La severità non deve essere irragionevole (Versione seneca COTIDIE)
La severità non deve essere irragionevole
Autore: Seneca
Cotidie legere n. 14 pag. 258
Cneius Piso fuit vir pravus, cui placebat pro constantia rigor. Is, cum iratus ad mortem duci iussisset militem, quasi interfecisset commilitonem cum quo egressus erat e castris et sine quo redierat, ei roganti tempus aliquod ad conquirendum amicum non dedit.
Damnatus miles extra vallum castrorum ductus est et iam cervicem securi porrigebat, cum subito apparuit ille commilito qui occisus dicebatur.
Tum centurio, qui supplicio praepositus erat, condere gladium carnificem iubet. Ambo commilitones, alter alterum complexi, ingenti concursu et magno gaudio omnis exercitus deducuntur ad Pisonem. ille conscendit tribunal furens, utrumque ad mortem duci iubet, addit supplicio etiam centurionem qui antea damnatum militem ad eum reduxerat, haec dicens: «Te morte plecti iubeo quia iam antea damnatus es; te quia causa damnationis commilitoni tuo fuisti;
te, improbe centurio, quia, iussus occidere militem damnatum, imperatori tuo non paruisti». Quod non imperatoriam severitatem, sed potius furentis obstinatam pervicaciam appellare aequum videtur.
Gneo Pisone fu un uomo privo di molti vizi, ma, (che preferiva) alla coerenza il rigore.
Questo, avendo in preda all'ira - comandato che fosse condotto a morte un tale che era tornato da una licenza senza il commilitone - quasi che lo avesse ucciso invece che non presentarlo non gli concesse alcun tempo per farne ricerca, (come quello invece) richiedeva. Il condannato fu condotto al di fuori del vallo e oramai porgeva il collo (per essere decapitato), quando subito si presentò proprio quello (cioè il commilitone) che si dava per morto. Al che, il centurione preposto all'esecuzione dà l'ordine alla guardia di riporre la spada e rimette il condannato a Pisone, con l'intenzione di portare (redditurus, participio futuro perifrastico e con valore finale) a Pisone (la prova dell') innocenza (del condannato), (prova che) al soldato aveva reso la buona sorte.
Abbracciati l'un l'altro, tra la grande gioia dell'accampamento, i commilitoni vengono presentati (a Pisone) accompagnati da gran sèguito (ingenti concursu). Pisone, in preda all'ira, sale alla tribuna e ordina che siano giustiziati entrambi: sia quello che non aveva ucciso sia quello che non era stato ucciso. Beh, che cosa c'è di più indegno di ciò? (infatti) perché uno si era rivelato innocente, due ne morivano. E Pisone ne aggiunse addirittura(et) un terzo: infatti, ordinò che venisse giustiziato anche lo stesso centurione che aveva aveva riportato (aveva risparmiato) il condannato. Si trovarono schierati (constituti sunt) in quello stesso luogo tre (persone) destinati a morire [perituri] a causa dell'innocenza di uno. Oh, quant'è solerte l'iracondia ad escogitare motivi di furore!
Disse (qui parla Pisone): "Ordino che tu sia giustiziato, perché sei stato condannato (in precedenza); che tu (cioè l'altro commilitone che non era tornato] (sia condannato a morte) perché sei stato motivo dell'imputazione a morte al tuo compagno; e che tu (il centurione) (sia condannato a morte) perché, ricevuto l'ordine di uccidere, non hai obbedito al comandante".
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