L'imperatore Vespasiano: le sue qualità - Versione latino di Sventonio da Maiorum lingua

L'imperatore Vespasiano: le sue qualità Versione di latino di Sventonio LIBRO Maiorum lingua

Omnibus in rebus statim ab initio principatus usque ad exitum civilis et clemens, mediocritatem pristinam neque dissimulavit umquam ac frequenter etiam prae se tulit....

Traduzione In tutte le circostanze, fin dal primo momento del principato (lett. immediatamente dall’inizio del principato) fino alla fine, fu umano e clemente, e non nascose mai l’umiltà di origini passata.

E anzi, derise per primo certi che tentavano di far risalire l’origine della famiglia Flavia ai fondatori di Rieti e ad un compagno di Ercole, il cui monumento spicca sulla via Salaria. E a tal punto non desiderò bramosamente nessuno degli ornamenti esteriori (lett. è un avverbio: dal di fuori), che il giorno del trionfo, stanco della lentezza e della noia della processione, non esitò ad affermare che veniva giustamente punito, poiché da vecchio aveva desiderato in maniera così sciocca un trionfo.

E non accettò se non tardivamente neppure la tribunicia potestas e il titolo di padre della patria. Sopportò con estrema indulgenza la libertà degli amici e l’impudenza dei filosofi. Per niente memore dei torti dei suoi avversari, maritò e fornì sontuosamente di dote la figlia del suo nemico Vitellio.

Nonostante gli amici lo avvertissero che bisognava fare attenzione a Mezio Pomposiano, poiché si credeva in maniera generalizzata che fosse destinato a diventare imperatore, lo fece console, dicendo che Mezio prima o poi si sarebbe ricordato del beneficio.

TRADUZIONE ALTERNATIVA

In tutte le sue condotte (in tutte le sue cose= dall'inizio fino alla fine del suo principato, fu semplice come un cittadino e clemente, non nascose mai la mediocrità delle sue origini, e spesso anzi se ne glorio.

Per di più quando alcuni tentarono di far risalire le origini della famiglia Flavia ai fondatori di Rieti e a un compagno di Ercole, la cui tomba si trova ancora sulla via Salaria, egli fu il primo a farsi beffe di loro. Lungi dal ricercare con avidità qualche pompa esteriore, il giorno del suo trionfo, affaticato dalla lentezza e dalla monotonia della sfilata, non esitò a confessare «di essere giustamente punito perché, già vecchio, era stato così folle da desiderare il trionfo, come se fosse dovuto ai suoi antenati o l'avesse mai sperato». Inoltre accettò soltanto molto tardi il potere tribunizio e il titolo di padre della patria.

Quanto all'uso di far perquisire quelli che venivano a salutarlo, l'aveva soppresso quando ancora imperversava la guerra civile. Pronto a dimenticare le offese e gli insulti e per niente incline alla vendetta, accasò splendidamente la figlia del suo nemico Vitellio, le fornì anche una dote e le mise su casa. Quando, sotto il principato di Nerone, gli fu interdetta la corte, poiché, timoroso, domandava ciò che doveva fare e dove dovesse andarsene, uno degli uscieri dell'imperatore gli aveva detto, scacciandolo, «di andare alla malora». Più tardi non inveì contro quest'uomo che implorava il suo perdono, ma si accontentò di ripetergli, quasi parola per parola, la sua stessa espressione.

Ben lungi dal decidersi a far morire chicchessia, o per un sospetto o per timore, quando i suoi amici lo invitarono a diffidare di Mettio Pompusiano, perché un'opinione generale gli attribuiva un oroscopo che presagiva l'Impero, egli lo innalzò perfino al consolato, assicurando che Mettio si sarebbe ricordato un giorno di questo beneficio.

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