Plinio il Vecchio - Naturalis historia libro 10 121, 122, 123
Reddatur et corvis sua gratia, indignatione quoque populi Romani testata... in qua multorum principum nemo deduxerat funus, Scipionis vero Aemiliani post Carthaginem Numantiamque deletas ab eo nemo vindicaverat mortem.
Si restituisca anche ai corvi il loro credito, attestato non solo dalla coscienza, ma anche dallo sdegno del popolo romano.
Sotto il principato di Tiberio, un giovane esemplare (di corvo) da una nindiata nata sopra il tempio dei Dioscuri cadde sopra la bottega di calzolaio lì vicina; era quindi raccomandato al padrone dell’officina anche per la sua origine sacra. L’uccello, addestrato presto a parlare, volava tutte le mattine sulla tribuna degli oratori e, rivolto verso il foro, salutava per nome i principi Tiberio, poi Germanico e Druso, e in seguito la folla dei Romani che passava di là; poi faceva ritorno alla bottega e divenne oggetto di ammirazione per questa sua continuità che durò parecchi anni. Il proprietario di una bottega di calzolaio vicina, o per rivalità verso il suo collega, o per un improvviso eccesso di collera, come volle far credere, poichè gli escrementi dell’uccello avevano macchiato delle scarpe, lo uccise.
e tanta fu l'afflizione popolare che l’uomo prima fu cacciato dal quartiere, poi fu ucciso. Il funerale dell’uccello fu celebrato con un affollato corteo, il letto funebre fu trasportato sulle spalle da due Etiopi, preceduto da un suonatore di flauto e da ghirlande di ogni genere fino al rogo, che fu edificato sulla destra della via Appia, al secondo miglio, nel terreno che ha il nome di Redicolo.
Così al popolo di Roma sembrò che l’intelligenza di un uccello fosse una giustificazione adeguata per rendergli solenni esequie e per la punizione di un cittadino romano, in quella città in cui nessuno aveva partecipato al funerale di molti illustri personaggi e nessuno aveva vendicato la morte di Scipione Emiliano, che aveva raso al suolo Cartagine e Numidia.
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