SENECA - Lettere a Lucilio Libro IV - testo latino e traduzione

L. ANNAEI SENECAE EPISTULARUM MORALIUM AD LUCILIUM - LETTERE A LUCILIO DI SENECA
Opera integrale tradotta - testo latino e traduzione
LIBER QUARTUS - libro quarto Libro IV lettera XXX

[1]XXX. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM Bassum Aufidium, virum optimum, vidi quassum, aetati obluctantem.

Sed iam plus illum degravat quam quod possit attolli; magno senectus et universo pondere incubuit. Scis illum semper infirmi corporis et exsucti fuisse; diu illud continuit et, ut verius dicam, concinnavit: subito defecit. Quemadmodum in nave quae sentinam trahit uni rimae aut alteri obsistitur, ubi plurimis locis laxari coepit et cedere, succurri non potest navigio dehiscenti, ita in senili corpore aliquatenus imbecillitas sustineri et fulciri potest. Ubi tamquam in putri aedificio omnis iunctura diducitur, et dum alia excipitur, alia discinditur, circumspiciendum est quomodo exeas. Bassus tamen noster alacer animo est: hoc philosophia praestat, in conspectu mortis hilarem et in quocumque corporis habitu fortem laetumque nec deficientem quamvis deficiatur. Magnus gubernator et scisso navigat velo et, si exarmavit, tamen reliquias navigii aptat ad cursum. Hoc facit Bassus noster et eo animo vultuque finem suum spectat quo alienum spectare nimis securi putares. Magna res est, Lucili, haec et diu discenda, cum adventat hora illa inevitabilis, aequo animo abire. Alia genera mortis spei mita sunt: desinit morbus, incendium exstinguitur, ruina quos videbatur oppressura deposuit; mare quos hauserat eadem vi qua sorbebat eiecit incolumes; gladium miles ab ipsa perituri cervice re vocavit: nil habet quod speret quem senectus ducit ad mortem; huic uni intercedi non potest. Nullo genere homines mollius moriuntur sed nec diutius. [5] Bassus noster videbatur mihi prosequi se et componere et vivere tamquam superstes sibi et sapienter ferre desiderium sui. Nam de morte multa loquitur et id agit sedulo ut nobis persuadeat, si quid incommodi aut metus in hoc negotio est, morientis vitium esse, non mortis;

non magis in ipsa quicquam esse molestiae quam post ipsam. [6] Tam demens autem est qui timet quod non est passurus quam qui timet quod non est sensurus. An quis quam hoc futurum credit, ut per quam nihil sentiatur, ea sentiatur? 'Ergo' inquit 'mors adeo extra omne malum est ut sit extra omnem malorum metum.' [7] Haec ego scio et saepe dicta et saepe dicenda, sed neque cum legerem aeque mihi profuerunt neque cum audirem iis dicentibus qui negabant timenda a quorum metu aberant: hic vero plurimum apud me auctoritatis habuit, cum loqueretur de morte vicina. [8] Dicam enim quid sentiam: puto fortiorem esse eum qui in ipsa morte est quam qui circa mortem. Mors enim admota etiam imperitis animum dedit non vitandi inevitabilia; si gladiator tota pugna timidissimus iugulum adversario praestat et errantem gladium sibi attemperat. At illa quae in propinquo est utique ventura desiderat lentam animi firmitatem, quae est rarior nec potest nisi a sapiente praestari. [9] Libentissime itaque illum audiebam quasi ferentem de morte: sententiam et qualis esset eius natura velut propius inspectae indicantem.

Plus, ut puto, fidei haberet apud te, plus ponderis, si quis revixisset et in morte nihil mali esse narraret expertus: accessus mortis quam perturbationem afferat optime tibi hi dicent qui secundum illam steterunt, qui venientem et viderunt et receperunt. [10] Inter hos Bassum licet numeres, qui nos decipi noluit. Is ait tam stultum esse qui mortem timeat quam qui senectutem; nam quemadmodum senectus adulescentiam sequitur, ita mors senectutem. Vivere noluit qui mori non vult; vita enim cum exceptione mortis data est; ad hanc itur. Quam ideo timere dementis est quia certa exspectantur, dubia metuuntur. [11] Mors necessitatem habet aequam et invictam: quis queri potest in ea condicione se esse in qua nemo non est? prima autem pars est aequitatis aequalitas. Sed nunc supervacuum est naturae causam agere, quae non aliam voluit legem nostram esse quam suam: quid quid composuit resolvit, et quidquid resolvit componit iterum. [12] Iam vero si cui contigit ut illum senectus leviter emitteret, non repente avulsum vitae sed minutatim subductum, o ne ille agere gratias diis omnibus debet quod satiatus ad requiem homini necessariam, lasso gratam perductus est. Vides quosdam optantes mortem, et quidem magis quam rogari solet vita. Nescio utros existimem maiorem nobis animum dare, qui deposcunt mortem an qui hilares eam quietique opperiuntur, quoniam illud ex rabie interdum ac repentina indignatione fit, haec ex iudicio certo tranquillitas est. Venit aliquis ad mortem iratus: mortem venientem nemo hilaris excepit nisi qui se ad illam diu composuerat. 30 1

Ho visto Aufidio Basso, gran brava persona, mal ridotto e in lotta con l'età.

Ma questa ormai pesa a tal punto su di lui da non permettergli più di riaversi; la vecchiaia gli sta addosso con tutto il suo tremendo peso. Sai che ha sempre avuto un fisico debole e smunto; a lungo l'ha sostenuto, anzi, per meglio dire, rabberciato: improvvisamente ha ceduto. 2 Quando una nave imbarca acqua, si tamponano ora l'una ora l'altra falla, ma se incomincia a cedere e ad aprirsi in più punti, non c'è rimedio per l'imbarcazione che si sfascia; allo stesso modo un fisico vecchio e debole si può tenere in piedi e puntellare fino a un certo punto. Quando tutte le commessure si aprono, come in un edificio marcio, e mentre ne ripari una, se ne spacca un'altra, bisogna cercare il modo di venirne fuori. 3 Tuttavia il nostro Basso ha uno spirito vivace: questo ti dà la filosofia: essere sereno di fronte alla morte, forte e addirittura lieto indipendentemente dalle condizioni fisiche, e non cedere anche se le forze non reggono più. Un pilota abile naviga pure se la velatura è a brandelli e, se ha perso le sartie, segue ugualmente la rotta con quel che resta della nave. Così fa il nostro Basso e guarda alla sua fine con quello spirito e quel volto che apparirebbero eccessivamente tranquilli persino per uno che guardasse la morte di un altro. 4 È questa, Lucilio mio, una lezione importante, che va imparata e meditata a lungo: andarsene con animo sereno, quando si avvicina l'ora fatale. Altri generi di morte non escludono una speranza di salvezza: una malattia può finire, un incendio si può spegnere, a volte un crollo ha lasciato incolumi persone che pareva dovesse schiacciare; il mare ha gettato sulla riva sani e salvi i naufraghi con la stessa violenza con cui li aveva inghiottiti; il soldato ha ritirato la spada proprio dal collo della vittima; ma se uno lo trascina a morte la vecchiaia, non ha nessuna speranza: solo a essa non ci si può opporre. Nessun tipo di morte è più dolce, ma neppure più lunga. 5 Mi sembrava quasi che il nostro Basso assistesse ai suoi funerali e alla sua sepoltura, e continuasse poi a vivere come fosse superstite a se stesso, sopportando con saggezza la propria perdita.

Parla molto della morte e si dà da fare per persuaderci che, se questa faccenda è spiacevole e terribile, la colpa è di chi muore, non della morte; in essa non c'è dolore, come non ce n'è dopo. 6 Se uno teme disgrazie che poi non subirà, è pazzo quanto chi teme una cosa che non potrà avvertire. Oppure qualcuno crede che sentirà la morte, quando, invece, per merito suo non sentiremo più niente? "Quindi," egli conclude, "la morte è così al di fuori da ogni male da essere al di fuori anche da ogni paura di mali." 7 Questi concetti li hanno ripetuti spesso e spesso devono essere ripetuti, lo so bene; ma io non ne ho tratto mai tanto giovamento a leggerli o ad ascoltarli da persone che sostenevano che non si deve temere la morte, e ne erano lontane: Basso, invece, parla della fine ormai vicina e le sue parole sono per me autorevolissime. 8 Ti dirò come la penso: se uno si trova in punto di morte ha, secondo me, più coraggio di chi è prossimo alla morte. La morte imminente, infatti, ha dato anche a uomini ignoranti la forza di affrontare l'inevitabile; così il gladiatore, pieno di paura per tutto il combattimento, offre la gola all'avversario e dirige contro di sé la spada esitante. Ma quando la morte è vicina e destinata ad arrivare in ogni caso, richiede una fermezza d'animo tenace che è piuttosto rara e la può dimostrare solo il saggio.

9 Perciò ascoltavo molto volentieri Basso, come se egli esprimesse un giudizio sulla morte e ne indicasse la vera natura, quasi l'avesse osservata più da vicino. Tu crederesti di più, io penso, e attribuiresti maggior peso a uno che resuscitasse e ti dicesse per sua esperienza che nella morte non c'è nessun male: il turbamento che porta l'avvicinarsi della morte, potrebbero spiegartelo benissimo quelli che le sono stati vicini, l'hanno vista arrivare e l'hanno accolta. 10 Tra costoro metti Basso che ci ha voluto liberare dall'errore. Temere la morte, dice, è da stupidi come temere la vecchiaia; la vecchiaia segue l'adolescenza, e la morte la vecchiaia. Se uno non vuole morire, non vuole vivere: la vita ci è stata data con la condizione della morte; noi avanziamo verso di essa. Perciò è da pazzi temerla: solo gli eventi dubbi si temono, quelli certi si aspettano. 11 La morte è una necessità uguale per tutti e invincibile: e nessuno può lamentarsi di essere in una situazione comune a tutti. Condizione prima della giustizia è l'uguaglianza. Ma ora è superfluo difendere la natura che ha voluto per noi una legge analoga alla sua: essa distrugge tutto ciò che ha formato e riforma quanto ha distrutto. 12 Se a uno è capitato che la vecchiaia lo allontani lentamente dalla vita, senza strapparlo all'improvviso, ma sottraendovelo a poco a poco, non deve ringraziare tutti gli dèi? Ormai sazio viene condotto a quel riposo necessario all'uomo e gradito a chi è stanco. Tu lo vedi: certi desiderano la morte e con più intensità di quanto solitamente si chiede la vita. Non so se ci infonde più coraggio chi implora la morte o chi l'aspetta lieto e sereno: quel desiderio nasce talvolta da furore o da sdegno improvviso, mentre questa tranquillità deriva da una valutazione ponderata. Qualcuno va incontro alla morte pieno d'ira: solo chi vi si è preparato a lungo, ne accoglie lieto l'arrivo.

LIBRO QUARTO LETTERA TRENTESIMA 13-18

[13] Fateor ergo ad hominem mihi carum ex pluribus me causis frequentius venisse, ut scirem an illum totiens eundem invenirem, numquid cum corporis viribus minueretur animi vigor; qui sic crescebat illi quomodo manifestior notari solet agitatorum laetitia cum septimo spatio palmae appropinquat. [14] Dicebat quidem ille Epicuri praeceptis obsequens, primum sperare se nullum dolorem esse in illo extremo anhelitu; si tamen esset, habere aliquantum in ipsa brevitate solacii; nullum enim dolorem longum esse qui magnus est. Ceterum succursurum sibi etiam in ipsa distractione animae corporis que, si cum cruciatu id fieret, post illum dolorem se dolere non posse. Non dubitare autem se quin senilis anima in primis labris esset nec magna vi distraheretur a corpore. 'Ignis qui alentem materiam occupavit aqua et interdum ruina exstinguendus est: ille qui alimentis deficitur sua sponte subsidit.' [15] Libenter haec, mi Lucili, audio non tamquam nova, sed tamquam in rem praesentem perductus. Quid ergo? non multos spectavi abrumpentes vitam? Ego vero vidi, sed plus momenti apud me habent qui ad mortem veniunt sine odio vitae et admittunt illam, non attrahunt. [16] Illud quidem aiebat tormentum nostra nos sentire opera, quod tunc trepidamus cum prope a nobis esse credimus mortem: a quo enim non prope est, parata omnibus locis omnibusque momentis? 'Sed consideremus' inquit 'tunc cum aliqua causa moriendi videtur accedere, quanto aliae propiores sint quae non timentur.' [17] Hostis alicui mortem minabatur, hanc cruditas occupavit. Si distinguere voluerimus causas metus nostri, inveniemus alias esse, alias videri. Non mortem timemus sed cogitationem mortis; ab ipsa enim semper tantundem absumus. Ita si timenda mors est, semper timenda est: quod enim morti tempus exemptum est? [18] Sed vereri debeo ne tam longas epistulas peius quam mortem oderis. Itaque finem faciam: tu tamen mortem ut numquam timeas semper cogita. Vale.

13 Confesso di essere andato piuttosto di frequente da quest'uomo, a me caro per moltissimi motivi, per vedere se lo avrei trovato ogni volta nella stessa disposizione di spirito, o se insieme alla forza fisica diminuisse il suo vigore spirituale; ma questo cresceva in lui come l'esultanza degli aurighi diventa più evidente quando, al settimo giro, si avvicinano alla vittoria. 14 Egli, seguendo gli insegnamenti di Epicuro, diceva di sperare prima di tutto che non ci fosse nessuna sofferenza in quell'anelito supremo; e se poi c'era, il fatto stesso che fosse di breve durata rappresentava già un grande sollievo: nessun dolore intenso dura a lungo. Ma anche al momento del distacco dell'anima dal corpo, nel caso fosse doloroso, lo avrebbe aiutato il pensiero che dopo quella sofferenza non avrebbe più potuto soffrire. Non dubitava, poi, che la sua anima senile fosse a fior di labbra e che si sarebbe staccata dal corpo senza grande violenza. "Il fuoco, quando si propaga a materiali infiammabili, bisogna spegnerlo con l'acqua, e a volte demolendo tutto; se gli manca alimento si estingue da solo." 15 Mio caro, queste parole le ascolto volentieri, non perché mi siano nuove, ma perché mi mettono di fronte alla realtà. E dunque? Non ho visto molti togliersi la vita? Sì, li ho visti, ma per me ha più valore chi arriva alla morte senza odiare la vita, e la accoglie, senza tirarsela addosso. 16 Basso sosteneva poi che quel tormento noi lo sentiamo per colpa nostra, perché ci lasciamo prendere dal panico quando crediamo che la morte ci sia vicina: ma la morte è vicina a ognuno, pronta a ghermirci in ogni luogo e in ogni momento. "Quando ci sembra che si avvicini un pericolo di morte," diceva, "consideriamo quanto ci sono più vicini altri pericoli di cui non abbiamo paura." 17 Un tale era minacciato di morte da un suo nemico e invece è morto prima di indigestione. Se vorremo analizzare le cause dei nostri timori, ne troveremo alcune reali, altre apparenti. Noi non temiamo la morte, temiamo il pensiero della morte; dalla morte siamo sempre ugualmente lontani. Così se va temuta, va temuta sempre: non c'è momento della vita che ne sia privo. 18 Ma temo che lettere tanto lunghe tu finisca per odiarle più della morte. Perciò concludo: tu, però alla morte pensaci sempre per non temerla mai. Stammi bene.

LIBRO IV LETTERA TRENTUNESIMA XXXI. SENECA LVCILIO SVO SALUTEM

[1] Agnosco Lucilium meum: incipit quem promiserat exhibere. Sequere illum impetum animi quo ad optima quaeque calcatis popularibus bonis ibas: non desidero maiorem melioremque te fieri quam moliebaris. Fundamenta tua multum loci occupaverunt: tantum effice quantum conatus es, et illa quae tecum in animo tulisti tracta. [2] Ad summam sapiens eris, si cluseris aures, quibus ceram parum est obdere: firmiore spissamento opus est quam in sociis usum Ulixem ferunt. Illa vox quae timebatur erat blanda, non tamen publica: at haec quae timenda est non ex uno scopulo sed ex omni terrarum parte circumsonat. Praetervehere itaque non unum locum insidiosa voluptate suspectum, sed omnes urbes. Surdum te amantissimis tuis praesta: bono animo mala precantur. Et si esse vis felix, deos ora ne quid tibi ex his quae optantur eveniat. [3] Non sunt ista bona quae in te isti volunt congeri: unum bonum est, quod beatae vitae causa et firmamentum est, sibi fidere. Hoc autem contingere non potest, nisi contemptus est labor et in eorum numero habitus quae neque bona sunt neque mala; fieri enim non potest ut una ulla res modo mala sit, modo bona, modo levis et perferenda, modo expavescenda. [4] Labor bonum non est: quid ergo est bonum? laboris contemptio. Itaque in vanum operosos culpaverim: rursus ad honesta nitentes, quanto magis incubuerint minus que sibi vinci ac strigare permiserint, admirabor et clamabo, 'tanto melior, surge et inspira et clivum istum uno si potes spiritu exsupera'. [5] Generosos animos labor nutrit. Non est ergo quod ex illo vetere parentum tuorum eligas quid contingere tibi velis, quid optes; et in totum iam per maxima acto viro turpe est etiam nunc deos fatigare. Quid votis opus est? fac te ipse felicem; facies autem, si intellexeris bona esse quibus admixta virtus est, turpia quibus malitia coniuncta est. Quemadmodum sine mixtura lucis nihil splendidum est, nihil atrum nisi quod tenebras habet aut aliquid in se traxit obscuri, quemadmodum sine adiutorio ignis nihil calidum est, nihil sine aere frigidum, ita honesta et turpia virtutis ac malitiae societas efficit. [6] Quid ergo est bonum ? rerum scientia. Quid malum est? rerum imperitia. Ille prudens atque artifex pro tempore quaeque repellet aut eliget; sed nec quae repellit timet nec miratur quae eligit, si modo magnus illi et invictus animus est. Summitti te ac deprimi veto. Laborem si non recuses, parum est: posce. [7] 'Quid ergo?' inquis 'labor frivolus et supervacuus et quem humiles causae evocaverunt non est malus?' Non magis quam ille qui pulchris rebus impenditur, quoniam animi est ipsa tolerantia quae se ad dura et aspera hortatur ac dicit, 'quid cessas? non est viri timere sudorem'. [8] Huc et illud accedat, ut perfecta virtus sit, aequalitas ac tenor vitae per omnia consonans sibi, quod non potest esse nisi rerum scientia contingit et ars per quam humana ac divina noscantur. Hoc est summum bonum; quod si occupas, incipis deorum socius esse, non supplex. [9] 'Quomodo' inquis 'isto pervenitur?' Non per Poeninum Graiumve montem nec per deserta Candaviae; nec Syrtes tibi nec Scylla aut Charybdis adeundae sunt, quae tamen omnia transisti procuratiunculae pretio: tutum iter est, iucundum est, ad quod natura te instruxit. Dedit tibi illa quae si non deserueris, par deo surges. [10] Parem autem te deo pecunia non faciet: deus nihil habet Praetexta non faciet: deus nudus est. Fama non faciet nec ostentatio tui et in populos nominis dimissa notitia: nemo novit deum, multi de illo male existimant, et impune. Non turba servorum lecticam tuam per itinera urbana ac peregrina portantium: deus ille maximus potentissimusque ipse vehit omnia. Ne forma quidem et vires beatum te facere possunt: nihil horum patitur vetustatem. [11] Quaerendum est quod non fiat in dies peius, cui non possit obstari. Quid hoc est? animus, sed hic rectus, bonus, magnus. Quid aliud voces hunc quam deum in corpore humano hospitantem? Hic animus tam in equitem Romanum quam in libertinum, quam in servum potest cadere. Quid est enim eques Romanus aut libertinus aut servus? nomina ex ambitione aut iniuria nata. Subsilire in caelum ex angulo licet: exsurge modo [...] et te quoque dignum finge deo. Finges autem non auro vel argento: non potest ex hac materia imago deo exprimi similis; cogita illos, cum propitii essent, fictiles fuisse. Vale.

31 1 Riconosco il mio Lucilio: comincia a mostrarsi quale aveva promesso: tu hai calpestato i beni cari alla massa e ti sei diretto alle più alte forme di bene: persevera in quel tuo slancio. Non desidero che tu divenga più grande o migliore di quanto hai cercato di essere. Hai fondamenta solide e ampie: realizza quanto hai tentato e metti in atto i tuoi propositi. 2 In breve, raggiungerai la saggezza, se ti tapperai le orecchie; ma chiuderle con la cera è poco: Ulisse, raccontano, l'adoperò per i suoi compagni: per te occorre un tappo più efficace. Le voci che egli temeva erano lusingatrici, ma isolate: queste che dobbiamo temere noi, invece, non risuonano da un solo scoglio, ma da ogni angolo della terra. Non devi oltrepassare un unico luogo sospetto per i suoi insidiosi piaceri, ma tutte le città. Fa' il sordo anche con le persone che ti amano di più: ti augurano il male nonostante le loro buone intenzioni. E se vuoi essere felice, prega gli dèi che non ti capiti niente di quanto esse desiderano. 3 Non sono veri beni quelli che costoro vogliono si accumulino in te: uno solo è il bene, causa e fondamento della felicità: la fiducia in se stessi. Ma non la si può ottenere se non si è indifferenti all'attività e la si annovera fra le cose che non sono né buone, né cattive: non è possibile che una stessa cosa un po' sia un male, un po' sia un bene, un po' leggera e tollerabile, un po' terrificante. 4 L'attività non è un bene: ma allora che cos'è il bene? L'indifferenza all'attività. Disapproverei, perciò quelli che si danno da fare inutilmente. Se uno, invece, indirizza i suoi sforzi a obiettivi onesti, quanto più si applica senza lasciarsi vincere o concedersi riposo, lo ammirerò e gli griderò: "Fatti animo, alzati, tira un bel respiro e supera questo pendio, se puoi, tutto d'un fiato." 5 L'attività nutre gli animi generosi. Non è, dunque, il caso che tu decida le tue aspirazioni, i tuoi desideri in base a quel vecchio voto dei tuoi genitori; è vergognoso per un uomo che è passato ormai attraverso tutti i più alti incarichi importunare ancora gli dèi. Che bisogno c'è di preghiere? Renditi felice da solo; e ci riuscirai, se avrai capito che i beni sono quelli cui si unisce la virtù, i mali quelli cui si unisce il vizio. Niente risplende se non è impregnato di luce, niente è oscuro se non ciò che sta nelle tenebre o riceve su di sé un'ombra; niente è caldo senza l'intervento del fuoco e niente è freddo senza l'aria; così l'associazione con la virtù o con il vizio rende le azioni oneste o disoneste. 6 Cos'è, dunque, il bene? La conoscenza della realtà. Che cos'è il male? L'ignoranza. Il saggio, artefice della sua vita, respinge o sceglie ogni cosa secondo le circostanze; ma se ha un animo grande e indomito, non teme quello che respinge, e non guarda con ammirazione ciò che sceglie. Non voglio che tu ti arrenda o ceda. Non rifiutare l'attività è poco: devi cercarla. 7 "Come?" ribatti. "Non è un male l'attività vana e superflua, motivata da cause meschine?" Non più di quella che impieghiamo in belle azioni, poiché è la stessa tenacia dello spirito che si incita a imprese ardue e difficili e dice: "Perché desisti? Non è virile temere il sudore." 8 E perché la virtù sia perfetta, bisogna che a tutto questo si aggiunga uniformità di pensiero e un tenore di vita sempre coerente a se stesso, e ciò è impossibile se manca la conoscenza della realtà e la scienza dei problemi umani e divini. Questo è il sommo bene; e se lo raggiungi, cominci a essere compagno degli dèi, non loro supplice. 9 "Come vi si arriva?" domandi. Non attraversando le Alpi Pennine o Graie, o i deserti della Candavia; non devi affrontare le Sirti, Scilla o Cariddi, che hai, però dovuto passare per guadagnarti la tua piccola carica: la strada è sicura, piacevole e la natura ti ha preparato ad essa. Ti ha dato qualità che, sfruttate, ti innalzeranno alla pari di un dio. 10 Il denaro, invece, non potrà fare altrettanto: dio non possiede niente. E non lo potrà la toga pretesta: dio non ha veste. Neppure la fama o il metterti in mostra o la notorietà del tuo nome fra le genti: nessuno conosce dio; molti lo giudicano male e impunemente. E nemmeno una turba di servi che porti la tua lettiga per le strade urbane ed extraurbane: dio, che è l'essere più grande e più potente, porta lui l'universo. Neppure la bellezza e la forza possono renderti felice: non resistono alla vecchiaia. 11 Bisogna cercare un bene che non si guasti giorno per giorno, che non conosca ostacoli. Qual è? Lo spirito, ma deve essere retto, onesto, grande. E come altro puoi chiamarlo, se non un dio che dimora nel corpo umano? Uno spirito simile può trovarsi sia in un cavaliere romano, che in un liberto o in uno schiavo. Cosa sono, infatti, un cavaliere romano, un liberto, uno schiavo? Nomi nati dall'ambizione o dall'ingiustizia. È possibile arrivare al cielo anche da un cantuccio: innalzati e rendi anche te degno di un dio. Ma non potrai farlo con l'oro o con l'argento; non si può da questi metalli tirar fuori un'immagine simile alla divinità; pensa che gli dèi, quando ci erano propizî, erano fatti di creta. Stammi bene.

LIBRO IV LETTERA TRENTADUESIMA XXXII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Inquiro de te et ab omnibus sciscitor qui ex ista regione veniunt quid agas, ubi et cum quibus moreris. Verba dare non potes: tecum sum. Sic vive tamquam quid facias auditurus sim, immo tamquam visurus. Quaeris quid me maxime ex iis quae de te audio delectet? quod nihil audio, quod plerique ex iis quos interrogo nesciunt quid agas. [2] Hoc est salutare, non conversari dissimilibus et diversa cupientibus. Habeo quidem fiduciam non posse te detorqueri mansurumque in proposito, etiam si sollicitantium turba circumeat. Quid ergo est? non timeo ne mutent te, timeo ne impediant. Multum autem nocet etiam qui moratur, utique in tanta brevitate vitae, quam breviorem inconstantia facimus, aliud eius subinde atque aliud facientes initium; diducimus illam in particulas ac lancinamus. [3] Propera ergo, Lucili carissime, et cogita quantum additurus celeritati fueris, si a tergo hostis instaret, si equitem adventare suspicareris ac fugientium premer vestigia. Fit hoc, premeris: accelera et evade, perduc te in tutum et subinde considera quam pulchra res sit consummare vitam ante mortem, deinde exspectare securum reliquam temporis sui partem, nihil sibi, in possessione beatae vitae positum, quae beatior non fit si longior. [4] O quando illud videbis tempus quo scies tempus ad te non pertinere, quo tranquillus placidusque eris et crastini neglegens et in summa tui satietate! Vis scire quid sit quod faciat homines avidos futuri? nemo sibi contigit. Optaverunt itaque tibi alia parentes tui; sed ego contra omnium tibi eorum contemptum opto quorum illi copiam. Vota illorum multos compilant ut te locupletent; quidquid ad te transferunt alicui detrahendum est. [5] Opto tibi tui facultatem, ut vagis cogitationibus agitata mens tandem resistat et certa sit, ut placeat sibi et intellectis veris bonis, quae simul intellecta sunt possidentur, aetatis adiectione non egeat. Ille demum necessitates supergressus est et exauctoratus ac liber qui vivit vita peracta.

32 1 Indago su di te e da tutti quelli che vengono da codesta regione cerco di sapere che cosa fai, dove e con chi passi il tuo tempo. Non puoi ingannarmi: ti sono vicino. Comportati come se io potessi sentire, anzi, vedere quello che fai. Vuoi sapere che cosa mi è più gradito di quello che sento su di te? Il fatto che non sento niente, che la maggior parte di quanti interrogo non sanno che cosa fai. 2 La cosa migliore è non avere rapporti con chi non è simile a noi e ha aspirazioni diverse. Sono, però convinto che non sia possibile fuorviarti e che rimarrai saldo nei tuoi propositi, anche se ti circonda una massa di gente che cerca di corromperti. E allora? Non temo che ti cambino, temo solo che ti siano di ostacolo. Anche chi provoca ritardi danneggia molto, soprattutto perché la vita è tanto breve, e noi la rendiamo ancòra più breve con la nostra incostanza, ricominciandola di continuo ora in un modo, ora in un altro: la riduciamo in pezzi e la laceriamo. 3 Affrettati, dunque, Lucilio carissimo, e pensa quanto andresti più veloce, se il nemico ti incalzasse alle spalle, se temessi l'arrivo della cavalleria sulle tracce dei fuggiaschi. Succede proprio questo: ti inseguono; affretta il passo e fuggi, mettiti al sicuro e considera come è bello portare a compimento la vita prima che sopraggiunga la morte e poi aspettare serenamente il tempo che rimane, non chiedendo niente per sé, nel possesso di un'esistenza felice, che più felice non diventa, se dura più a lungo. 4 Quando arriverà quel giorno in cui ti renderai conto che del tempo non ti importa, in cui sarai tranquillo e sereno, incurante del domani e ormai completamente pago di te stesso! Vuoi sapere che cosa rende gli uomini avidi del futuro? Nessuno appartiene a se stesso. I tuoi genitori hanno desiderato ben altro per te; io, invece, desidero che tu disprezzi tutti quei beni che loro ti augurano in abbondanza. I loro voti spogliano molti altri per arricchire te; tutto ciò che vogliono darti, bisogna toglierlo a qualcuno. 5 Io ti auguro, invece, di avere il possesso di te stesso in modo che la tua mente, travagliata da pensieri volubili, trovi riposo e certezze, che sia soddisfatta di sé e, riconosciuti i beni veri, che si possiedono non appena si riconoscono, non desideri una vita più lunga. Se uno vive dopo aver portato a compimento la propria vita, ha ormai superato tutte le necessità ed è completamente libero da ogni vincolo. Stammi bene.

LIBRO IV LETTERA TRENTATREESIMA 1-4
XXXIII. SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Desideras his quoque epistulis sicut prioribus adscribi aliquas voces nostrorum procerum. Non fuerunt circa flosculos occupati: totus contextus illorum virilis est. Inaequalitatem scias esse ubi quae eminent notabilia sunt: non est admirationi una arbor ubi in eandem altitudinem tota silva surrexit. [2] Eiusmodi vocibus referta sunt carmina, refertae historiae. Itaque nolo illas Epicuri existimes esse: publicae sunt et maxime nostrae, sed illo magis adnotantur quia rarae interim interveniunt, quia inexspectatae, quia mirum est fortiter aliquid dici ab homine mollitiam professo. Ita enim plerique iudicant: apud me Epicurus est et fortis, licet manuleatus sit; fortitudo et industria et ad bellum prompta mens tam in Persas quam in alte cinctos cadit. [3] Non est ergo quod exigas excerpta et repetita: continuum est apud nostros quidquid apud alios excerpitur. Non habemus itaque ista ocliferia nec emptorem decipimus nihil inventurum cum intraverit praeter illa quae in fronte suspensa sunt: ipsis permittimus unde velint sumere exemplar. [4] Iam puta nos velle singulares sententias ex turba separare: cui illas assignabimus? Zenoni an Cleanthi an Chrysippo an Panaetio an Posidonio Non sumus sub rege: sibi quisque se vindicat. Apud istos quidquid Hermarchus dixit, quidquid Metrodorus, ad unum refertur; omnia quae quisquam in illo contubernio locutus est unius ductu et auspiciis dicta sunt. Non possumus, inquam, licet temptemus, educere aliquid ex tanta rerum aequalium multitudine: pauperis est numerare pecus.

1 Tu vuoi che anche in queste lettere, come nelle precedenti, io aggiunga qualche massima dei nostri maestri. Essi non si sono occupati di sentenze: l'intero ordito delle loro opere è pieno di vigore. Sappi che c'è disuguaglianza dove si notano concetti che spiccano sugli altri. Non può essere oggetto di ammirazione un solo albero, quando tutto il bosco è cresciuto alla stessa altezza. 2 Di frasi simili sono pieni anche i poemi e le storie. Pertanto non voglio che tu ascriva ad Epicuro quelle massime: appartengono a tutti e soprattutto a noi Stoici, ma in lui si notano di più perché compaiono raramente, inaspettate, e poi perché queste espressioni virili sorprendono pronunciate da un uomo che professa la mollezza. Così crede la maggior parte della gente: secondo me Epicuro è virile anche se indossa una veste da donna; la fortezza, l'operosità e uno spirito battagliero si possono trovare tanto nei Persiani, quanto negli uomini che vestono abiti succinti. 3 Non c'è, quindi, motivo che tu chieda massime scelte e ripetute: nella nostra scuola è continuo quel pensiero che negli altri filosofi è espresso qua e là. Non abbiamo pertanto merce che dà nell'occhio, e non inganniamo il compratore: chi entra troverà solo gli articoli in mostra all'esterno: gli lasciamo scegliere un campione dove vuole. 4 Immagina che noi vogliamo selezionare da tutto l'insieme singole massime: a chi le attribuiremo? A Zenone, a Cleante, a Crisippo, a Panezio, a Posidonio? Non siamo sotto un monarca: ciascuno rivendica i propri diritti. Presso gli Epicurei, invece, ciò che ha detto Ermarco o Metrodoro, è riportato a uno solo; e il pensiero che qualcuno ha espresso in quella scuola, è stato espresso sotto la guida e gli auspici di uno solo. Noi non possiamo, sostengo, anche se lo tentassimo, da una così grande quantità di concetti dello stesso valore, enuclearne qualcuno: È il povero che conta le sue pecore.

LIBRO IV LETTERA TRENTATREESIMA 5-11

Quocumque miseris oculum, id tibi occurret quod eminere posset nisi inter paria legeretur. [5] Quare depone istam spem posse te summatim degustare ingenia maximorum virorum: tota tibi inspicienda sunt, tota tractanda. res geritur et per lineamenta sua ingenii opus nectitur ex quo nihil subduci sine ruina potest. Nec recuso quominus singula membra, dummodo in ipso homine, consideres: non est. formonsa cuius crus laudatur aut brachium, sed illa cuius universa facies admirationem partibus singulis abstulit. [6] Si tamen exegeris, non tam mendice tecum agam, sed plena manu fiet; ingens eorum turba est passim iacentium; sumenda erunt, non colligenda. Non enim excidunt sed fluunt; perpetua et inter se contexta sunt. Nec dubito quin multum conferant rudibus adhuc et extrinsecus auscultantibus; facilius enim singula insidunt circumscripta et carminis modo inclusa. [7] Ideo pueris et sententias ediscendas damus et has quas Graeci chrias vocant, quia complecti illas puerilis animus potest, qui plus adhuc non capit. Certi profectus viro captare flosculos turpe est et fulcire se notissimis ac paucissimis vocibus et memoria stare: sibi iam innitatur. Dicat ista, non teneat; turpe est enim seni aut prospicienti senectutem ex commentario sapere. 'Hoc Zenon dixit': tu quid? 'Hoc Cleanthes': tu quid? Quousque sub alio moveris? impera et dic quod memoriae tradatur, aliquid et de tuo profer. [8] Omnes itaque istos, numquam auctores, semper interpretes, sub aliena umbra latentes, nihil existimo habere generosi, numquam ausos aliquando facere quod diu didicerant. Memoriam in alienis exercuerunt; aliud autem est meminisse, aliud scire. Meminisse est rem commissam memoriae custodire; at contra scire est et sua facere quaeque nec ad exemplar pendere et totiens respicere ad magistrum. [9] 'Hoc dixit Zenon, hoc Cleanthes.' Aliquid inter te intersit et librum. Quousque disces? iam et praecipe. Quid est quare audiam quod legere possum? 'Multum' inquit 'viva vox facit.' Non quidem haec quae alienis verbis commodatur et actuari vice fungitur. [10] Adice nunc quod isti qui numquam tutelae suae fiunt primum in ea re sequuntur priores in qua nemo non a priore descivit; deinde in ea re sequuntur quae adhuc quaeritur. Numquam autem invenietur, si contenti fuerimus inventis. Praeterea qui alium sequitur nihil invenit, immo nec quaerit. [11] Quid ergo? non ibo per priorum vestigia? ego vero utar via vetere, sed si propiorem planioremque invenero, hanc muniam. Qui ante nos ista moverunt non domini nostri sed duces sunt. Patet omnibus veritas; nondum est occupata; multum ex illa etiam futuris relictum est. Vale.

Dovunque volgerai lo sguardo, ti capiteranno sotto gli occhi pensieri che potrebbero spiccare se non fossero letti in mezzo ad altri di uguale importanza. 5 Abbandona, perciò la tua speranza di poter gustare per sommi capi l'ingegno degli uomini più grandi: devi esaminarlo e considerarlo nella sua totalità. Il pensiero si svolge con continuità e l'opera dell'ingegno è concatenata nelle sue linee fondamentali: niente può essere tolto senza che l'insieme crolli. Non dico che non si debbano prendere in considerazione le membra una per una, purché non si perda di vista l'individuo: non è bella la donna di cui si lodano le gambe o le braccia, ma quella la cui bellezza nel suo insieme distoglie dall'ammirare le singole parti. 6 Tuttavia, se lo chiederai, non mi comporterò con te meschinamente, ma darò a piene mani; da ogni parte c'è grande abbondanza di massime: basta prenderle, non occorre raccoglierle. Non compaiono di tanto in tanto, ma fluiscono a profusione; sono continue e concatenate. Servono molto, non ne dubito, alle persone ancòra incolte la cui attenzione è solo esteriore: singoli concetti circoscritti e racchiusi nella misura di un verso rimangono impressi più facilmente. 7 Perciò ai fanciulli facciamo imparare a memoria le massime e quelle che i greci chiamano chreiai perché l'intelligenza infantile arriva a comprenderle, mentre non è ancòra in grado di recepire concetti più complessi. Per un uomo maturo è una vergogna cercare di cogliere fiorellini e puntellarsi con pochissime massime, le più famose, basandosi sulla memoria: deve ormai appoggiarsi su se stesso. Concetti del genere li esprima con parole sue e non stia a impararli a memoria. È riprovevole per un vecchio o per uno ormai prossimo alla vecchiaia avere una cultura antologica: "Questo l'ha detto Zenone"; e tu, cosa dici? "Questo Cleante"; e tu? Fino a quando ti muoverai sotto la guida di un altro? Prendi il comando e pronuncia frasi che meritino di essere imparate a memoria, tira fuori anche qualcosa di tuo. 8 Tutti costoro, mai autori, sempre interpreti, nascosti all'ombra degli altri, non nutrono, secondo me, sentimenti magnanimi e non hanno mai osato fare una buona volta quello che per tanto tempo hanno imparato. Hanno esercitato la memoria su concetti di altri; ma una cosa è ricordare, un'altra sapere. Ricordare è conservare i concetti affidati alla memoria; sapere, invece, è far propri i concetti senza dipendere dai modelli e senza guardare sempre al maestro. 9 "Questo l'ha detto Zenone, questo Cleante." Deve esserci una differenza fra te e il libro. Fino a quando imparerai? Ormai è tempo anche di insegnare. Perché dovrei stare a sentire una cosa che posso leggere? "A viva voce le idee risultano molto più efficaci", ribatti. Non se si prendono a prestito da altri le parole e si funge da segretari. 10 Inoltre costoro, che non si rendono mai autonomi, seguono le teorie dei filosofi precedenti anche per questioni sulle quali tutti gli altri si sono dissociati e poi per quelle su cui ancòra si discute. Non scopriremo mai niente, se ci accontentiamo delle scoperte già fatte. Inoltre, se uno segue le orme di un altro, non trova niente, anzi neppure cerca. 11 E allora? Non dovrò seguire le orme di chi mi ha preceduto? Certo posso percorrere la vecchia strada, ma se ne troverò una più corta e più piana, cercherò di aprirla. Quegli uomini che hanno suscitato questi problemi prima di noi non sono i nostri padroni, ma le nostre guide. La verità è aperta a tutti; nessuno se n'è ancòra impossessato; gran parte di essa è stata lasciata anche ai posteri. Stammi bene.

LIBRO IV LETTERA TRENTAQUATTRESIMA XXXIV.
SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Cresco et exsulto et discussa senectute recalesco quotiens ex iis quae agis ac scribis intellego quantum te ipse - nam turbam olim reliqueras - superieceris. Si agricolam arbor ad fructum perducta delectat, si pastor ex fetu gregis sui capit voluptatem, si alumnum suum nemo aliter intuetur quam ut adulescentiam illius suam iudicet, quid evenire credis iis qui ingenia educaverunt et quae tenera formaverunt adulta subito vident? [2] Assero te mihi; meum opus es. Ego cum vidissem indolem tuam, inieci manum, exhortatus sum, addidi stimulos nec lente ire passus sum sed subinde incitavi; et nunc idem facio, sed iam currentem hortor et invicem hortantem. [3] 'Quid illud?' inquis 'adhuc volo.' In hoc plurimum est, non sic quomodo principia totius operis dimidium occupare dicuntur. Ista res animo constat; itaque pars magna bonitatis est velle fieri bonum. Scis quem bonum dicam? perfectum, absolutum, quem malum facere nulla vis, nulla necessitas possit. [4] Hunc te prospicio, si perseveraveris et incubueris et id egeris ut omnia facta dictaque tua inter se congruant ac respondeant sibi et una forma percussa sint. Non est huius animus in recto cuius acta discordant. Vale.

34 1 Mi sento fiero ed esulto; mi scuoto di dosso la vecchiaia e riprendo l'antico ardore tutte le volte che da quello che fai e scrivi capisco quanto hai superato te stesso - la massa l'hai lasciata indietro già da tempo. Se l'agricoltore è contento quando un albero produce i suoi frutti, se il pastore gioisce per i piccoli nati nel gregge, se ognuno guardando il figlio considera la sua giovinezza come propria, cosa pensi che senta chi ha educato un carattere, l'ha plasmato ancòra tenero, e all'improvviso lo vede maturo? 2 Ti dichiaro mio; sei opera mia. Quando ho capito la tua indole, ti ho preso sotto la mia tutela, ti ho esortato, spronato, non ho lasciato che tu avanzassi lentamente, ma ti ho incitato in continuazione; ed ora faccio lo stesso, ma ti sprono quando tu già stai correndo e mi esorti a tua volta. 3 "Che dici?" obietti. "Finora ho solo dato prova di buona volontà." Questo è già moltissimo e non nel senso banale di "chi ben comincia è alla metà dell'opera." È una questione morale; pertanto gran parte della bontà consiste nel volere diventar buoni. Sai chi definisco buono? L'individuo perfetto, completo, che nessuna forza, nessuna necessità può rendere malvagio. 4 Prevedo che diventerai così, se sarai perseverante e tenace e farai in modo che tutti i tuoi atti e le tue parole siano coerenti, consonanti e abbiano un'unica impronta. Non è onesto l'animo dell'uomo, le cui azioni non concordino. Stammi bene.

LIBRO IV LETTERA TRENTACINQUESIMA XXXV.
SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Cum te tam valde rogo ut studeas, meum negotium ago: habere amicum volo, quod contingere mihi, nisi pergis ut coepisti excolere te, non potest. Nunc enim amas me, amicus non es. 'Quid ergo? haec inter se diversa sunt?' immo dis similia. Qui amicus est amat; qui amat non utique amicus est; itaque amicitia semper prodest, amor aliquando etiam nocet. [2] Si nihil aliud, ob hoc profice, ut amare discas. Festina ergo dum mihi proficis, ne istuc alteri didiceris. Ego quidem percipio iam fructum, cum mihi fingo uno nos animo futuros et quidquid aetati meae vigoris abscessit, id ad me et tua, quamquam non multum abest, rediturum; sed tamen re quoque ipsa esse laetus volo. [3] Venit ad nos ex iis quos amamus etiam absentibus gaudium, sed id leve et evanidum: conspectus et praesentia et conversatio habet aliquid vivae voluptatis, utique si non tantum quem velis sed qualem velis videas. Affer itaque te mihi, ingens munus, et quo magis instes, cogita te mortalem esse, me senem. [4] Propera ad me, sed ad te prius. Profice et ante omnia hoc cura, ut constes tibi. Quotiens experiri voles an aliquid actum sit, observa an eadem hodie velis quae heri: mutatio voluntatis indicat animum natare, aliubi atque aliubi apparere, prout tulit ventus. Non vagatur quod fixum atque fundatum est: istud sapienti perfecto contingit, aliquatenus et proficienti provectoque. Quid ergo interest? hic commovetur quidem, non tamen transit, sed suo loco nutat; ille ne commovetur quidem. Vale.

35 1 Quando ti chiedo con tanta insistenza di dedicarti allo studio, lo faccio nel mio interesse. Voglio avere un amico, ma questa fortuna non mi può toccare, se tu non continui, come hai cominciato, a perfezionare te stesso. Ora mi ami, ma non sei un amico. "Come? Sono due cose diverse?" Certamente, anzi dissimili. Chi è amico ama, ma chi ama non sempre è un amico; e pertanto l'amicizia giova sempre, l'amore, invece, può a volte anche nuocere. Cerca di fare progressi se non altro almeno per imparare ad amare veramente. 2 Sbrigati, dunque, in modo che i tuoi progressi giovino a me e tu non debba imparare per un altro. Io ne raccolgo già i frutti, quando mi immagino che noi saremo un'anima sola e il vigore che se n'è andato con l'età mi verrà dai tuoi anni, sebbene non ci sia tra noi molta differenza; ma voglio essere soddisfatto anche di come stanno le cose ora. 3 Dalle persone che amiamo, se pure sono lontane, ci viene una gioia, lieve però e caduca: la vista, la presenza, i rapporti diretti danno un vivo piacere, soprattutto se abbiamo davanti, non solo la persona che vogliamo, ma come la vogliamo. Vieni, dunque, da me, mi farai un grande regalo e, per essere più pronto, pensa che tu sei mortale e io vecchio. 4 Affréttati verso di me, ma prima ancora verso di te. Cerca di migliorare e innanzi tutto preoccupati di essere coerente con te stesso. Ogni volta che vuoi constatare se hai fatto qualche progresso, considera se oggi vuoi le stesse cose di ieri: un cambiamento di volontà indica che l'animo ondeggia e compare ora da una parte ora dall'altra, come lo porta il vento. Se una cosa è salda e ha buone fondamenta, non va qua e là, e questa è una caratteristica del perfetto saggio e, in certa misura, anche di chi avanza e fa progressi. Dunque, che differenza c'è fra i due? Quest'ultimo, è scosso, tuttavia non si muove, ma vacilla sulla sua posizione. Il saggio non è neppure scosso. Stammi bene.

LIBRO QUARTO LETTERA TRENTASEESIMA 1-6 XXXVI.
SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Amicum tuum hortare ut istos magno animo contemnat qui illum obiurgant quod umbram et otium petierit, quod dignitatem suam destituerit et, cum plus consequi posset, praetulerit quietem omnibus; quam utiliter suum negotium gesserit cotidie illis ostentet. Hi quibus invidetur non desinent transire: alii elidentur, alii cadent. Res est inquieta felicitas; ipsa se exagitat. Movet cerebrum non uno genere: alios in aliud irritat, hos in impotentiam, illos in luxuriam; hos inflat, illos mollit et totos resolvit. [2] 'At bene aliquis illam fert.' Sic, quomodo vinum. Itaque non est quod tibi isti persuadeant eum esse felicem qui a multis obsidetur: sic ad illum quemadmodum ad lacum concurritur, quem exhauriunt et turbant. 'Nugatorium et inertem vocant.' Scis quosdam perverse loqui et significare contraria. Felicem vocabant: quid ergo? erat? [3] Ne illud quidem curo, quod quibusdam nimis horridi animi videtur et tetrici. Ariston aiebat malle se adulescentem tristem quam hilarem et amabilem turbae; vinum enim bonum fieri quod recens durum et asperum visum est; non pati aetatem quod in dolio placuit. Sine eum tristem appellent et inimicum processibus suis: bene se dabit in vetustate ipsa tristitia, perseveret modo colere virtutem, perbibere liberalia studia, non illa quibus perfundi satis est, sed haec quibus tingendus est animus. [4] Hoc est discendi tempus. 'Quid ergo? aliquod est quo non sit discendum?' Minime; sed quemadmodum omnibus annis studere honestum est, ita non omnibus institui. Turpis et ridicula res est elementarius senex: iuveni parandum, seni utendum est. Facies ergo rem utilissimam tibi, si illum quam optimum feceris; haec aiunt beneficia esse expetenda tribuendaque, non dubie primae sortis, quae tam dare prodest quam accipere. [5] Denique nihil illi iam liberi est, spopondit; minus autem turpe est creditori quam spei bonae decoquere. Ad illud aes alienum solvendum opus est negotianti navigatione prospera, agrum colenti ubertate eius quam colit terrae, caeli favore: ille quod debet sola potest voluntate persolvi. [6] In mores fortuna ius non habet. Hos disponat ut quam tranquillissimus ille animus ad perfectum veniat, qui nec ablatum sibi quicquam sentit nec adiectum, sed in eodem habitu est quomodocumque res cedunt; cui sive aggeruntur vulgaria bona, supra res suas eminet, sive aliquid ex istis vel omnia casus excussit, minor non fit.

36 1 Esorta il tuo amico a disprezzare orgogliosamente quelli che lo criticano perché ha scelto una vita umbratile e ritirata, perché ha lasciato la sua brillante posizione e, pur potendo arrivare più in alto, ha anteposto a tutto la tranquillità; mostri loro ogni giorno come abbia fatto utilmente il proprio interesse. Gli uomini oggetto di invidia sono destinati a scomparire: alcuni verranno eliminati, altri cadranno. La prosperità è inquieta; si tormenta da sé. Essa sconvolge la mente in svariati modi: eccita gli uomini a passioni diverse: gli uni alla sete di potere, gli altri alla lussuria; rende tronfi i primi, snerva e svigorisce completamente i secondi. 2 "Ma qualcuno la regge bene." Sì, come il vino. Perciò non farti convincere da costoro che è felice chi è assediato da molte persone: corrono da lui come a una sorgente d'acqua che esauriscono e intorbidano. "Lo chiamano buono a nulla e inetto." Sai che certe persone parlano a rovescio e dànno alle parole il significato opposto. Lo definivano felice: e allora? Lo era veramente? 3 E non mi preoccupo neppure del fatto che secondo alcuni è troppo duro e severo. Aristone diceva di preferire un giovane austero a uno allegro e gradito alla folla; diventa un buon vino quello che, nuovo, sembrava acerbo e aspro; mentre il vino gradevole già nella botte non regge all'invecchiamento. Lascia che lo definiscano triste e nemico dei propri successi: quando sarà vecchio la sua stessa tristezza si rivelerà positiva, purché perseveri nel coltivare la virtù e si imbeva di studi liberali, non quelli con cui è sufficiente bagnarsi, ma questi in cui bisogna immergere lo spirito. 4 Il tempo di imparare è questo. "Come? C'è un tempo in cui non bisogna imparare?" No; ma, mentre è giusto studiare a qualsiasi età, non lo è andare sempre a scuola. È vergognoso e ridicolo che un vecchio sia ancòra alle nozioni elementari: il giovane deve prepararsi, il vecchio deve mettere a profitto. Farai, quindi, una cosa a te molto utile se renderai il tuo amico il migliore possibile; i benefici che si devono chiedere ed elargire, dicono, appartenenti senza dubbio alla categoria più alta, sono quelli che è utile sia fare che ricevere. 5 Infine, costui non è più libero: ha dato la sua parola; ed è meno disonesto fallire ai danni di un creditore, che deludere una buona speranza. Il commerciante ha bisogno di una navigazione propizia per saldare i suoi debiti, l'agricoltore della fertilità del terreno che coltiva e di un clima favorevole: il tuo amico, invece, può pagare con la sola volontà il suo debito: la fortuna non vanta nessun diritto nella sfera morale. 6 Regoli la sua condotta in modo che il suo spirito giunga alla perfezione in tutta tranquillità, senza fare caso a ciò che gli viene tolto o aggiunto, mantenendo, però sempre lo stesso atteggiamento comunque vadano le cose: se gli aumenteranno i beni graditi alla massa, se ne sentirà al di sopra; se la sorte gliene toglierà una parte o tutti, non si sentirà sminuito.

LIBRO IV LETTERA TRENTASEESIMA 7-12

[7] Si in Parthia natus esset, arcum infans statim tenderet; si in Germania, protinus puer tenerum hastile vibraret; si avorum nostrorum temporibus fuisset, equitare et hostem comminus percutere didicisset. Haec singulis disciplina gentis suae suadet atque imperat. [8] Quid ergo huic meditandum est? quod adversus omnia tela, quod adversus omne hostium genus bene facit, mortem contemnere, quae quin habeat aliquid in se terribile, ut et animos nostros quos in amorem sui natura formavit offendat, nemo dubitat; nec enim opus esset in id comparari et acui in quod instinctu quodam voluntario iremus, sicut feruntur omnes ad conservationem sui. [9] Nemo discit ut si necesse fuerit aequo animo in rosa iaceat, sed in hoc duratur, ut tormentis non summittat fidem, ut si necesse fuerit stans etiam aliquando saucius pro vallo pervigilet et ne pilo quidem incumbat, quia solet obrepere interim somnus in aliquod adminiculum reclinatis. Mors nullum habet incommodum; esse enim debet aliquid cuius sit incommodum. [10] Quod si tanta cupiditas te longioris aevi tenet? cogita nihil eorum quae ab oculis abeunt et in rerum naturam, ex qua prodierunt ac mox processura sunt, reconduntur consumi: desinunt ista, non pereunt, et mors, quam pertimescimus ac recusamus, intermittit vitam, non eripit; veniet iterum qui nos in lucem reponat dies, quem multi recusarent nisi oblitos reduceret. [11] Sed postea diligentius docebo omnia quae videntur perire mutari. Aequo animo debet rediturus exire. Observa orbem rerum in se remeantium: videbis nihil in hoc mundo exstingui sed vicibus descendere ac surgere. Aestas abit, sed alter illam annus adducet; hiemps cecidit, referent illam sui menses; solem nox obruit, sed ipsam statim dies abiget. Stellarum iste discursus quidquid praeterit repetit; pars caeli levatur assidue, pars mergitur. [12] Denique finem faciam, si hoc unum adiecero, nec infantes [nec] pueros nec mente lapsos timere mortem et esse turpissimum si eam securitatem nobis ratio non praestat ad quam stultitia perducit. Vale.

7 Se fosse nato tra i Parti, già da fanciullo imparerebbe a tendere l'arco; se fosse nato in Germania, fin da piccolo scaglierebbe l'asta flessibile; se fosse vissuto ai tempi dei nostri avi, avrebbe imparato a cavalcare e a colpire il nemico combattendo corpo a corpo. È il modo di vivere della propria gente a consigliare e a imporre ai singoli queste attività. 8 Su che cosa, dunque, deve riflettere il tuo amico? Su quello che serve contro ogni arma, contro ogni genere di nemici: il disprezzo della morte; essa ha in sé qualcosa di terribile, che affligge il nostro spirito per natura amante di se stesso: nessuno lo mette in dubbio; non sarebbe necessario prepararsi ed esercitarsi a un evento verso il quale andassimo per impulso volontario, così come tutti sono portati alla propria conservazione. 9 Nessuno impara a starsene tranquillamente, se necessario, sopra un letto di rose, ma cerca di abituarsi a non cedere ai tormenti, a vegliare a difesa delle fortificazioni, in caso di bisogno, stando in piedi, talvolta anche ferito, e a non appoggiarsi al giavellotto, perché spesso il sonno sorprende chi si appoggia a un sostegno. La morte non provoca nessun danno; altrimenti dovrebbe esserci qualcosa che subisce questo danno. 10 Se desideri tanto una vita più lunga, pensa che nessuno degli esseri che spariscono al nostro sguardo e si nascondono in seno alla natura, da dove sono usciti e presto usciranno di nuovo, si consuma: ogni cosa finisce, ma non si annienta; la morte che tanto temiamo e rifiutiamo, interrompe la vita, non la elimina; verrà di nuovo il giorno che ci riporterà alla luce, ma molti lo rifiuterebbero se non tornassero ormai dimentichi del passato. 11 In seguito ti spiegherò più scrupolosamente come tutto ciò che sembra finire, in realtà muta. Siamo destinati a tornare, e dobbiamo, perciò uscire serenamente dalla vita. Osserva il corso delle cose che ritornano in se stesse: vedrai che nulla a questo mondo si estingue, ma alternativamente declina e risorge. L'estate se n'è andata, ma l'anno venturo la ricondurrà con sé; l'inverno è finito, lo riporteranno i mesi che gli sono propri; la notte ha oscurato il sole, ma sùbito il giorno la scaccerà a sua volta. Gli astri ripercorrono nella loro corsa gli spazi già attraversati; di continuo una parte del cielo si solleva, una parte sprofonda. 12 Concludo, ma voglio aggiungere ancora una cosa: gli infanti, i fanciulli, i pazzi non temono la morte; e allora è proprio vergognoso che la ragione non sia in grado di darci quella serenità interiore a cui porta l'assenza di raziocinio. Stammi bene.

LIBRO IV LETTERA TRENTASETTESIMA XXXVII.
SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Quod maximum vinculum est ad bonam mentem, promisisti virum bonum, sacramento rogatus es. Deridebit te, si quis tibi dixerit mollem esse militiam et facilem. Nolo te decipi. Eadem honestissimi huius et illius turpissimi auctoramenti verba sunt: 'uri, vinciri ferroque necari'. [2] Ab illis qui manus harenae locant et edunt ac bibunt quae per sanguinem reddant cavetur ut ista vel inviti patiantur: a te ut volens libensque patiaris. Illis licet arma summittere, misericordiam populi temptare: tu neque summittes nec vitam rogabis; recta tibi invictoque moriendum est. Quid porro prodest paucos dies aut annos lucrificare? sine missione nascimur. [3] 'Quomodo ergo' inquis 'me expediam?' Effugere non potes necessitates, potes vincere. Fit via ; et hanc tibi viam dabit philosophia. Ad hanc te confer si vis salvus esse, si securus, si beatus, denique si vis esse, quod est maximum, liber; hoc contingere aliter non potest. [4] Humilis res est stultitia, abiecta, sordida, servilis, multis affectibus et sacrissimis subiecta. Hos tam graves dominos, interdum alternis imperantes, interdum pariter, dimittit a te sapientia, quae sola libertas est. Una ad hanc fert via, et quidem recta; non aberrabis; vade certo gradu. Si vis omnia tibi subicere, te subice rationi; multos reges, si ratio te rexerit. Ab illa disces quid et quemadmodum aggredi debeas; non incides rebus. [5] Neminem mihi dabis qui sciat quomodo quod vult coeperit velle: non consilio adductus illo sed impetu impactus est. Non minus saepe fortuna in nos incurrit quam nos in illam. Turpe est non ire sed ferri, et subito in medio turbine rerum stupentem quaerere, 'huc ego quemadmodum veni?' Vale.

37 1 Hai promesso di essere un uomo virtuoso, ti sei impegnato con un giuramento: e questo è il vincolo più grande per arrivare alla saggezza. Se uno ti dicesse che è un'impresa facile e agevole, ti schernirebbe. Non voglio che tu sia ingannato. Le parole di questo giuramento, che è il più onorevole, e di quello dei gladiatori, che è il più disonorevole, sono identiche: "Sopportare il fuoco, le catene e la morte di spada." 2 Dai gladiatori che prestano le loro mani all'arena e mangiano e bevono quanto dovranno restituire col sangue, si esige che sopportino questi tormenti anche controvoglia: da te, che tu lo faccia volontariamente e di buon grado. A loro è concesso abbassare le armi e invocare la pietà del popolo: tu non potrai arrenderti, e neppure chiedere grazia della vita; devi morire in piedi e invitto. A che serve, poi, guadagnare pochi giorni o pochi anni? Siamo nati per combattere a oltranza. 3 "E come me la caverò?" chiedi. Non puoi sfuggire al destino, puoi solo vincerlo. Ci si apre la strada con la forza, e questa strada te la indicherà la filosofia. Volgiti a essa, se vuoi essere salvo, sereno, felice, e infine, se vuoi essere, e questo è il massimo, libero; non si può diventarlo in altro modo. 4 La stoltezza è cosa meschina, ignobile, sordida, da schiavi, soggetta a molte, violentissime passioni. La saggezza, l'unica vera libertà, allontana da te dei padroni tanto gravosi, che comandano un po' alternativamente, un po' tutti insieme. E alla saggezza porta un'unica via e diritta; non puoi sbagliare; avanza con passo sicuro. Se vuoi sottomettere a te ogni cosa, sottomettiti alla ragione; farai da guida a molti se la ragione farà da guida a te. Da essa imparerai che cosa devi intraprendere e in che modo; non ti imbatterai inaspettatamente negli eventi. 5 Tu non puoi citarmi nessuno che sappia come ha cominciato a volere le cose che vuole: non vi è giunto di proposito, vi è capitato seguendo un impulso. La fortuna ci viene incontro tanto spesso quanto noi andiamo incontro a lei. È vergognoso non avanzare, ma essere trascinati e, trovandosi improvvisamente in mezzo alla tempesta degli eventi, chiedersi stupiti: "Come sono arrivato a questo punto?" Stammi bene.

LIBRO IV LETTERA TRENTOTTESIMA XXXVIII
SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Merito exigis ut hoc inter nos epistularum commercium frequentemus. Plurimum proficit sermo, quia minutatim irrepit animo: disputationes praeparatae et effusae audiente populo plus habent strepitus, minus familiaritatis. Philosophia bonum consilium est: consilium nemo clare dat. Aliquando utendum est et illis, ut ita dicam, contionibus, ubi qui dubitat impellendus est; ubi vero non hoc agendum est, ut velit discere, sed ut discat, ad haec submissiora verba veniendum est. Facilius intrant et haerent; nec enim multis opus est sed efficacibus. [2] Seminis modo spargenda sunt, quod quamvis sit exiguum, cum occupavit idoneum locum, vires suas explicat et ex minimo in maximos auctus diffunditur. Idem facit ratio: non late patet, si aspicias; in opere crescit. Pauca sunt quae dicuntur, sed si illa animus bene excepit, convalescunt et exsurgunt. Eadem est, inquam, praeceptorum condicio quae seminum: multum efficiunt, et angusta sunt. Tantum, ut dixi, idonea mens rapiat illa et in se trahat; multa invicem et ipsa generabit et plus reddet quam acceperit. Vale.

38 1 È giusta la tua richiesta di intensificare questo nostro carteggio. Una conversazione alla buona giova moltissimo, poiché si insinua nell'anima a poco a poco: le dissertazioni preparate ed esposte alla presenza del pubblico hanno più risonanza, ma sono meno familiari. La filosofia è un buon consiglio: e nessuno dà consigli ad alta voce. A volte bisogna ricorrere anche a quelle così dette "concioni", quando bisogna stimolare una persona incerta; quando, però lo scopo non è di ottenere che voglia imparare, ma che impari, bisogna ricorrere a queste parole più sommesse. Penetrano e rimangono impresse con maggiore facilità; e non ne occorrono molte, purché siano efficaci. 2 Bisogna spargerle come un seme, che, per quanto minuscolo, se cade nel terreno adatto, sprigiona le sue forze e da piccolissimo si dilata fino a raggiungere il massimo sviluppo. Lo stesso fa la ragione: se osservi, non appare grande: cresce nell'agire. Sono poche le cose che si dicono, ma se l'animo le accoglie bene, acquistano vigore e si sviluppano. I precetti, a mio parere, sono come i semi: danno grossi risultati, eppure sono piccola cosa. Come ho detto, però occorre che li afferri e li assorba una mente adatta; essa a sua volta produrrà molti frutti e darà più di quanto ha ricevuto. Stammi bene.

LIBRO QUARTO LETTERA TRENTANOVESIMA XXXIX
SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Commentarios quos desideras, diligenter ordinatos et in angustum coactos, ego vero componam; sed vide ne plus profutura sit ratio ordinaria quam haec quae nunc vulgo breviarium dicitur, olim cum latine loqueremur summarium vocabatur. Illa res discenti magis necessaria est, haec scienti; illa enim docet, haec admonet. Sed utriusque rei tibi copiam faciam. Tu a me non est quod illum aut illum exigas: qui notorem dat ignotus est. [2] Scribam ergo quod vis, sed meo more; interim multos habes quorum scripta nescio an satis ordinentur. Sume in manus indicem philosophorum: haec ipsa res expergisci te coget, si videris quam multi tibi laboraverint. Concupisces et ipse ex illis unus esse; habet enim hoc optimum in se generosus animus, quod concitatur ad honesta. Neminem excelsi ingenii virum humilia delectant et sordida: magnarum rerum species ad se vocat et extollit. [3] Quemadmodum flamma surgit in rectum, iacere ac deprimi non potest, non magis quam quiescere, ita noster animus in motu est, eo mobilior et actuosior quo vehementior fuerit. Sed felix qui ad meliora hunc impetum dedit: ponet se extra ius dicionemque fortunae; secunda temperabit, adversa comminuet et aliis admiranda despiciet. [4] Magni animi est magna contemnere ac mediocria malle quam nimia; illa enim utilia vitaliaque sunt, at haec eo quod superfluunt nocent. Sic segetem nimia sternit ubertas, sic rami onere franguntur, sic ad maturitatem non pervenit nimia fecunditas. Idem animis quoque evenit quos immoderata felicitas rumpit, qua non tantum in aliorum iniuriam sed etiam in suam utuntur. [5] Qui hostis in quemquam tam contumeliosus fuit quam in quosdam voluptates suae sunt? quorum impotentiae atque insanae libidini ob hoc unum possis ignoscere, quod quae fecere patiuntur. Nec immerito hic illos furor vexat; necesse est enim in immensum exeat cupiditas quae naturalem modum transilit. Ille enim habet suum finem, inania et ex libidine orta sine termino sunt. [6] Necessaria metitur utilitas: supervacua quo redigis? Voluptatibus itaque se mergunt quibus in consuetudinem adductis carere non possunt, et ob hoc miserrimi sunt, quod eo pervenerunt ut illis quae supervacua fuerant facta sint necessaria. Serviunt itaque voluptatibus, non fruuntur, et mala sua, quod malorum ultimum est, et amant; tunc autem est consummata infelicitas, ubi turpia non solum delectant sed etiam placent, et desinit esse remedio locus ubi quae fuerant vitia mores sunt. Vale.

39 1 Ti preparerò senz'altro gli appunti che mi chiedi, ordinati con cura e brevi; bada, però, che il sistema abituale non sia più utile di questo che ora comunemente si chiama breviarium e che un tempo, quando parlavamo un buon latino, si chiamava summarium. Il primo metodo serve di più a chi impara, il secondo a chi già sa; l'uno insegna, l'altro richiama alla memoria. Ma di entrambi te ne farò avere in abbondanza. Tu non devi chiedermi questo o quell'autore: solo chi è sconosciuto presenta un garante. 2 Ti scriverò ciò che vuoi, ma a modo mio; intanto hai a disposizione molti scrittori; non so, però se le loro opere sono abbastanza ordinate. Prendi in mano l'elenco dei filosofi: già questo ti costringerà a scuoterti, vedendo quanti hanno faticato per te. Desidererai essere anche tu uno di loro; la qualità migliore di un animo generoso è l'istinto al bene. Nessun uomo di spirito elevato si compiace di cose abiette e sordide: lo attira e lo esalta la bellezza delle cose grandi. 3 La fiamma si leva diritta, non può stare distesa o abbassarsi, come non può rimanere ferma; così il nostro spirito è sempre in movimento, ed è più mobile e attivo quanto maggiore sarà il suo impeto. Ma beato l'uomo che ha rivolto questo slancio al meglio: si sottrarrà al dominio e al potere della sorte; sarà moderato nella prosperità, attenuerà le sventure e disdegnerà quanto gli altri ammirano. 4 Un animo grande disprezza la grandezza e preferisce la moderazione agli eccessi; quella è utile e vitale, questi, invece, nuocciono, proprio perché sono superflui. Un'eccessiva fertilità danneggia le messi; i rami si spezzano per il peso; una soverchia fecondità non arriva alla maturazione. Così capita anche allo spirito: una prosperità smodata lo fiacca e diventa dannosa non soltanto per gli altri, ma anche per lui stesso. 5 Nessuno è stato oltraggiato tanto da un nemico quanto certi uomini dai propri piaceri. La loro sfrenatezza e la loro insana libidine può essere perdonabile solo perché quello che hanno fatto ricade su di loro. E questa follia li tortura a ragione; i desideri che superano i confini naturali sfociano inevitabilmente nella dismisura: la natura ha un suo limite, mentre i desideri vani e scaturiti dalla libidine non ne hanno. 6 L'utilità dà la misura del necessario: ma il superfluo in che modo si può misurarlo? Alcuni, perciò si immergono nei piaceri e, abituatisi, non ne possono più fare a meno e sono davvero infelici perché arrivano al punto che per loro il superfluo diventa necessario. Non godono dei piaceri, ne sono schiavi e per giunta, e questo è il male estremo, i propri mali li amano; si arriva al culmine dell'infelicità, quando le azioni abiette non solo allettano, ma piacciono, e non c'è più modo di rimediare se quelli che erano vizi, diventano abitudini. Stammi bene.

LIBRO QUARTO LETTERA QUARANTESIMA 1 XL.
SENECA LUCILIO SUO SALUTEM

[1] Quod frequenter mihi scribis gratias ago; nam quo uno modo potes te mihi ostendis. Numquam epistulam tuam accipio ut non protinus una simus. Si imagines nobis amicorum absentium iucundae sunt, quae memoriam renovant et desiderium [absentiae] falso atque inani solacio levant, quanto iucundiores sunt litterae, quae vera amici absentis vestigia, veras notas afferunt? Nam quod in conspectu dulcissimum est, id amici manus epistulae impressa praestat, agnoscere.

40 1 Tu mi scrivi spesso e io ti ringrazio: ti mostri a me nell'unico modo possibile. Ogni volta che ricevo una tua lettera, siamo subito insieme. Se i ritratti dei nostri amici assenti ci sono graditi, perché rinnovano il ricordo e alleviano la nostalgia con un falso ed effimero conforto, tanto più ci è gradita una lettera, che porta le vere tracce, i veri segni dell'amico assente. La sensazione più dolce che si prova alla presenza di un amico, il riconoscerlo, ce la dà l'impronta della sua mano nella lettera.

LIBRO QUARTO LETTERA QUARANTESIMA 2-8

[2] Audisse te scribis Serapionem philosophum, cum istuc applicuisset: 'solet magno cursu verba convellere, quae non effundit anima sed premit et urguet; plura enim veniunt quam quibus vox una sufficiat'. Hoc non probo in philosopho, cuius pronuntiatio quoque, sicut vita, debet esse composita; nihil autem ordinatum est quod praecipitatur et properat. Itaque oratio illa apud Homerum concitata et sine intermissione in morem nivis superveniens oratori data est, lenis et melle dulcior seni profluit. [3] Sic itaque habe: [ut] istam vim dicendi rapidam atque abundantem aptiorem esse circulanti quam agenti rem magnam ac seriam docentique. Aeque stillare illum nolo quam currere; nec extendat aures nec obruat. Nam illa quoque inopia et exilitas minus intentum auditorem habet taedio interruptae tarditatis; facilius tamen insidit quod exspectatur quam quod praetervolat. Venique tradere homines discipulis praecepta dicuntur: non traditur quod fugit. [4] Adice nunc quod quae veritati operam dat oratio incomposita esse debet et simplex: haec popularis nihil habet veri. Movere vult turbam et inconsultas aures impetu rapere, tractandam se non praebet, aufertur: quomodo autem regere potest quae regi non potest? Quid quod haec oratio quae sanandis mentibus adhibetur descendere in nos debet? remedia non prosunt nisi immorantur. [5] Multum praeterea habet inanitatis et vani, plus sonat quam valet. Lenienda sunt quae me exterrent, compescenda quae irritant, discutienda quae fallunt, inhibenda luxuria, corripienda avaritia: quid horum raptim potest fieri? quis medicus aegros in transitu curat? Quid quod ne voluptatem quidem ullam habet talis verborum sine dilectu ruentium strepitus? [6] Sed ut pleraque quae fieri posse non crederes cognovisse satis est, ita istos qui verba exercuerunt abunde est semel audisse. Quid enim quis discere, quid imitari velit? quid de eorum animo iudicet quorum oratio perturbata et immissa est nec potest reprimi? [7] Quemadmodum per proclive currentium non ubi visum est gradus sistitur, sed incitato corporis ponderi servit ac longius quam voluit effertur, sic ista dicendi celeritas nec in sua potestate est nec satis decora philosophiae, quae ponere debet verba, non proicere, et pedetemptim procedere. [8] 'Quid ergo? non aliquando et insurget?' Quidni? sed salva dignitate morum, quam violenta ista et nimia vis exuit. Habeat vires magnas, moderatas tamen; perennis sit unda, non torrens. Vix oratori permiserim talem dicendi velocitatem inrevocabilem ac sine lege vadentem: quemadmodum enim iudex subsequi poterit aliquando etiam imperitus et rudis? Tum quoque, cum illum aut ostentatio abstulerit aut affectus impotens sui, tantum festinet atque ingerat quantum aures pati possunt.

Scrivi di aver ascoltato il filosofo Serapione, quando è approdato lì, in Sicilia: "Parla molto velocemente e perciò storpia sempre le parole e non lascia che si diffondano [...], ma le constringe tutte insieme accavallandole: gli arrivano alle labbra più numerose di quanto si possano pronunciare con un'unica emissione di voce." Questo non lo approvo in un filosofo: il suo modo di parlare deve essere composto, come la sua vita; non può esserci ordine, se c'è precipitazione e foga. Perciò l'eloquenza concitata, che fluisce senza interruzione come la neve, Omero l'attribuisce all'oratore giovane; ma nel vecchio le parole scorrono lievi e più dolci del miele. 3 Credimi, la forza di questo eloquio rapido e straripante è più adatta a un ciarlatano, non a un filosofo che tratta e insegna una materia seria e importante. Secondo me, non deve stillare le parole, e nemmeno correre; non deve costringere il pubblico a tendere le orecchie, né frastornarlo. Anche l'eloquenza povera e scarna rende gli ascoltatori meno attenti: la lentezza e le frequenti interruzioni annoiano; tuttavia, un discorso che si fa attendere rimane più facilmente impresso di uno che scorre via veloce. Si dice, infine, che i filosofi trasmettono ai discepoli i loro insegnamenti: ma non si può trasmettere una cosa che fugge via. 4 L'eloquenza al servizio della verità, inoltre, deve essere ordinata e semplice: quella demagogica non rispecchia il vero. Vuole far presa sulla folla e trascinare col suo slancio le orecchie delle persone sconsiderate; non si presta a un attento esame, anzi se ne sottrae: e come può governare se non può essere governata? Questo tipo di oratoria, volta a sanare gli animi, deve scendere in noi: i rimedi non giovano se non svolgono un'azione lenta e costante. 5 Un'eloquenza simile, inoltre, è vana e inutile: ha più risonanza che vigore. Bisogna mitigare le paure, reprimere gli impulsi, dissipare gli inganni, frenare la lussuria, sradicare l'avidità: niente di tutto questo può realizzarsi al volo. Quale medico cura di corsa gli ammalati? E per giunta un tale strepito di parole, che scorrono ammassate alla rinfusa, non provoca nessun piacere. 6 Come la maggior parte dei fatti che credevamo impossibili basta averli osservati una sola volta, così è più che sufficiente aver sentito una sola volta questi oratori da strapazzo. Uno che cosa ha da imparare o da imitare? Come giudicare l'animo di persone che parlano in maniera confusa, sciatta e senza freni? 7 Se uno corre giù per un pendio non riesce a fermarsi nel punto stabilito, ma viene trascinato dal peso del corpo in movimento e va più lontano del voluto; allo stesso modo questa velocità di eloquio non ha dominio su di sé e non è sufficientemente adatta alla filosofia, che le parole deve disporle, non pronunciarle di getto, e deve procedere passo passo. 8 "Ma come? Certe volte l'eloquenza non dovrà anche innalzarsi di tono?" E perché no? Ma salvando la dignità di comportamento che, invece, questa forza eccessiva e violenta le toglie. Sia vigorosa, e tuttavia moderata; simile a una corrente perenne, ma non torrenziale. Una tale velocità di parola irrefrenabile e senza regole potrei ammetterla appena in un oratore: difatti, come potrebbe seguirlo un giudice che a volte è rozzo e inesperto? Ma anche quando lo trascina il desiderio di ostentazione o una passione irrefrenabile, l'oratore deve affrettarsi e ammassare parole solo nei limiti di un ascolto agevole.

LIBRO QUARTO LETTERA QUARANTESIMA 9-10

[9] Recte ergo facies si non audieris istos qui quantum dicant, non quemadmodum quaerunt, et ipse malueris, si necesse est, avel P. Vinicium dicere qui itaqueÅ. Cum quaereretur quomodo P. Vinicius diceret, Asellius ait 'tractim'. Nam Geminus Varius ait, 'quomodo istum disertum dicatis nescio: tria verba non potest iungere'. Quidni malis tu sic dicere quomodo Vinicius? [10] Aliquis tam insulsus intervenerit quam qui illi singula verba vellenti, tamquam dictaret, non diceret, ait 'dic, Ånumquam dicasÅ?' Nam Q. Hateri cursum, suis temporibus oratoris celeberrimi, longe abesse ab homine sano volo: numquam dubitavit, numquam intermisit; semel incipiebat, semel desinebat.

9 Farai bene a non dare retta a questi conferenzieri che si preoccupano di quanto e non di come parlano; tu stesso, se è necessario, è meglio che parli come P. Vinicio. "Come, dunque?" Una volta che si discuteva su come costui parlasse, Asellio disse: "Lentamente", e Gemino Vario replicò: "Non so come possiate definirlo eloquente: non è capace a mettere insieme tre parole." E perché non dovresti preferire di parlare come lui? 10 Certo, potrebbe intervenire uno tanto sciocco come quel tizio che, mentre Vinicio spiccava le parole a una a una, quasi dettasse più che fare un discorso, gli gridò: "Parla, parli dunque?" A mio parere un uomo assennato deve tenersi lontano dalla celerità di Q. Aterio, oratore famosissimo ai suoi tempi: non aveva mai un'esitazione, non faceva mai una pausa; quando cominciava, arrivava fino in fondo.

LIBRO QUARTO LETTERA QUARANTESIMA 11-14

[11] Quaedam tamen et nationibus puto magis aut minus convenire. In Graecis hanc licentiam tuleris: nos etiam cum scribimus interpungere assuevimus. Cicero quoque noster, a quo Romana eloquentia exsiluit, gradarius fuit. Romanus sermo magis se circumspicit et aestimat praebetque aestimandum. [12] Fabianus, vir egregius et vita et scientia et, quod post ista est, eloquentia quoque, disputabat expedite magis quam concitate, ut posses dicere facilitatem esse illam, non celeritatem. Hanc ego in viro sapiente recipio, non exigo; ut oratio eius sine impedimento exeat, proferatur tamen malo quam profluat. [13] Eo autem magis te deterreo ab isto morbo quod non potest tibi ista res contingere aliter quam si te pudere desierit: perfrices frontem oportet et te ipse non audias; multa enim inobservatus ille cursus feret quae reprendere velis. [14] Non potest, inquam, tibi contingere res ista salva verecundia. Praeterea exercitatione opus est cotidiana et a rebus studium transferendum est ad verba. Haec autem etiam si aderunt et poterunt sine ullo tuo labore decurrere, tamen temperanda sunt; nam quemadmodum sapienti viro incessus modestior convenit, ita oratio pressa, non audax. Summa ergo summarum haec erit: tardilocum esse te iubeo. Vale.

11 Tuttavia, penso, che certe caratteristiche si adattino più o meno alle singole popolazioni. Tra i greci questa libertà è tollerabile: noi, invece, siamo abituati a fare delle pause anche quando scriviamo. Pure il nostro Cicerone, da cui scaturì l'eloquenza romana, aveva un'andatura posata. Da noi l'oratoria procede guardandosi più attorno, fa delle valutazioni e si presta ad essere valutata. 12 Fabiano, uomo straordinario sia per la sua vita, che per la sua cultura e, qualità a queste secondaria, anche per la sua eloquenza, si esprimeva speditamente, ma non in maniera concitata; la sua poteva essere definita facilità di parola, non rapidità. Nel saggio la ammetto, ma non la giudico fondamentale; purché le sue frasi vengano fuori senza impedimenti, è meglio tuttavia che siano emesse, piuttosto che sgorghino con profusione. 13 Da questo difetto cerco di tenerti lontano tanto più perché può sopravvenire solo se perderai il tuo pudore: devi deporre ogni vergogna e non ascoltare più te stesso; quella rapidità incontrollata, infatti, porta con sé molti difetti da censurare. 14 Non può ripeto, sopravvenire, se il tuo pudore lo mantieni intatto. È necessario, inoltre, un esercizio giornaliero e bisogna trasferire l'attenzione dai fatti alle parole. Ma anche se queste si presenteranno da sé e potranno fluire senza nessuna fatica da parte tua, bisogna, tuttavia, moderarle; come al saggio si addice un incedere contegnoso, così gli si addice un eloquio cauto, non avventato. In conclusione: parla lentamente. Stammi bene.

LIBRO QUARTO LETTERA QUARANTUNESIMA 1-2 XLI.

SENECA LUCILIO SUO SALUTEM [1] Facis rem optimam et tibi salutarem si, ut scribis, perseveras ire ad bonam mentem, quam stultum est optare cum possis a te impetrare. Non sunt ad caelum elevandae manus nec exorandus aedituus ut nos ad aurem simulacri, quasi magis exaudiri possimus, admittat: prope est a te deus, tecum est, intus est. [2] Ita dico, Lucili: sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos; hic prout a nobis tractatus est, ita nos ipse tractat. Bonus vero vir sine deo nemo est: an potest aliquis supra fortunam nisi ab illo adiutus exsurgere? Ille dat consilia magnifica et erecta. In unoquoque virorum bonorum [quis deus incertum est] habitat deus.

41 1 Fai proprio una cosa buona e a te salutare se, come scrivi, continui ad avanzare verso la saggezza: è insensato chiederla a dio, visto che puoi ottenerla da te. Non occorre alzare le mani al cielo o scongiurare il sacrestano che ci lasci avvicinare alle orecchie della statua, quasi potessimo trovare più ascolto: dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. 2 Secondo me, Lucilio, c'è in noi uno spirito sacro, che osserva e sorveglia le nostre azioni, buone e cattive; a seconda di come noi lo trattiamo, lui stesso ci tratta. Nessun uomo è virtuoso senza dio: oppure qualcuno può ergersi al di sopra della sorte senza il suo aiuto? Egli ci ispira principi nobili ed elevati. In ogni uomo virtuoso

LIBRO QUARTO LETTERA QUARANTUNESIMA 3-8

[3] Si tibi occurrerit vetustis arboribus et solitam altitudinem egressis frequens lucus et conspectum caeli ramorum aliorum alios protegentium summovens, illa proceritas silvae et secretum loci et admiratio umbrae in aperto tam densae atque continuae fidem tibi numinis faciet. Si quis specus saxis penitus exesis montem suspenderit, non manu factus, sed naturalibus causis in tantam laxitatem excavatus, animum tuum quadam religionis suspicione percutiet. Magnorum fluminum capita veneramur; subita ex abdito vasti amnis eruptio aras habet; coluntur aquarum calentium fontes, et stagna quaedam vel opacitas vel immensa altitudo sacravit. [4] Si hominem videris interritum periculis, intactum cupiditatibus, inter adversa felicem, in mediis tempestatibus placidum, ex superiore loco homines videntem, ex aequo deos, non subibit te veneratio eius? non dices, 'ista res maior est altiorque quam ut credi similis huic in quo est corpusculo possit'? [5] Vis isto divina descendit; animum excellentem, moderatum, omnia tamquam minora transeuntem, quidquid timemus optamusque ridentem, caelestis potentia agitat. Non potest res tanta sine adminiculo numinis stare; itaque maiore sui parte illic est unde descendit. Quemadmodum radii solis contingunt quidem terram sed ibi sunt unde mittuntur, sic animus magnus ac sacer et in hoc demissus, ut propius [quidem] divina nossemus, conversatur quidem nobiscum sed haeret origini suae; illinc pendet, illuc spectat ac nititur, nostris tamquam melior interest. [6] Quis est ergo hic animus? qui nullo bono nisi suo nitet. Quid enim est stultius quam in homine aliena laudare? quid eo dementius qui ea miratur quae ad alium transferri protinus possunt? Non faciunt meliorem equum aurei freni. Aliter leo aurata iuba mittitur, dum contractatur et ad patientiam recipiendi ornamenti cogitur fatigatus, aliter incultus, integri spiritus: hic scilicet impetu acer, qualem illum natura esse voluit, speciosus ex horrido, cuius hic decor est, non sine timore aspici, praefertur illi languido et bratteato. [7] Nemo gloriari nisi suo debet. Vitem laudamus si fructu palmites onerat, si ipsa pondere [ad terram] eorum quae tulit adminicula deducit: num quis huic illam praeferret vitem cui aureae uvae, aurea folia dependent? Propria virtus est in vite fertilitas; in homine quoque id laudandum est quod ipsius est. Familiam formonsam habet et domum pulchram, multum serit, multum fenerat: nihil horum in ipso est sed circa ipsum. [8] Lauda in illo quod nec eripi potest nec dari, quod proprium hominis est. Quaeris quid sit? animus et ratio in animo perfecta. Rationale enim animal est homo; consummatur itaque bonum eius, si id implevit cui nascitur. Quid est autem quod ab illo ratio haec exigat? rem facillimam, secundum naturam suam vivere. Sed hanc difficilem facit communis insania: in vitia alter alterum trudimus. Quomodo autem revocari ad salutem possunt quos nemo retinet, populus impellit? Vale.

3 Se ti troverai davanti a un bosco folto di alberi secolari, di altezza insolita, dove la densità dei rami, che si coprono l'un l'altro, impedisce la vista del cielo, l'altezza di quella selva, la solitudine del luogo e lo stupore che desta un'ombra tanto densa e ininterrotta in uno spazio aperto, ti persuaderà che lì c'è un dio. Se una grotta, creata non dalla mano dell'uomo, ma scavata in tanta ampiezza da fenomeni naturali, sostiene su rocce profondamente corrose un monte, un sentimento di religioso timore colpirà il tuo animo. Noi veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi; vengono innalzati altari là dove d'improvviso scaturisce dal sottosuolo una copiosa corrente; onoriamo le fonti di acque termali, e il colore opaco o la smisurata profondità hanno reso sacri certi laghi. 4 Se vedrai un uomo impavido di fronte ai pericoli, libero da passioni, felice nelle avversità, tranquillo in mezzo alle tempeste, che guarda gli altri uomini dall'alto e gli dèi alla pari, non ti pervaderà un senso di rispetto per lui? Non dirai: "C'è un qualcosa di troppo grande ed eccelso perché possa ritenersi simile al povero corpo in cui si trova"? 5 Una forza divina è discesa in lui; una potenza celeste stimola questo spirito straordinario, moderato, che passa oltre ogni cosa considerandola di poco conto, che se la ride dei nostri timori e desideri. Non può un essere così grande restare saldo senza l'aiuto divino; perciò la parte maggiore di lui è là da dove è disceso. Come i raggi del sole raggiungono la terra, ma non si staccano dal loro punto di partenza, così l'anima grande e santa, mandata quaggiù per farci conoscere meglio il divino, sta insieme a noi, ma rimane unita alla sua origine; dipende da essa, a essa guarda e aspira e sta in mezzo a noi come un essere superiore. 6 Qual è, dunque, quest'anima? È l'anima che brilla solo del suo bene. Cosa c'è, infatti, di più insensato che lodare in un uomo beni che non gli appartengono? Chi è più pazzo di uno che apprezza beni che possono sempre passare a un altro? Le briglie d'oro non rendono migliore un cavallo. Un leone dalla criniera dorata, ammansito e costretto, ormai stanco, a sopportare le bardature, si slancia in maniera diversa dal leone selvaggio, nel suo pieno vigore: naturalmente quest'ultimo, violento nella sua furia, quale lo volle la natura, splendido per l'aspetto feroce, la cui bellezza consiste nell'essere guardato con terrore, è preferito a quello fiacco e coperto d'oro. 7 Ognuno si deve gloriare solo di quello che gli appartiene. Lodiamo una vite se i tralci sono carichi di frutti, se la pianta sotto il loro peso abbatte i sostegni: forse qualcuno potrebbe preferire una vite cui fossero appesi grappoli e foglie d'oro? La virtù propria della vite è la fertilità; anche nell'uomo bisogna lodare quello che gli è proprio. Ha begli schiavi, una magnifica casa, vasti terreni seminati, cospicui redditi da usura; nessuno di questi beni è in lui, ma intorno a lui. 8 Nell'uomo devi lodare quello che non può essergli tolto o essergli dato, quello che gli è proprio. Chiedi cos'è? L'anima e nell'anima una ragione perfetta. L'uomo è un animale dotato di ragione: il suo bene lo attua appieno, se adempie al fine per cui è nato. Che cosa esige da lui questa ragione? Una cosa facilissima: che viva secondo la natura che gli è propria. Ma la follia comune la rende una cosa difficile: ci trasciniamo l'un l'altro nei vizi. E come si può ricondurre alla salvezza gente che nessuno trattiene e che è spinta dalla massa? Stammi bene.

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