Cesare varca il Rubicone e Cicerone abbandona Roma

Cesare varca il Rubicone e Cicerone abbandona Roma Cicerone

Quo in discrimine versetur salus mea et bonorum omnium atque unversae rei publicae, ex eo scire potes, quod domos nostras et patriam ipsam...

In quale pericolo si trovi la mia salvezza e quella di tutte le persone oneste e di tutto lo stato lo puoi capire dal fatto che abbiamo lasciato le nostre città e la patria stessa da saccheggiare e da bruciare, abbiamo concesso le nostre case e la nostra stessa patria al saccheggio e all'incendio.

La situazione è stata condotta ad un punto tale che se qualche dio o qualche situazione particolare non avverrà non riusciremo ad uscirne salvi. In quanto a me, da quando sono giunto a Roma, non ho (mai) cessato di convogliare il mio pensiero, la mia eloquenza, il mio operato su tutto ciò che potesse promuovere la concordia.

Ma un singolare furore – il desiderio di venire alle armi – s’era impossessato non solo dei cattivi (cittadini), ma anche di quelli ritenuti onesti, benché io sostenessi a gran voce (ablativo assoluto che facciamo valere come concessivo) che nulla c’è di più orribile della guerra civile.

E così, dal momento che Cesare veniva rapito da una certa qual follia e dimenticasi del suo nome, e dei suoi onori dal momento che ha occupato Rimini, Pesaro, Arezzo (lett. abbiamo= plurale maiestatis) ho lasciato la città. Quanto con coraggio sia stato fatto non importa per niente che sia discusso.

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