da questi mali quegli uomini che non si erano ancòra snervati nei piaceri, che comandavano e servivano se stessi. Irrobustivano il fisico con il lavoro e la fatica vera, stancandosi con la corsa, con la caccia, o arando la terra; e li attendeva un cibo che poteva piacere solo a degli affamati. Perciò non avevano bisogno di tanti arnesi medici, di tanti ferri e vasetti. Le malattie erano semplici e originate da cause semplici: la molteplicità delle portate ha provocato la molteplicità delle malattie. 19 Vedi come la dissolutezza, devastando terra e mare, mescoli una quantità di cose che passano attraverso la gola di uno solo. Perciò sostanze tanto diverse sono necessariamente in contrasto fra loro e, ingoiate, non vengono digerite bene, perché hanno effetti opposti. E non c'è da stupirsi che cibi dissimili causino malattie dal decorso vario e mutevole e che alimenti di natura contraria, cacciati nello stesso ventre, siano rigettati. Perciò le nostre malattie sono nuove, come nuovo è il nostro genere di vita.
20 Il più grande medico, il fondatore della medicina, affermò che le donne non perdono i capelli e non soffrono di gotta: e invece, i capelli li perdono e hanno la gotta. La loro natura non è cambiata: è stata vinta; hanno uguagliato gli uomini in dissolutezza, e li hanno uguagliati pure nelle malattie. 21 Passano le notti vegliando come loro, bevono come loro, con loro gareggiano nella lotta e nel vino; vomitano anch'esse i cibi ingurgitati contro voglia e rigettano tutto il vino; anch'esse rosicchiano pezzi di ghiaccio per dar sollievo allo stomaco in fiamme. Nella libidine poi non sono da meno dei maschi: destinate per natura a un ruolo passivo (che gli dèi le fulminino), hanno escogitato un genere così perverso di impudicizia da montare gli uomini. Non c'è, dunque, da meravigliarsi se il più grande medico, profondo conoscitore della natura, è stato smentito e tante donne sono calve e malate di gotta. Per i vizi hanno perso i vantaggi del loro sesso; si sono spogliate della natura femminile e così sono state condannate alle malattie proprie degli uomini.
22 I medici di una volta ignoravano l'uso di somministrare agli ammalati il cibo con più frequenza e di sostenere col vino una deficienza circolatoria, non conoscevano il salasso e la possibilità di alleviare le malattie croniche con bagni e sudorazioni, non sapevano far affiorare un male nascosto e interno legando braccia e gambe. Non occorreva cercare molte specie di presidî: i pericoli erano pochissimi. 23 Ma ora, che passi da gigante hanno fatto le malattie! È questo il prezzo che paghiamo per i piaceri agognati oltre i giusti limiti. Non stupirti che i malati siano così numerosi: conta i cuochi. Non si studia più e i professori di discipline liberali stanno in aule deserte senza anima viva; le scuole dei retori e dei filosofi sono abbandonate: ma che folla c'è nelle cucine! Quanti giovani si ammassano intorno al focolare degli scialacquatori! 24 E taccio della massa di quei poveri ragazzi che dopo il banchetto sono vittime di altri oltraggi nelle camere; taccio delle schiere di amasi divisi per nazionalità e colore in modo che abbiano tutti la stessa levigatezza, la stessa prima lanuggine, lo stesso tipo di capelli: chi li ha lisci non va mescolato a chi li ha ricci; taccio della torma di fornai e di servi, che, a un ordine, corrono a mettere in tavola. 25 Buon dio, a quanti uomini dà da fare un solo ventre! Ma come? Credi che quei funghi, voluttuoso veleno, non abbiano un effetto nascosto, anche se non istantaneo? Non pensi che quel ghiaccio d'estate produca un indurimento del fegato? E che le ostriche, carne inerte ingrassata nella melma, trasmettano la loro limacciosa pesantezza? E quella salsa che viene dalle province, preziosa poltiglia di pesci guasti, non credi che bruci le viscere col suo piccante marciume? E quella carne purulenta che passa dal fuoco alla bocca secondo te si raffredda nello stomaco senza provocare danni? Eruttano in maniera disgustosa e pestilenziale; che nausea di se stessi provano a mandar fuori i miasmi della crapula del giorno prima! Il cibo non lo assimilano: marcisce. 26 Ricordo che mi è stato raccontato di un piatto famoso in cui il taverniere aveva ammassato, affrettando la sua rovina, tutte quelle vivande che nelle case dei signori vengono servite nel corso di una giornata: conchiglie di Venere, spondili e ostriche tagliate fin dove si possono mangiare, divise e intervallate da ‹tordi›; ricci e triglie fatte a pezzi senza lische, ricoprivano interamente il piatto. 27 Ormai non piace più gustare vivande singole: si mescolano sapori diversi. Durante il pranzo avviene quello che dovrebbe avvenire nello stomaco: ormai mi aspetto che vengano serviti cibi già masticati. E non ci manca molto: si tolgono gusci e ossa e il cuoco svolge la funzione dei denti. "È scomodo far baldoria assaporando le vivande una per una: mettiamo tutto insieme a formare un sapore unico. Perché mettere mano a un solo piatto? Ne vengano serviti molti simultaneamente, si uniscano e si mescolino portate diverse e raffinate. 28 Chi affermava che tutto ciò si fa per ostentazione e desiderio di notorietà sappia che queste vivande non sono messe in mostra, ma presentate al giudizio di ognuno. Quei cibi che di solito si servono separatamente vengano uniti, immersi nello stesso intingolo; non ci siano distinzioni; ostriche, ricci, spondili, triglie siano messi in tavola cotti insieme e mescolati." Il cibo che si vomita non potrebbe essere più mescolato. 29 Le malattie che nascono da piatti così confusi sono complesse, oscure, diverse, multiformi, e per combatterle la medicina ha cominciato a munirsi di svariati metodi e ricette.
Lo stesso ti dico della filosofia. Un tempo, quando le colpe erano meno gravi e vi si poteva porre facilmente rimedio, era più semplice: ma di fronte a un tale sfacelo morale, bisogna tentare di tutto. E volesse il cielo che questa peste fosse infine debellata! 30 La nostra follia interessa la vita privata e anche quella pubblica. Reprimiamo gli omicidi, gli assassini di singoli individui: ma che dire delle guerre e dello sterminio di intere popolazioni, delitti di cui ci si vanta? L'avarizia, la crudeltà non conoscono misura. E finché rimangono nascoste, opera di singole persone, sono meno nocive e meno abominevoli. Ma le atrocità vengono sancite dai decreti del senato e del popolo e si comanda in nome dello stato quello che è proibito in privato. 31 Quei delitti che, compiuti di nascosto, verrebbero puniti con la pena di morte, noi li approviamo perché li hanno commessi degli alti ufficiali? Gli uomini, che pure sono una razza mitissima, non si vergognano di godere delle reciproche stragi, di fare guerre e di lasciarle in eredità ai figli perché le portino avanti, mentre anche le bestie e le fiere non combattono tra loro. 32 Contro un furore così potente e diffuso la filosofia è diventata più attiva e più forte in proporzione alla forza dei mali che doveva combattere. Era facile, in passato, rimproverare gli uomini che indulgevano al vino e ricercavano cibi più raffinati, non serviva una grande forza per riportarli alla frugalità: non se ne erano allontanati molto.
33 ora ci vuole mano rapida e grande maestria.
Dovunque si cerca il piacere; nessun vizio rimane dentro i suoi confini: il lusso precipita nell'avidità. L'onestà è dimenticata; non consideriamo ignobile niente di quello che ci alletta. L'uomo, creatura sacra all'uomo, viene ormai ucciso per divertimento e per gioco, e mentre prima era considerato un misfatto insegnare a un individuo a ferire e a essere ferito, ora lo si spinge fuori nudo e inerme, e la morte di un uomo è uno spettacolo che soddisfa. 34 Di fronte a una tale depravazione si sente il bisogno di una forza più vigorosa del comune, che dissipi questi mali inveterati: bisogna agire in base ai princìpî della filosofia per sradicare del tutto le nostre false convizioni. E se ai princìpî uniremo precetti, consolazioni, esortazioni, essi avranno efficacia: da soli non bastano. 35 Se vogliamo vincolare gli uomini al bene e strapparli ai vizi che li legano, imparino che cosa è il bene e che cosa il male, sappiano che ogni cosa, tranne la virtù, cambia nome e diventa un po' un bene, un po' un male. Come il primo vincolo di un soldato è la lealtà giurata, l'amore per la bandiera e il considerare la diserzione un delitto, e quando ha prestato giuramento, gli altri obblighi li si può esigere e comandarglieli facilmente; così in quegli uomini che vuoi condurre alla felicità bisogna gettare le prime fondamenta del bene e insinuare la virtù. Ne abbiano quasi una fanatica venerazione, la amino; vogliano vivere con lei, e senza di lei morire.
36 "Ma come? Individui sprovvisti di un'educazione accurata non sono diventati uomini onesti e hanno conseguito dei risultati notevoli semplicemente adeguandosi a una pura precettistica?" D'accordo, ma avevano un ingegno fertile e gli insegnamenti utili li hanno carpiti al volo. Gli dèi immortali non hanno bisogno di imparare le virtù, le possiedono tutte innate e fa parte della loro natura essere buoni; così ci sono degli uomini dotati dalla fortuna di qualità straordinarie, che arrivano senza un lungo apprendistato a quei concetti che di solito vengono insegnati, e abbracciano i princìpî onesti appena ne sentono parlare; di qui queste menti così pronte a ghermire la virtù, fertili anche di per se stesse. Le nature deboli e ottuse, invece, oppure assediate dalle cattive abitudini, bisogna ripulirle dalla ruggine spirituale. 37 Del resto se uno insegna i princìpî filosofici, come riesce a condurre più rapidamente ai vertici del bene chi vi è incline, così aiuterà anche i più deboli, strappandoli ai pregiudizi sbagliati; e di come siano necessari questi princìpî te ne puoi rendere conto. Ci sono forze in noi che ci rendono pigri per certe cose, temerari per altre; è un'audacia che non può essere contenuta, un'indolenza che non si può scuotere, se non ne sopprimi le cause, e cioè il terrore o l'ammirazione infondati. Finché ne siamo preda, puoi ben dire: "Questo lo devi al padre, questo ai figli, questo agli amici, questo agli ospiti"; anche se uno ci prova, lo bloccherà l'avarizia. Saprà che bisogna battersi per la patria, ma la paura lo distoglierà; saprà che per gli amici bisogna sudare fino all'ultima goccia, ma glielo vieteranno i piaceri; saprà che è un gravissimo affronto per la moglie avere un amante, ma la lussuria lo spingerà ad agire contro virtù. 38 Indicare delle norme non servirà a niente, se prima non togli di mezzo gli ostacoli a queste norme, allo stesso modo che aver messo sotto gli occhi e a disposizione di una persona delle armi non servirà a niente se non gli sleghi le mani per usarle. Perché l'animo possa indirizzarsi agli insegnamenti che gli offriamo, bisogna liberarlo. 39 Supponiamo che qualcuno faccia quanto è necessario: non lo farà in modo né costante, né uniforme; ignora, difatti, perché lo faccia. O per caso, o a forza di provare, certe cose avranno buon esito, ma egli non stringerà in pugno lo strumento che gli consente una verifica, in base a cui possa ritenere giusto quello che ha fatto. Uno buono per caso non garantisce di conservarsi così eternamente.
40 Inoltre i precetti potranno forse metterlo in grado di compiere il proprio dovere, ma non gli indicheranno il modo; e se non lo indicano, non conducono certo alla virtù. Se ammonito, farà il suo dovere, te lo concedo; ma è poco, perché lodevole non è l'azione, ma il come si verifica. 41 Che cosa c'è di più scandaloso che mangiarsi un patrimonio da rango equestre in una cena sontuosa? Che cosa merita maggiore censura se uno, come blaterano questi dissoluti, fa una tale concessione a sé e al suo estro? E tuttavia, uomini frugalissimi, all'entrata in carica, hanno offerto pranzi da un milione di sesterzi. Lo stesso fatto è riprovevole se è una concessione alla gola; ma non lo si può criticare se è per una carica; non è lusso, ma una spesa dovuta alle consuetudini. 42 A Tiberio fu inviata una triglia di dimensioni gigantesche - e perché non specificare il peso e solleticare la golosità di qualcuno? - dicevano che pesasse quattro libbre e mezza. Egli diede ordine che fosse portata al mercato e messa in vendita, dicendo: "Amici, se non mi sbaglio, questa triglia la comprerà o Apicio o P. Ottavio." Ma si andò al di là delle sue previsioni: misero il pesce all'asta, vinse Ottavio e si ricoprì di grande gloria tra i suoi: aveva acquistato per cinquemila sesterzi la triglia venduta da Cesare, che neppure Apicio aveva comprato. Pagare una somma simile fu una vergogna per Ottavio, non per chi aveva acquistato la triglia con l'intenzione di mandarla a Tiberio; per quanto, secondo me, anche costui va criticato: l'ha giudicata straordinaria e ne ha considerato degno l'imperatore. 43 Uno assiste l'amico ammalato: bravo! Ma lo fa per ereditare: è un avvoltoio, aspetta il cadavere. Le stesse azioni possono essere oneste o disoneste: quello che conta è il perché o il modo in cui sono fatte. Ma saranno sempre oneste se ci consacreremo all'onestà e vedremo in essa e in quello che ne trae origine l'unico bene dell'uomo; gli altri sono beni temporanei. 44 Dobbiamo, perciò metterci bene in testa questa convinzione - io la chiamo principio - che riguarda tutta la vita. A tale convinzione le nostre azioni, i nostri pensieri si uniformeranno e la nostra vita a sua volta si uniformerà ad essi. I consigli particolari sono poca cosa per chi vuole dare un ordine all'intera esistenza. 45 M. Bruto nel libro intitolato $ðåñr êáèÞêïíôïò$ dà una ricca precettistica per i genitori, i figli, i fratelli: ma nessuno la seguirà come deve, se non avrà un punto di riferimento. Dobbiamo proporci come fine il sommo bene, tendervi con ogni sforzo e guardare ad esso per tutte le nostre azioni e le nostre parole, così come i marinai devono dirigere la rotta secondo una stella. 46 Se manca un traguardo, la vita è un girovagare. E se questo traguardo bisogna senz'altro proporselo, cominciano a essere necessari i princìpî. Sarai d'accordo, penso, che niente è più riprovevole di un uomo che, pieno di dubbi, di incertezze, di paure, ritorna sui suoi passi. E questo ci capiterà in ogni circostanza se non togliamo di mezzo tutto ciò che trattiene e lega il nostro animo e gli impedisce di avanzare e di lottare con tutto se stesso.
47 Tra le norme più diffuse ci sono quelle che riguardano il culto degli dèi. Ebbene: si proibisca di accendere lumi il sabato: gli dèi non hanno bisogno di luce e per gli uomini il fumo delle lucerne non è piacevole. Si vieti l'adempimento dei saluti mattutini e lo stare seduti alle porte dei templi: solo l'ambizione umana è conquistata da omaggi come questi; onorare dio è conoscerlo. Si vieti che vengano portati a Giove drappi di tela e strìgili e che si regga lo specchio a Giunone: dio non cerca servitori. Perché no? È lui stesso a servire gli uomini, è a disposizione dovunque e di tutti. 48 Anche se uno apprende quali norme deve rispettare nei sacrifici, come debba abbandonare le superstizioni dannose, non avrà mai fatto progressi sufficienti se non ha una giusta concezione di dio, che tutto possiede, tutto offre, ed è benefico senza pretendere una contropartita. 49 Che cosa spinge gli dèi a fare il bene? La loro natura. È un errore credere che non vogliono fare del male; non possono farlo. E non possono né subire, né arrecare offese; offendere ed essere offesi sono cose strettamente unite. La loro natura superiore e più bella di ogni altra li ha sottratti ai pericoli e li ha resi anche non pericolosi per gli altri. 50 Primo atto di venerazione verso gli dèi è credere in loro; poi riconoscerne la maestà e riconoscerne la bontà senza la quale non c'è maestà; sapere che sono loro a governare il mondo, a regolare tutto con la loro forza, a esercitare la tutela dell'umanità, trascurando a volte i singoli individui. Gli dèi non fanno e non subiscono il male; ma riprendono certi uomini, li tengono a freno, li castigano e talora infliggono una punizione sotto l'apparenza di un bene. Vuoi propiziarti gli dèi? Sii buono. Imitarli è un atto di venerazione sufficiente.
51 Ecco un altro problema: come ci si deve comportare con gli uomini? Che facciamo? Che insegnamenti diamo? Di non versare sangue umano? È davvero poco non fare del male al prossimo cui si dovrebbe fare del bene! È proprio un grande merito per un uomo essere mite con un altro uomo! Insegneremo a porgere la mano al naufrago, a mostrare la strada a chi l'ha perduta, a dividere il pane con chi ha fame? Perché elencare tutte le azioni da compiere e da evitare quando posso insegnare questa breve formula che comprende tutti i doveri dell'uomo: 52 tutto ciò che vedi e che racchiude l'umano e il divino, è un tutt'unico; noi siamo le membra di un grande corpo. La natura ci ha generato fratelli, poiché ci ha creato dalla stessa materia e indirizzati alla stessa meta; ci ha infuso un amore reciproco e ci ha fatti socievoli. Ha stabilito l'equità e la giustizia; in base alle sue norme, chi fa del male è più sventurato di chi il male lo riceve; per suo comando le mani siano sempre pronte ad aiutare. 53 Medita e ripeti spesso questo verso:
Sono un uomo, e niente di ciò che è umano lo giudico a me estraneo.
Mettiamo tutto in comune: siamo nati per una vita in comune. La nostra società è molto simile a una vòlta di pietre: cadrebbe se esse non si sostenessero a vicenda, ed è proprio questo che la sorregge.
54 Dopo gli dèi e gli uomini vediamo come dobbiamo valerci delle cose. Le norme che predichiamo sono inutili, se prima non avremo l'esatta opinione su tutto, sulla povertà, la ricchezza, la gloria, il disonore, la patria, l'esilio. Valutiamo queste cose una per una, tralasciando l'opinione generale, e cerchiamo la loro essenza, non il loro nome.
55 Passiamo ora alle virtù. Qualcuno ci raccomanderà di stimare molto la prudenza, di abbracciare la fortezza, di stringerci, se possibile, alla giustizia più che alle altre virtù' ma non arriverà a nessun risultato se noi ignoriamo cos'è la virtù, se è una o più di una, se sono separate o collegate, se chi ne ha una, possiede anche le altre, in che cosa differiscano tra loro. 56 L'artigiano non ha bisogno di chiedere notizie sul suo mestiere, quando è cominciato, quale ne sia l'uso, come non ne ha bisogno il pantomimo sull'arte della danza: tutte queste arti conoscono se stesse, non manca nulla, perché non riguardano la totalità della vita. La virtù è conoscenza delle altre cose e di sé; per apprenderla bisogna studiarla a fondo. 57 Un'azione non sarà onesta, se onesta non sarà la volontà, da cui l'azione deriva. E d'altra parte, la volontà non sarà onesta, se non sarà onesta la disposizione di spirito da cui la volontà deriva. A sua volta, la disposizione di spirito non sarà la migliore se non avrà appreso le leggi dell'intera esistenza e non avrà ricercato che giudizio si debba esprimere su ogni fatto, se non avrà ricondotto le cose alla verità. La serenità la può avere solo chi si è formato un giudizio sicuro e incrollabile. Tutti gli altri cadono più volte, si rimettono in piedi e ondeggiano alternativamente tra rinunce e desideri. 58 Qual è il motivo di questa loro instabilità? Che niente è chiaro per chi si basa sul criterio più incerto: l'opinione pubblica. Se vuoi avere una volontà costante, devi volere sempre la verità. Ma alla verità non si arriva senza princìpî filosofici: essi comprendono tutta la vita. Il bene e il male, l'onestà e la disonestà, la giustizia e l'ingiustizia, la pietà e l'empietà, la virtù e l'esercizio delle virtù, il possesso di comodità materiali, la stima e la dignità, la salute, le forze, la bellezza, l'acutezza dei sensi - tutte queste cose hanno bisogno di uno che ne faccia una stima esatta. Dobbiamo sapere quanto ciascuna vada valutata. 59 Difatti ci inganniamo e certe cose le stimiamo più del loro valore; anzi ci inganniamo al punto da apprezzare moltissimo cose che non valgono un soldo: la ricchezza, il favore della massa, la potenza. Ma il giusto valore non lo potrai conoscere se non esaminerai la base fondamentale per cui queste cose vengono stimate in rapporto tra loro. Le foglie non possono germogliare da sé, hanno bisogno di stare attaccate a un ramo da cui trarre la linfa; analogamente questi precetti, da soli, marciscono; richiedono di essere strettamente legati a una dottrina filosofica.
60 Inoltre, quei filosofi che eliminano i princìpî, non capiscono che questi trovano conferma proprio nel motivo per cui vengono eliminati. Che cosa sostengono costoro? Che per vivere, i precetti sono sufficienti e che i princìpî della saggezza sono superflui. Ma questa stessa loro affermazione, perbacco, è un principio, proprio come se ora io dicessi che bisogna abbandonare i precetti perché inutili e servirsi dei princìpî e concentrarsi solo su questi; darei dei precetti proprio nel momento in cui sostenessi che i precetti vanno tralasciati. 61 Certe parti della filosofia richiedono un ammonimento, certe altre una dimostrazione, e ampia, perché sono oscure e diventano più chiare solo procedendo con grande esattezza e penetrazione. Se le dimostrazioni sono necessarie, sono necessari anche i princìpî che col ragionamento arrivano alla verità. Certi sono chiari, certi oscuri: chiari quelli che si comprendono col buon senso e rimangono nella memoria; oscuri quelli che sfuggono a queste due facoltà. Ma la ragione non si appaga di concetti evidenti: la sua funzione maggiore e più bella si esplica nelle questioni che ci sfuggono. Queste richiedono una dimostrazione, e per la dimostrazione bisogna ricorrere ai princìpî; quindi i princìpî sono necessari. 62 Il senso comune e anche l'intelligenza perfetta sono il prodotto di un giudizio esatto sulle cose; se è vero che senza di esso tutto dentro di noi diventa incerto, i princìpî, che ci forniscono un giudizio immutabile, sono necessari. 63 Infine, quando esortiamo qualcuno ad avere per l'amico la stessa considerazione che per se stesso, a pensare che un nemico può diventare un amico, ad accrescere il suo amore per il primo, a moderare l'odio verso il secondo, noi aggiungiamo: "È giusto, onesto." Ma il giusto e l'onesto dei nostri princìpî lo comprende la ragione; dunque, è necessaria, perché senza di essa non esistono neppure i princìpî. 64 Ma uniamo precetti e princìpî: senza le radici i rami sono inservibili, e d'altra parte le radici si valgono dei rami che hanno generato. Nessuno può ignorare l'utilità delle mani, l'aiuto che dànno è evidente: ma il cuore, che alle mani dà vita, slancio, movimento, è nascosto. Dei precetti possiamo dire lo stesso: sono evidenti, mentre i princìpî della saggezza sono reconditi. Solo gli iniziati conoscono i più sacri misteri del culto, così i misteri della filosofia sono svelati agli individui ammessi e accolti nei suoi penetrali; ma i precetti e gli altri insegnamenti dello stesso tipo sono noti anche ai profani.
65 Secondo Posidonio sono necessarie non solo la precettistica (niente ci proibisce di servirci di questa parola), ma anche il consiglio, il conforto e l'esortazione; aggiunge, inoltre, la ricerca delle cause, o eziologia, e non vedo perché noi non dovremmo osarne l'adozione e l'uso, quando i grammatici, custodi della lingua latina, a buon diritto, se ne servono. Posidonio sostiene anche l'utilità della descrizione di ciascuna virtù, che egli chiama "etologia", mentre altri la definiscono "charatterismos"; essa ci dà le note caratteristiche di ogni virtù e di ogni vizio, grazie alle quali si distinguono cose simili tra loro. 66 L'etologia ha la stessa forza dei precetti; difatti, chi insegna dice: "Fai questo se vuoi essere temperante"; chi descrive dice: "È temperante chi fa questo, chi non fa quest'altro." Vuoi sapere la differenza? Il primo dà precetti di virtù, il secondo ne dà un modello. Confesso che queste descrizioni o rappresentazioni fedeli, per usare una parola da esattori, sono utili: proponiamo esempi lodevoli, troveremo un imitatore. 67 Ritieni utile che ti vengano date delle prove grazie alle quali puoi riconoscere un cavallo di razza, per non concludere un affare sbagliato, per non perder tempo con un animale fiacco? Quanto è più utile conoscere le caratteristiche di un animo straordinario, che da un altro si possono trasferire a sé!
68 Un puledro di buona razza avanza eretto nei campi, posando con agilità le zampe; per primo osa muoversi, guadare fiumi minacciosi, attraversare un ponte mai passato e non lo spaventano vani fragori. Ha il collo erto, la testa ben delineata, il ventre piccolo, il dorso pingue e il superbo petto è un rigoglio di muscoli...
...Se sente da lontano risuonare le armi, non sa stare fermo, drizza le orecchie, gli fremono gli arti e soffia dalle narici, cacciando fuori l'ardore accumulato.
69 Il nostro Virgilio, senza volerlo, ci ha descritto l'uomo forte: io, almeno, di un grand'uomo farei lo stesso ritratto. Se dovessi rappresentare M. Catone impavido fra i clamori delle guerre civili, nell'atto di attaccare per primo gli eserciti arrivati ormai alle Alpi e di affrontare la guerra civile, non gli darei un aspetto diverso o un diverso atteggiamento. 70 Nessuno poté certamente avanzare con maggiore dignità dell'uomo che si levò contemporaneamente contro Cesare e Pompeo e che mentre si parteggiava per l'una o per l'altra fazione, li sfidò entrambi e mostrò che si potevano anche tenere le parti dello stato. È poco dire di Catone "non lo spaventano vani fragori". E perché no? Visto che non lo spaventano quelli veri e vicini, che alza la sua voce libera contro dieci legioni, le milizie ausiliarie galliche, le forze barbariche miste a quelle civili ed esorta lo stato a non capitolare di fronte alla lotta per la libertà, ma a tentare di tutto, perché cadere in schiavitù è più onorevole che andarle incontro. 71 Che vigore, che audacia c'è in lui, che coraggio in mezzo al panico generale! Sa che è il solo la cui condizione non è in gioco: il problema non è se Catone è libero, ma se vive tra uomini liberi: da qui il suo disprezzo dei pericoli e delle spade. Piace ammirare l'invincibile fermezza di un uomo incrollabile nella rovina generale e dire "e il superbo petto è un rigoglio di muscoli".
72 Sarà utile non solo descrivere le qualità usuali degli uomini virtuosi e ritrarre la loro immagine e i loro tratti caratteristici, ma raccontare e mostrare quali furono; l'estrema e coraggiosissima ferita di Catone attraverso la quale la libertà esalò l'ultimo respiro; la saggezza di Lelio e l'armonia con il suo Scipione; le azioni straordinarie dell'altro Catone, nella sfera privata e in quella pubblica; i letti conviviali di legno di Tuberone, allestiti per un pranzo ufficiale, con pelli di capra anziché coperte, e i vasi di argilla per i banchetti posti proprio davanti alla cella di Giove; che altro significava se non consacrare la povertà sul Campidoglio? Anche se non conoscessi altri suoi gesti per metterlo tra i Catoni, questo ti sembrerebbe poco? Non fu un pranzo, ma una censura. 73 Come ignorano quegli uomini avidi di gloria che cosa essa sia veramente e come la si debba cercare! Quel giorno il popolo romano vide le suppellettili di molte persone, ma ammirò quelle di uno solo. L'oro e l'argento di tutti gli altri è stato spezzato e fuso molte volte: i vasi d'argilla di Tuberone dureranno attraverso le generazioni. Stammi bene.
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